Orecchio | Mio padre la rivoluzione | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 311 Seiten

Orecchio Mio padre la rivoluzione


1. Auflage 2017
ISBN: 978-88-7521-881-2
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 311 Seiten

ISBN: 978-88-7521-881-2
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'Mio padre la rivoluzione' è una raccolta di racconti, ritratti, biografie impossibili e reportage di viaggio attorno alla storia e al mito della Rivoluzione russa, dai protagonisti dell'ottobre 1917 (Lenin, Stalin e Trockij) a personaggi minori ma non per questo meno affascinanti. Davide Orecchio lavora sulla storia con gli strumenti della letteratura, ne racconta versioni altre e ne esplora possibilità non accadute: in questo libro Trockij è ancora vivo nel 1956 e medita sull'invasione sovietica dell'Ungheria e su Chru?c?ëv che rinnega Stalin. Qualche anno dopo, il giovane Robert Zimmerman entra in una libreria di Hibbing, Minnesota, e scopre i testi di Trockij, non diventa Bob Dylan ma compone altre bellissime canzoni rivoluzionarie come «The End of Dreams». Qui, proprio come nella realtà e oltre essa, il poeta Gianni Rodari che «ha il problema della fantasia» scrive un reportage dalla Russia per il centenario della nascita di Lenin. In Mio padre la rivoluzione la «controstoria» è una chiave offerta al presente per scardinare il passato, per fare i conti coi mostri politici e le speranze tradite del Novecento, ed è anche una guida per immaginare i futuri possibili. Con uno stile originalissimo, Davide Orecchio racconta il sogno e l'incubo della storia, le peripezie e le passioni, i destini aperti degli uomini.

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Una possibilità di Lev Trockij


Negli ultimi mesi del 1956, le conseguenze del ventesimo congresso del partito comunista sovietico [...] mi costrinsero a interrompere il mio lavoro e a volgere tutta la mia attenzione agli avvenimenti contemporanei. A Budapest la folla inferocita aveva abbattuto le statue di Stalin, mentre a Mosca continuava la subdola sconsacrazione dell’idolo da parte del gruppo dirigente che trattava la questione come un segreto di famiglia. [...] «Difficilmente si potrà continuare ancora a lungo a lavare i panni sporchi all’insaputa del popolo sovietico», commentai. Presto si dovranno lavare davanti a lui e in piena luce. Dopotutto, i «panni sporchi» erano immersi nel suo sudore e nel suo sangue. E il lavaggio, che richiederà molto tempo, sarà forse portato a termine da mani diverse da quelle che l’hanno iniziato: da «mani più giovani e più pulite».

Isaac Deutscher,

Nella storia del movimento rivoluzionario del secolo scorso ci sono due «dieci giorni che sconvolsero il mondo»: i giorni della Rivoluzione di ottobre [...] e il ventesimo congresso del partito comunista dell’Unione Sovietica (14-25 febbraio 1956). Sono entrambe cesure improvvise e irrevocabili, che dividono tra un prima e un dopo. [...] Per dirla nel modo più semplice: la Rivoluzione d’ottobre creò un movimento comunista mondiale, il XX congresso lo distrusse.

Eric J. Hobsbawm,

E frantumava occhi e mani / alle fragili divinità petrose, / perché un figlio di ferro sorgesse, / come spiga fiorendo sul campo.

Velimir Chlébnikov,

Entra l’anno cinquantasei del secolo d’oro, assomiglia a suo padre che fu il diciassette ed era l’androceo ed era il gineceo quando per gemmazione ebbe il tempo di dargli la vita; avanti a che morisse troppo giovane, quel garofano – l’anno diciassette – partorì un biancospino: il cinquantasei.

e di coke già i bolscevichi istoriavano i fossili finché il garofano cadde e, raccolto da terra, i bugiardi gli ingenui i sofisti i fanatici gli utopisti lo traslitterarono in mummia e mentre il canto funebre si mascherava a leggenda quelli dissero Noi siamo i guardiani del diciassette, noi siamo le guardie della rivoluzione.

Prima dell’acido fenico, dell’imbalsamatura, la rivoluzione ebbe la forza di sorgere, promettere, vendicare, uccidere e dare al mondo tra i tanti l’anno cinquantasei simile a un uomo sui quarant’anni, già successivo alla linea d’ombra ma senile per nulla, anzi vigoroso e coi dubbi risolti, con la forza e la voglia di fare, con una qualche sincerità tra gli zigomi alti e gli occhi più grandi, non interrotta dal battere di ciglia timide, non ridotta da fessure socchiuse delle palpebre, l’anno cinquantasei come un uomo che esclami trasparenza e lealtà persino nel pallore orientale dell’epidermide, nella peluria chiara orientale che non camuffa il suo volto rasato, perspicuo pure nello squarcio piccolo, non minatorio che separa il labbro di sopra da quello di sotto tra i quali si formano adesso le parole , , .

E nella sua voce l’anno cinquantasei – rauco – forgia il giorno sette novembre dei suoi trecento sessantasei e mostra un mattino e porge un villaggio che è Coyoacán, che sta poco sotto Città del Messico, e offre una via che si chiama Vienna e un piccolo fiume che è il Churubusco, così che appaia una villa leggera con le pareti color pastello, le sue finestre le murano mattoni di colore ruggine, le catturano portici che non chiedono ospiti, le ornano volterrane del modernismo e colonne e capitelli di meticcio tenochtitlano, un cancello blinda la casa che verso nord è protetta da un recinto alto, combinato di pietre e mattoncini verdissimi, guscio contro nemici che non accadono più, riparo da visite che non accadono più.

E col suo cenno versatile, onnipotente, l’anno cinquantasei – biancospino figlio del diciassette, nipote dell’anno cinque, postero del settecent’ottantanove, grande russo di aspetto, il volto una steppa, l’occhio destro il Mar Caspio, l’occhio sinistro il Mar Nero, il naso schietto e acuto come il monte Iremel – apre il cancello, anzi neppure lo apre, lo trapassa, , per esibire un giardino dove sta un vecchio.

Quest’uomo è fatto proprio come dev’essere un vecchio, ma non uno dei tanti, lui è il Vecchio maiuscolo e zoppica nel giardino delle vite essiccate, oscilla sul bastone di legno, è incerto come se l’attendesse un plotone, è timido nella sua coppola avana da cui sfuggono capelli morbidi bianchi, è soprappensiero nel giaccone di tela più scuro della buccia di una castagna e largo sulle spalle e sui fianchi e floscio nel bavero addormentato sulla camicia avorio di lino abbottonata alla somma del collo, è maiuscolo ed è minuscolo ed è elegante nei calzoni sformati, a campana, color sabbia, e nei mocassini di cuoio, ha gli occhi ancora vivaci sotto la visiera e dietro al pince-nez e sopra al pizzo.

E sfiora sul viale di lastre di pietra le siepi fossilizzate, i cactus espropriati di spine, le buganvillee senza fiori né spine (impotenti come menscevichi nell’anno diciotto), non passa sotto l’ombra dell’eucalipto che non ha più chiome, non ha più foglie tonde, non ha più ombra, che ha una corteccia sterile di ogni resina e olio, le piante che erano grasse ora hanno la magrezza ucraina della carestia dell’anno trentadue e il Vecchio le sfiora, e il Vecchio è in collera e impreca mentre sfiora le conigliere vuote dekulakizzate, quando sfiora il pollaio vuoto di polli deportati, di galli sterminati, dove restano solo tetti di zinco, imbeccatoi, vaschette, reti e il Vecchio le sfiora ed entra nell’ombra della torre di guardia ed è in collera ancora, e impreca ancora.

__________

Forse non si dà pace?, sembra non avere pace tra le baracche vuote dell’anno cinquantasei quando Lev Davidovic varcò il portico della villa che abitava da più di tre lustri e il portico lamentava ancora stipiti crivellati da colpi, nessuno aveva otturato le orme di quei proiettili, anche i proiettili furono sparati da lustri, anche i tentati omicidi avevano l’età delle fanciulle in fiore, erano puberi quando Lev Davidovic sopravvissuto va nel suo studio col fiato grosso e stanco di uno che oggi ne compie settantasette, getta il bastone sulla branda da riposino, sulla coperta bruna mixteca, siede alla scrivania sulla poltrona di paglia ed è arrabbiato ancora, e impreca ancora, si leva il cappello e lo appende alla lampada spenta così che gli si vede la mano bendata e ammalata di troppo scrivere, e gli si vede il cretto che spacca la tempia dove la cicatrice che gli procurò Mercader si apre in due labbra ed è come un canyon dove fuggono i cosacchi a cavallo, Denikin e la sua armata, Kerenskij con tutti gli corrono proprio tra le tempie del Vecchio.

Eppure nell’anno quaranta – che ebbe la forma di una tempesta, di un naufragio della storia con le luci di Turner – il sicario di Stalin fallì, la sua piccozza sbagliò, Mercader non uccise Lev Davidovic, così che adesso il cranio del Vecchio viene a dividersi in una faglia scistosa e brecciata, e la vita del Vecchio è ancora viva, non assassinata, non sepolta, non demolita, nemmeno rimarginata, e il sughero di una ferita vive nel Vecchio.

Nello studio una porta finestra che guarda il giardino getta luce sulla scrivania col filtro di vetri intarsiati in rombi colore smeraldo, in linee incise verticalmente su perimetri di pannelli azzurri, e illumina tutte le cose della scrivania, un portamatite, due calamai, forbici, carta assorbente, una pietra dell’altopiano, una caraffa, i cilindri per il dittafono, un tempo il Vecchio dettava e gli assistenti facevano dalla sua voce parole scritte, ma ora non più.

Di lato sulla scrivania una copia del accucciata come un gatto domestico, con le unghie ritratte e il muso tra i polpastrelli più soffici di gomitoli e polpe – mostra i nomi di Chrušcëv e Stalin, la copia dice , dice e , dice .

Di lato sulla scrivania una copia più fresca del – coricata come una schiava macchinatrice, pronta a manipolare il padrone, a insinuargli sospetti con la falsa ubbidienza – mostra foto di Budapest, un marciapiede divelto, una folla, bandiere rosse verdi e bianche della nazione ungherese, e dice , esclama , riporta e il Vecchio è arrabbiato e impreca di nuovo.

– L’anno cinquantasei ha una famiglia di peripezie, i suoi fatti esplodono , fanno sensazione, illudono i popoli, le oligarchie sbottonano appena il corpetto, s’intravede un capezzolo, i popoli a guardare si eccitano, gli intellettuali guardano e sognano, le oligarchie li schiaffeggiano: Vi abbiamo mostrato fin troppo, siete i cani di sempre; è noto che per le oligarchie il mondo è fatto di cani, al cane intellettuale si metta la museruola, al popolo cane si spari, così era risorto il sole dell’avvenire nell’anno cinquantasei ma subito seguì un disavvenire, una specie d’eclissi di luna; E in questo – argomenta l’anno cinquantasei con la sua voce di slavo diafano – si...



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