E-Book, Italienisch, Band 398, 256 Seiten
Reihe: Gli Iperborei
Mínervudóttir Reykjavík, amore
1. Auflage 2025
ISBN: 979-12-81724-16-7
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, Band 398, 256 Seiten
Reihe: Gli Iperborei
ISBN: 979-12-81724-16-7
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Guðrún Eva Mínervudóttir (1976) e? una delle piu? note scrittrici e poetesse islandesi contemporanee. Tradotta in tutto il mondo, ha ricevuto molti premi letterari tra cui il Premio letterario islandese, il Premio culturale DV e il Premio RÚV Writer's Fund per la sua opera.
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Plebe
Ai primi di giugno, quando i tarassachi diventano soffioni, mi sento sempre molto triste. La trovo una trasformazione che fa troppo autunno, per l'inizio dell'estate, e la prendo sul personale – come se fossi io a ingrigire prima del tempo. Quelle soffici nuvolette di semi mi fanno pensare alle generazioni passate. La mamma, la nonna, la bisnonna – per quanto nessuna di loro abbia mai avuto i capelli bianchi. La mamma e la bisnonna sono morte prima di avere davvero i capelli grigi, e la nonna ha prolungato lo splendore della giovinezza tingendoseli.
Da bambina e da adolescente, quando ogni anno l'arrivo dei soffioni mi coglieva di sorpresa, provavo un dolore sproporzionato. Un'estate appena iniziata non dovrebbe già mostrare i segni della fine. Stefán sostiene che un inizio non sia altro che una fine che sta maturando. Il che ovviamente è vero. Ma a volte penso che il finale potrebbe anche restare sospeso un po' più a lungo.
Ricordo l'anno in cui smisi di farmi sorprendere dalla caducità e cominciai a guardarmi intorno in cerca dei soffioni già verso la fine di maggio. Poco prima, quella primavera, mi ero trovata il primo capello bianco; me l'ero strappato, ero uscita sul balcone della mansarda bohémien dove vivevo sulla Laugavegur e l'avevo lasciato fluttuare oltre la ringhiera arrugginita fino al giardino puzzolente di pipì sul retro, dove si era posato su un cerfoglio che stava sbocciando, o era finito su una romice. Con un lungo sospiro abbandonai al vento i miei desideri giovanili di gloria e di fama, di bellezza e d'amore.
Avevo appena conosciuto un ragazzo. Si chiamava Högni e si era appena laureato in medicina. Non riuscivo a togliermelo dalla testa. Il mio cuore era una mongolfiera che mi sollevava da terra.
Le nubi si diradarono e appoggiai le mani sul tetto di lamiera per sentire il ferro arrugginito scaldarsi mentre il sole mi intiepidiva la nuca e la schiena. Un tordo si posò in cima al tetto e ci guardammo per un attimo negli occhi. Poi tornai in casa, presi una mela dalla ciotola sul tavolo e mi sdraiai sul letto disfatto, con la mela in una mano e il telefono nell'altra. Mentre ero sul balcone mi aveva chiamata il nonno.
«Accidenti quant'è brutta la tua segreteria telefonica», diceva nel messaggio, prima di riagganciare.
La voce della segreteria telefonica era quella del mio computer e mi ci erano voluti molti tentativi per scrivere le parole in modo che le leggesse correttamente in islandese, visto che pronunciava all'inglese. Una voce maschile profonda e metallica ringhiava: «Purtroppou in questo momentou Guthríthur non è in casa, lassiate un mesagiou dopo il seg-nale acustico.»
La reazione del nonno mi sorprese. Di solito non mi criticava. Pensavo che avrebbe riso di come avevo sfruttato la tecnologia.
Ammiravo molto mio nonno. Ogni suo accenno di disapprovazione era una piccola disfatta. Da bambina mi spingeva a pedalare da spericolata, o a rispondere a tono senza preoccuparmi di offendere. Capiva che avevo bisogno di essere incoraggiata, se non volevo diventare una casalinga dalla mentalità chiusa ancor prima della cresima. Aveva preso molto sul serio il suo ruolo. Insisteva che mi mandassero da lui un fine settimana sì e uno no per estirpare quel senso di responsabilità che era così radicato in me. Se gli sembrava che la mamma mi opprimesse troppo la affrontava con molta serietà. «Conta su di me, piuttosto», le disse una volta. «Io sono tuo padre. Ti aiuto io.» E lo faceva veramente – quando contava davvero. Dopo la colposcopia di mamma si era trasferito a casa nostra per due settimane, si era occupato di mio fratello Árni e mi aveva preparato tutti i giorni la merenda per la scuola, che di solito mi facevo da sola. A volte però spariva per settimane, o anche mesi. Era uno spirito libero.
Richiamai, ma era occupato.
A chi stai telefonando, nonno, borbottai tra me. Parli con Dio?
Il nonno credeva nei miracoli e non si vergognava di raccontare della prima volta che le sue preghiere erano state esaudite. Da bambino andava a pescare con i fratelli. Un giorno erano in barca. Il cielo era coperto, ma non c'era vento e non faceva freddo. Solo che poi le nubi si erano abbassate e loro, alla deriva in mezzo alla nebbia, avevano perso l'orientamento e non sapevano più dove fosse la costa. Lui aveva implorato Dio di salvarli e per un attimo le nubi si erano diradate mostrandogli la terra. Il nonno raccontava di un tunnel, o un varco. Per un attimo si era creato un varco nell'oscurità – ed era bastato. Avevano remato con tutte le loro forze ed erano finalmente riusciti a tirare in secco la barca. La loro madre li aspettava sulla costa. A me sembra più probabile che fosse stata lei con la sua disperazione ad aprire un varco nella nebbia, piuttosto che il nonno, inginocchiato nella barchetta piena d'acqua e interiora di pesce. Ma che ne so io, in fondo?
Quest'episodio il nonno me l'aveva raccontato talmente tante volte che quando sentivo la sua voce mi vedevo sempre davanti la bisnonna, sulla riva, a piangere. Quell'immagine nella mia mente era diventata tutt'uno con la figura di mio nonno. Così non era soltanto il nonno a disprezzare la mia segreteria telefonica, ma anche la bisnonna.
Ebbi la sensazione che il mondo si stesse sgretolando. Ma non avevo sensi di colpa. Non era colpa mia, se io avevo avuto il tempo di divertirmi con la segreteria telefonica e invece la bisnonna aveva pianto in riva al mare.
Chiamai mia madre.
«Ha telefonato il nonno», le dissi mentre mi avvolgevo una ciocca di capelli con un dito e inarcavo la schiena. Pensavo a Högni. «Sono sicura che volesse chiedermi che regalo vuoi per il tuo compleanno. Non ho fatto in tempo a rispondere, quindi mi sa che ha chiamato Árni. In ogni modo, adesso è occupato.»
«Ok», rispose la mamma con indifferenza.
«Che cosa vorresti per il tuo compleanno?» chiesi. Alzai lo sguardo verso il paralume all'uncinetto che lei mi aveva regalato quando mi ero trasferita. Il tessuto era ingiallito con il tempo e il fumo di decenni di canne.
«Magari uno di quei saponi che vendi tu», disse, e non so perché ma la sua risposta mi mise a disagio. Facevo la rappresentante per una ditta che produceva e vendeva saponi biologici e delicati a base di erbe islandesi. Prima avevo lavorato in una panetteria. Erano passati tre anni da quando mi ero laureata all'Accademia d'Arte di Londra.
«Oppure qualche giocattolo per gatti, quelli che trovi nel negozio di animali», aggiunse. «Ho preso una micia ma devo ancora comprarle il collare, le ciotole e una cuccia. Vorrei una cuccia di quelle che sembrano piccole grotte morbide, sai, dove si può infilare.»
«E come fa a entrare e uscire da casa tua?» le chiesi.
«Non esce mai», rispose la mamma. «Ha la lettiera. Le fa bene stare in casa. E abituarsi agli esseri umani. Ha vissuto in strada per tutta la vita. È uno di quei gatti randagi recuperati dal gattile di Hafnarfjörður.»
«Cioè?»
«Erano cento ma ne dovevano sopprimere la metà», continuò la mamma. «Alcuni avevano perso una zampina o un occhio, oppure erano malati e denutriti e non si sarebbero salvati. Kleópatra si nasconde sotto i mobili della cucina, ma ogni tanto riesco a prenderla e ad accarezzarla un pochino. Si irrigidisce tutta quando la tengo in braccio, si sente quant'è magra e muscolosa. Non è per niente come accarezzare un gatto normale.»
Alzai gli occhi al cielo come un'adolescente. «Mamma, i gatti che da piccoli non sono stati a contatto con le persone restano selvatici per sempre. Tanto valeva mettersi in casa una volpe. Perché non ti sei presa un gatto normale?»
«Non volevo un gatto normale.»
Ma io e lei ci conoscevamo bene. Inutile fingere tra di noi. Mi sembrò di capire dal tono di voce che si era pentita di aver preso un animale che non si faceva coccolare e accarezzare. Si sentiva sola.
«Mamma», le dissi. «Ho conosciuto una persona.»
Seguì un silenzio che non capii, finché lei non replicò: «Anch'io.»
«Davvero? Come si chiama?» chiesi.
«Izemrasen», rispose.
«È siriano?»
«Viene dal Nord Africa. È del popolo amazigh, che significa “popolo libero”. Sono un misto di sangue arabo e italiano.»
«Ma che bello», le dissi, convinta. «Come si scrive?»
«A-m-a-z-i-g-h», scandì lei. «A Casablanca faceva l'insegnante. Ma aveva troppe opinioni. L'hanno minacciato e hanno tentato di ammazzarlo. È dovuto scappare e ora aspetta il permesso di soggiorno.»
Bevve qualcosa e deglutì.
Fissai l'armadio, che aveva un'anta sempre aperta. Il contenuto straripava sul pavimento. Metà dei miei vestiti arrivava da negozi di catene a buon mercato, quelle che sfruttano il lavoro minorile. L'altra metà me li aveva regalati la mamma perché non le piacevano più oppure perché secondo lei stavano meglio a me. «È una cosa seria?» le chiesi.
«Be', vedersi non è facile, dato che lui abita in un centro per i profughi e tuo fratello ha ancora le chiavi di casa e viene spesso, lo sai, perché i suoi coinquilini fanno troppo chiasso e si ubriacano sempre.»
«Sì, lo so.»
«Quindi siamo stati insieme… solo una volta. Ma potrebbe essere una cosa seria.»
«Insomma, diciamo che ti sei trovata un gatto selvatico e un fidanzato senzatetto», e nell'istante in cui lo dicevo mi venne un dubbio. «Ma quanti anni ha?»
Dopo un attimo di esitazione la mamma rispose: «È del '72.»
Del 1972. Lo...