Nooteboom | Pioggia rossa | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, Band 399, 256 Seiten

Reihe: Gli Iperborei

Nooteboom Pioggia rossa


1. Auflage 2025
ISBN: 979-12-81724-21-1
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, Band 399, 256 Seiten

Reihe: Gli Iperborei

ISBN: 979-12-81724-21-1
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Da oltre cinquant'anni, Minorca, un microcosmo di vento e siccità, è il rifugio mediterraneo di Cees Nooteboom, che vi passa le estati. Tra i pozzi abbandonati e i muretti a secco dell'isola, testimonianze silenziose della sopravvivenza del passato, si aggirano cani, asini e la gatta Pipistrello, confortante emblema dell'eterno ritorno, protettrice domestica dalla tristezza improvvisa. Lì, finalmente fuori dal mondo, Nooteboom può badare al suo giardino e riordinare i ricordi. Ripercorrendo il suo passato attraverso un mosaico di poesie, diari e racconti, con Pioggia rossa lo scrittore ed eterno pellegrino tenta di conciliare il paradosso di una vita: per metà dell'anno i viaggi tra il freddo di Amsterdam, i tropici del Sudamerica, l'Estremo Oriente, a bordo di aerei sgangherati, traghetti e automobili; per l'altra metà l'immobilità di un villaggio dove si parla menorquin e neanche la posta sembra arrivare. Cosa rimane dopo decenni di scissione tra il qui e l'altrove? Il mal di schiena, l'ironia del senno di poi e un po' di saggezza, oltre agli amici di sempre, già immortalati nei romanzi. E poi la fede nella poesia, quella di Leopardi, Slauerhoff, Rimbaud, e la nostalgia dei mondi che non esistono più, come l'Ibiza degli anni Cinquanta, paradiso di assenzio, poeti e pescatori. Ma anche la certezza di poter tornare al giardino che di anno in anno cresce più rigoglioso, e lì sperare che il barro, la pioggia rossa di Minorca, carica di sabbia del Sahara trasportata dal vento, avveri il sogno del viaggiatore: «Andare avanti nello spazio e indietro nel tempo.»

Autore di romanzi, poesie, saggi e libri di viaggio, è ritenuto «una delle voci più alte nel coro degli scrittori contemporanei» (The New York Times), paragonato dalla critica a Borges, Calvino e Nabokov. È stato insignito di numerosi premi letterari e tradotto in più di trenta paesi. Nato all'Aia nel 1933 ed eterno viaggiatore, si è rivelato a soli ventidue anni con Philip e gli altri e ha raggiunto il successo internazionale con romanzi come Rituali e Il canto dell'essere e dell'apparire. Tra le sue ultime opere pubblicate da Iperborea, Avevo mille vite e ne ho preso una sola, Tumbas, Cerchi infiniti, 533. Il libro dei giorni, Venezia. Il leone, la città e l'acqua, Saigoku. Il pellegrinaggio giapponese dei 33 templi, Verso Santiago. Digressioni sulle strade di Spagna e la raccolta poetica Addio.
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L'isola


1


Dunque c'era Maria e c'era Bartolomeu, c'era il pino e c'erano tre bambini. Sulla mia isola spagnola abitavano dirimpetto a me in una casa di proprietà della moglie di Juan, il fratello di Bartolomeu. Accanto a loro viveva un vecchio contadino con la schiena incurvata dal duro lavoro e un figlio che, con l'età, prometteva di diventare altrettanto curvo. Il vecchio contadino, che pareva un tronco d'albero, mi aveva venduto un pezzo di terra poco prima di andarsene: gli servivano soldi, perché sua figlia stava per sposarsi. In seguito mi è capitato di incontrarlo in paese, in compagnia del figlio, e poi d'un tratto non l'ho più visto.

Padre e figlio erano praticamente un tutt'uno con la terra, una tipologia umana che sembra essersi estinta. Il terreno ormai non viene più coltivato perché non rende, è circondato da altri campi incolti, piccoli appezzamenti delimitati da muretti di pietre accatastate che vanno in rovina con estrema lentezza. Appartengono a proprietari invisibili che li lasciano dormienti nei registri catastali nella speranza che un giorno aumentino di valore. È vietato costruirci sopra, e io sono circondato da tutti quei campetti infestati di cespugli di more e cardi selvatici, dove a volte viene parcheggiato per un po' un cavallo oppure un asino, un paradiso per lucertole e tartarughe. Albicocchi, susini e limoni hanno pian piano ceduto, con i loro scheletri rinsecchiti si sono trasformati in monumenti funebri di se stessi. Io li lascio così, perché fino a poco tempo fa non avevo acqua per annaffiarli tutti nelle estati di estrema siccità e perché in questo modo la mia quiete viene preservata. E poi mi dà già abbastanza da fare il mio giardino.

Sono passati quasi quarant'anni dalla mia prima volta qui. La casa, che un tempo doveva essere appartenuta a un piccolo coltivatore o a un bracciante, andava smantellata e rialzata. Era bianca, come tutte le case sull'isola, pure le tegole del tetto erano intonacate a calce per proteggere dal caldo torrido dell'estate. Due cose erano state evidenti da subito: l'acqua e Maria. L'acqua perché mancava, e Maria perché la sentivi ovunque. Riconoscerei la sua voce anche sul letto di morte, un suono stridulo e acuto con cui era capace di richiamare i figli dall'altro capo del mondo. Parlava il dialetto locale, una variante del catalano che in realtà gli abitanti considerano una lingua a sé. Qui spesso soffia la tramontana, altrettanto spesso lo xaloc, e insieme agli altri venti, che hanno tutti nomi ugualmente belli, ha contribuito alla creazione di una lingua locale dura, respingente, per poter parlare controvento, come cocci di terracotta gettati in una vasca di zinco. A leggerla è bellissima, è una lingua antica; è come ricevere una lettera dal Medioevo, specie se si tratta di argomenti feudali, per esempio a quale distanza bisogna vivere da un pozzo per avere il permesso di scavarne uno proprio. Acqua si dice aigu e così diventa una sostanza diversa, un qualcosa di prezioso a cui sono legati diritti e doveri.

2


Sulle isole il mondo si divide in dolce e salato. A volte, quando sento la necessità di semplificare la mia visione del mondo, vado sul lato opposto dell'isola, lascio la macchina davanti a un edificio scolastico fatiscente immerso in un insensato isolamento, da dove si inerpica il sentiero per il monte Agueda. È una salita ripida, resa impervia dalle grosse pietre che sembrano trascinate giù da un'alluvione. D'inverno il maltempo può imperversare brutalmente, la pioggia trasforma il sentiero in un ruscello vorticoso; d'estate si cammina nel letto asciutto del fiume, che a un certo punto, inspiegabilmente, si trasforma in una stretta strada lastricata. Quest'isola è stata occupata da chiunque, è piena di misteriosi monumenti preistorici degli antichi abitanti, costruzioni di enormi blocchi di pietra che non si capisce come siano stati sovrapposti. Dopodiché sono arrivati gli iberi, i fenici, i romani, gli aragonesi e i catalani, e dal Nordafrica e dall'islamica Andalusia gli arabi, che qui ancora chiamano mori. Molto dopo sono passati anche gli olandesi, i francesi avevano qui una guarnigione: il mio villaggio porta il nome di san Luigi, un tempo re di Francia. Infine gli inglesi hanno controllato da qui mezzo Mediterraneo, per via della grande importanza strategica dell'isola. Ma già molto prima, da torri di guardia rotonde disseminate lungo la costa, si scrutava costantemente il mare per respingere in tempo gli invasori. Non appena venivano avvistate navi nemiche, di torre in torre si accendevano grandi fuochi per avvisare, lungo tutta la costa, dell'imminente invasione.

Le torri sono ancora lì, come anche le rovine della grande fortezza costruita dagli arabi sul monte Agueda nel 1100. Ogni tanto salgo per quel ripido sentiero accidentato fino a un'altezza di trecento metri. La pavimentazione della strada è formata da grosse pietre irregolari che mi ostino a pensare siano state piazzate lì dai romani. A metà strada dalla cima c'è una curiosa area di sosta, dove tra i cespugli selvatici accanto a un capanno fatiscente c'è la carcassa di un'auto degli anni Venti o Trenta. Ora ci cresce dentro un alberello, in quella macchina, che credo sia una Hispano Suiza. L'ho vista marcire lentamente nel corso di decenni, le piogge invernali l'hanno ricoperta di uno strato di ruggine del colore scarlatto del sangue rappreso. Tutto quello che si poteva togliere è stato portato via, solo il volante spunta fuori dritto e impacciato in segno di disperazione. È impossibile che qualcuno sia arrivato guidando l'auto fin lassù, eppure eccola lì, arenata a metà strada. Quel qualcuno doveva essere stato estremamente cocciuto o disperatamente ubriaco. Per il resto della salita ho qualcosa su cui riflettere.

In cima si respira un'aria di mistero. Un tempo, oltre ai soldati inglesi, doveva averci abitato una famiglia di contadini. Fino a qualche anno fa c'erano delle pecore, che ora però sono scomparse. C'è una casa, smantellata proprio come la macchina.

Ha sempre un che di raccapricciante, una casa che mostra le sue viscere. Qui c'era la cucina, una striscia di fuliggine fino al camino demolito, una macchia scolorita sul muro dove un tempo era appeso qualcosa – un calendario? L'immagine di un santo? È un luogo riempito dall'assenza di persone, attraversato dal vento. I fichi incurvati dalla tramontana, il pozzo pieno di sassi. E questo è un altro enigma. Da qui riesco a vedere la costa a nord e a sud dell'isola, letteralmente un mare d'acqua di cui conosco il sapore salato. Ma un pozzo quassù? A questa altezza? A che profondità dev'essere stato scavato per attingere acqua dolce?

Chi ha vissuto qui doveva andare per ore a dorso d'asino per raggiungere il villaggio più vicino. La solitudine dev'essere stata grande, così come la povertà, ma di chiunque si trattasse, aveva il mondo ai suoi piedi. Vedo le insenature lontane, il ripido promontorio di Cavalleria con il faro, le pinete e i campi, le fattorie lontane e a sud le barche a vela in quell'inimmaginabile distesa azzurro metallo che è il mare.

Chi ha sete pensa all'acqua. Ovviamente neanche stavolta ne ho con me a sufficienza. Seduto sul bordo del pozzo secco penso con vaga teatralità al verso di una poesia che mi è rimasto impresso e di cui non ricordo l'autore: «Je meurs de soif au bord de la fontaine» – muoio di sete accanto alla fontana – automaticamente ritorno alla storia del mio pozzo. Con la mia casa era incluso, condiviso con altre due, il diritto di proprietà di un pozzo prosciugato. L'agente immobiliare lo aveva compreso nella visita perché in questo mondo il pozzo è un punto a favore nelle compravendite. Anche guardando molto in profondità non si vedeva acqua, solo un imbuto rovesciato di pietre accatastate che finiva nell'oscurità.

Quello era dunque il mio pozzo, ma era a ridosso della dépendance di un vicino e non conteneva una sola goccia d'acqua. Per riattivarlo dovevo ottenere il permesso degli altri due proprietari, che ovviamente avrebbero potuto utilizzarlo a loro volta. A Juan e suo fratello Bartolomeu andava bene, solo che non volevano contribuire alle spese: ricevevano già l'acqua da un contadino poco distante che possedeva un pozzo grande e potente, a cui erano collegati da condutture sotterranee, e che pagavano all'ora. Bastava aprire il rubinetto su entrambi i lati e la preziosa acqua scorreva nelle loro cisterne, dove potevano raccogliere anche quella piovana.

Per me si era pensata un'altra soluzione, ed è così che Bernardo e il suo mulo sono entrati nella mia vita. La mia cisterna poteva contenere quattromila litri. Una volta alla settimana Bernardo sarebbe venuto da me con il suo povero asino che si tirava dietro una botte rotonda da ottocento litri d'acqua: con cinque viaggi ce n'era abbastanza per persone, alberi e piante per una settimana. La cisterna era chiusa da un pesante coperchio in ferro che io riuscivo a malapena a sollevare. Sul chiusino c'era un anello a cui era fissata una vecchia corda blu, uno strumento di tortura per chi soffre di schiena. Nel frattempo però, con l'arroganza dell'uomo di città, avevo piantato due giovani palme (ora sono giganti adulti), avevo un cipresso e un melograno, insomma d'un tratto mi trovavo a capo di una famiglia vegetale di cui prendermi cura. Di luce ce n'era abbastanza, ma l'acqua doveva portarla Bernardo, ed era un vero rituale. Sollevava con grande dimostrazione di forza il coperchio del pozzo e per un attimo restavamo a fissare l'abisso, in genere velato da grandi...



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