Nescio | Storie di Amsterdam | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 174 Seiten

Nescio Storie di Amsterdam


1. Auflage 2015
ISBN: 978-88-7091-398-9
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 174 Seiten

ISBN: 978-88-7091-398-9
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



«Fu un'epoca meravigliosa. Anche se, a pensarci bene, è un'epoca che deve durare ancora adesso, durerà sempre finché ci saranno ragazzi di diciannove, vent'anni.» È la voglia di rivoluzionare il mondo che i bohémien di Nescio hanno in comune con i ragazzi di tutti i tempi, hippy ante litteram in un'Amsterdam di inizio Novecento, in rivolta contro un sistema che esige routine, lavoro e successo. Sono «giovani Titani» che inseguono i propri sogni, illusi che il semplice astenersi dal gioco, la loro stessa povertà, la scelta di dedicarsi all'arte, quel continuare a desiderare, senza sapere bene cosa, siano già un segno di vittoria, uno strumento per sconfiggere un mondo che finirà invece per fagocitarli o espellerli. Japi «lo scroccone», che non vorrebbe fare altro che guardare il mare, ma ama troppo i piaceri mondani per non tuffarcisi quando sono gli altri a pagare il conto; Koekebakker, giornalista ormai famoso, che finisce per perdere ogni idealismo; Bavink, artista affermato, che capisce di essere uguale ai ricchi borghesi da lui detestati. Sono queste le storie di Amsterdam, e quelle del poeta Eduard, di Bekker, di Hoyer, con le passioni, le trasgressioni, la follia e i caffè, i canali, il mare, i tramonti, i magnifici paesaggi dello Zuiderzee. Vite che si accendono in dialoghi così essenziali da far pensare a Beckett, con un'ironica e brillante leggerezza che maschera appena la costante malinconia di fondo, non solo per l'inevitabile sconfitta, i sogni traditi, le illusioni perdute, ma per quel senso di totale disincanto che comunica Nescio: con una sconvolgente modernità, come dice il suo pseudonimo, l'autore non sa, interroga l'inspiegabile assurdità del vivere.

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I


A parte l’uomo che riteneva la Sarphatistraat il posto più bello d’Europa,1 non ho mai incontrato un tipo più strano dello scroccone.

Lo scroccone che ti ritrovavi sdraiato sul tuo letto con le scarpe sporche quando rientravi a casa tardi la sera. Lo scroccone che si fumava i tuoi sigari, si riempiva la pipa con il tuo tabacco, si scaldava col tuo carbone, metteva il naso nei tuoi armadi, prendeva in prestito i tuoi soldi, consumava le tue scarpe e si infilava il tuo cappotto se doveva tornare a casa sotto la pioggia. Lo scroccone che ordinava sempre qualcosa da mangiare a sbafo di qualcun altro, che se ne stava come un pascià a bere l’acquavite di ginepro ai tavolini dell’Hollandais a spese della compagnia, che si faceva prestare un ombrello e non lo restituiva mai, che riusciva a rompere la stufa di seconda mano di Bavink, che si metteva i colletti finti di suo fratello, che prestava a destra e a manca i libri di Appi, che faceva viaggi all’estero ogni volta che riusciva a spennare il suo vecchio e indossava vestiti che non pagava mai.

Si chiamava Japi. Il cognome non l’ho mai saputo. Bavink l’aveva appresso quando è tornato da Veere.

Per tutta un’estate Bavink era rimasto in Zelanda a dipingere. A Veere aveva visto Japi per la prima volta. Se ne stava lì seduto, nient’altro. Bavink aveva già pensato in più occasioni: che razza di tipo è quello? Nessuno lo sapeva. Lo si trovava sempre da qualche parte vicino all’acqua. Se ne stava lì per ore immobile. A mezzogiorno e alle sei rientrava a casa per un’oretta, a mangiare, il resto della giornata lo passava lì seduto. Andò avanti così per due o tre settimane, poi Bavink non lo vide più.

Poco tempo dopo Bavink stava rientrando da Rotterdam. Di tanto in tanto sentiva il bisogno di vedersi intorno molta gente. Aveva girovagato per qualche giorno nel porto di Rotterdam e gli era più che bastato. A bordo del battello tra Numansdorp e Zijpe eccolo lì di nuovo. C’era un bel po’ di vento, quella mattina, una bella brezza fredda, e le onde erano increspate di bianco. Ogni tanto gli spruzzi arrivavano oltre il parapetto, sul ponte di prua. Le porte a vetri erano chiuse, sul ponte non c’era nessuno. Solo Japi se ne stava lì, lo sguardo perso in lontananza, bagnato fradicio. «Ma guarda», pensò Bavink, «di nuovo quel tipo.» Gli si avvicinò. Il battello rollava e beccheggiava. Japi stava seduto sulla panchina, tenendo fermo il berretto con la mano, e si lasciava inzuppare. Ci volle un po’ prima che si accorgesse di avere qualcuno accanto.

«Bel tempo eh, capo?» disse Bavink.

Japi lo guardò con i suoi grandi occhi azzurri continuando a tener fermo il berretto. Proprio allora uno spruzzo arrivò sul ponte, le gocce gli bagnarono il volto.

«Non c’è male», rispose Japi.

Con un tonfo la prua ricadde pesantemente sull’acqua. Un signore cercava senza riuscirci di aprire le porte a vetri del salone battute dal vento.

«Siamo in perfetto orario», osservò Bavink tanto per dire qualcosa.

«Ah sì?» rispose Japi. «Non ho il senso del tempo.»

La conversazione stentava ad avviarsi. Japi scrutava le onde. Bavink osservava il berretto grigio di Japi e si domandava che tipo fosse. Tutt’a un tratto Japi disse:

«Guardi, un arcobaleno nell’acqua.»

Si distingueva sull’acqua un pezzetto di arcobaleno, in cielo niente. Di nuovo Japi guardò Bavink con i suoi grandi occhi azzurri e all’improvviso si fece loquace.

«Lo trovo dannatamente bello», disse. «Peccato che non sia sempre così.»

«Tra un’oretta siamo arrivati», osservò Bavink.

«Va a Zierikzee?» domandò Japi.

«Sì», rispose Bavink, «e stasera proseguo per Veere.»

«Ah, ecco», disse Japi. «Ha preso alloggio lì?»

«Sì, ho preso alloggio lì. E lei non è il signore di Amsterdam che sta sempre seduto vicino all’acqua?»

Japi scoppiò a ridere: «Ogni tanto sto seduto vicino all’acqua, sì, ma è un po’ esagerato. Di notte me ne sto nel mio letto, ho bisogno di un’ora per vestirmi e per fare colazione, una mezz’ora la passo a pranzo e alle sei devo mangiare di nuovo. Ma ogni tanto vado a sedermi vicino all’acqua. È per questo che vengo in Zelanda. Mi do anche troppo da fare. Questa settimana sono stato ad Amsterdam. Non c’era scelta, avevo finito i soldi.»

«Lei è di Amsterdam?» domandò Bavink.

«Sì, grazie a Dio», rispose Japi.

«Anch’io», disse Bavink. «Lei non dipinge?» gli chiese poi. Era una strana domanda piccolo borghese, ma Bavink continuava a chiedersi che tipo fosse mai quello.

«No, grazie a Dio», rispose Japi. «E non compongo nemmeno poesie, non sono un amante della natura né un anarchico. Grazie a Dio non sono assolutamente niente.»

Ce n’era di che incantare Bavink.

Il battello si impennava, ricadeva, rollava e beccheggiava; gli spruzzi si abbattevano a pioggia oltre il parapetto; sul ponte non si vedeva nessun altro. Davanti a loro l’acqua si stendeva a perdita d’occhio, costellata di creste bianche; l’ombra di una grande nuvola fluttuava come un’isola alla deriva; un cargo nero li precedeva a grande distanza ondeggiando.

«Guardi», indicò Japi. «La .»

Si vedeva da lontano l’acqua sollevarsi in aria da entrambi i lati della prua, e agitarsi, ribollire e spumeggiare intorno all’elica. Le onde si inarcavano in creste affilate, verdi, azzurre, gialle, grigie, bianche, a seconda della profondità e dei riflessi delle nuvole, in nessun punto e nessun istante uguali a se stesse. Un piccolo rimorchiatore trainava una chiatta e altri due barconi.

«No», riprese Japi, «non sono niente e non faccio niente. A dire la verità faccio anche troppo. Sono occupato a morire. La cosa migliore è starsene fermo: muoversi e pensare va bene per gli idioti. Io non penso nemmeno. È già un peccato dover mangiare e dormire. Mi piacerebbe potermene stare semplicemente seduto da qualche parte giorno e notte.»

Bavink cominciava a trovare il caso interessante. Annuì soltanto. Japi continuava a tenersi il berretto con la destra, il gomito appoggiato al parapetto. Il vento era così forte che doveva ripararsi il naso con la mano per riuscire a respirare. Japi se ne stava lì seduto come fosse a casa sua. Disse che aveva intenzione di rimanere ancora qualche settimana a Veere, finché gli duravano i soldi.

Dipingere gli sembrava una bella cosa, se si era capaci. Lui non era capace di fare niente, e quindi non faceva niente. E poi non è possibile riprodurre le cose come le sperimenti. Lui aveva un unico desiderio: morire interiormente, diventare inaccessibile alla fame e al sonno, al freddo e all’umidità. Erano quelli i veri nemici. Dover sempre ed eternamente mangiare e dormire, ripararsi dal freddo, bagnarsi, ammalarsi, stancarsi. Ecco, quella distesa d’acqua lì intorno sì che se la passava bene, a non fare altro che increspare le onde e rispecchiare le nuvole, sempre diversa e sempre uguale. Niente la toccava.

Per tutto quel tempo Bavink era rimasto in piedi controvento, appoggiato al bastone, limitandosi ad annuire. «Neanche poi tanto strampalato», pensava. E in tono indifferente gli domandò se proseguiva anche lui per Veere. E così il discorso cadde su Zierikzee, Middelburg, Arnemuiden e su tutti quei luoghi dove entrambi avevano vagabondato, sostato, soggiornato. Japi, infatti, aveva fatto anche altro nella vita, oltre a star seduto vicino all’acqua a Veere. E ben presto Bavink si rese conto che Japi non era capace solo di camminare, fermarsi e sedersi, sapeva anche guardare. E parlare a ruota libera di qualsiasi cosa. E quando sbarcarono insieme a Zijpe, Japi fece un gesto verso sud-ovest, in direzione del massiccio campanile di Zierikzee, che si distingueva appena all’orizzonte, e disse: «Il grosso Jan; il vecchio, paziente, grosso Jan. È ancora lì. Ne ero sicuro. Ecco, è ancora lì.» Allora Bavink gli domandò se lo metteva sempre così di buon umore, e lui rispose: «Sì.» Nient’altro. E quando arrivarono a Zierikzee e scesero dal tram, Japi fece battere le suole delle scarpe sul selciato rovente di questa e quella stradina senz’ombra che se ne stava lì a cuocere al sole, si stiracchiò e disse che in fin dei conti la vita era diabolicamente divertente. Poi minacciò il sole con il bastone da passeggio e disse: «E questo sole, allora. Brilla, ma sta scendendo, non sale più, mezzogiorno è passato, deve calare: stasera farà di nuovo fresco. La gente farebbe tanto d’occhi se non calasse. Fa un bel caldo, eh? I vestiti mi si appiccicano addosso. L’aria di mare lava al vapore il mio colletto.»

E si capì allora che quella storia di morire non andava poi presa così alla lettera.

A tavola Japi fu più che loquace. Parlava per tre, mangiava per sei. «L’aria di mare svuota», si dice a Veere. Bevve per altri sei e cantò tutta la canzone del brigantino Nancy. In breve: era vivace e...



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