E-Book, Italienisch, 180 Seiten
Pancake Trilobiti
1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7521-754-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 180 Seiten
ISBN: 978-88-7521-754-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Tra le colline e le piane del West Virginia, in un'America desolata e minore, la natura è sporadicamente interrotta da futili avamposti di uomini e il progresso non sempre è una benedizione: qui si muovono i personaggi dei dodici folgoranti racconti di Breece D'J Pancake. Completamente soli, fra un passato irrecuperabile e un domani che pare invisibile e disgregato, sono sorretti da disperati desideri a breve termine - tenere con sé la donna che amano, organizzare lo sciopero che porterà finalmente la ricchezza, vendere alcolici di contrabbando durante un combattimento tra galli - e cristallizati proprio come i fossili che vengono estratti dalla terra, bloccati in un eterno presente lungo quanto le ere geologiche. Pancake, maniacale nella ricerca di una lingua scarna ed espressiva, è capace di suscitare la più profonda compassione, di squarciare il velo dell'ambientazione e rivelarci i nostri fantasmi. La voce inconfondibile, lo straordinario potere di evocazione e un'assoluta perfezione linguistica ne hanno fatto un autore di culto sia per i lettori che per i più grandi scrittori contemporanei, rendendo questo esordio - e, insieme, testamento - un capolavoro senza tempo.
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TRILOBITI
Apro lo sportello del camioncino, smonto sulla stradina di mattoni. Guardo di nuovo Company Hill, consumata e tonda. Tanto tempo fa era tutta un dirupo e stava come un’isola nel fiume Teays. Ci ha messo più di un milione d’anni a trasformarsi in una collinetta liscia, e l’ho battuta da cima a fondo in cerca di trilobiti. Penso che è sempre stata lì e ci resterà sempre, almeno finché serve. L’aria ha i fumi dell’estate. Un volo di storni fluttua sopra di me. Sono nato in questo posto e non ho mai smaniato per andarmene. Ricordo gli occhi senza vita di papà, che mi guardavano. Erano tutti secchi, e questa cosa mi ha lasciato un po’ svuotato. Chiudo lo sportello, mi avvio verso la tavola calda.
Vedo una toppa di cemento per strada. È a forma di Florida e mi torna in mente quello che ho scritto a Ginny sull’annuario della scuola: «Vivremo di mango e d’amore». Invece ha preso ed è partita senza di me – due anni che è laggiù senza di me. Mi manda cartoline con le foto dei fenicotteri, della lotta con gli alligatori. Non mi chiede mai notizie. Mi sento proprio scemo per quello che ho scritto, entro nella tavola calda.
Non c’è nessuno e mi riposo al fresco dell’aria condizionata. La sorella piccola di Reilly lo Stagnaro mi versa il caffè. Bei fianchi. Sembrano un po’ quelli di Ginny, scendono morbidi fino alle gambe. Fianchi e gambe così salgono le scalette degli aerei. Va in fondo al bancone e finisce di papparsi il gelato. Le sorrido, ma è minorenne. Minorenni e serpenti neri sono due cose che non le toccherei neanche con una canna. Una volta ho usato un serpente nero come una frusta, gli ho staccato la testa a quella bestiaccia, ma poi papà mi ci ha pestato a sangue. Penso che a volte papà mi faceva proprio arrabbiare. Sorrido.
Penso a ieri sera, quando ha chiamato Ginny. Il padre era andato a prenderla in macchina all’aeroporto di Charleston. Già s’annoiava. Ti va se ci vediamo? Come no. Magari ci facciamo una birra? Come no. Il solito vecchio Colly. La solita vecchia Ginny. Parlava a ruota libera. Volevo dirle che papà era morto e che mamma era sul piede di guerra per vendere la fattoria, ma lei parlava a ruota libera. Metteva i brividi.
Anche le tazze mi mettono i brividi. Le guardo appese ai ganci accanto alla vetrina. Coi nomi stampati sopra, unte e coperte di polvere. Sono quattro, una è di papà, ma mica ho i brividi per quello. La più pulita è quella di Jim. È pulita perché la usa ancora, ma sta appesa insieme alle altre. Lo vedo dalla finestra che attraversa la strada. L’artrite gli stritola le articolazioni. Penso che manca ancora tanto prima che crepo, ma Jim è vecchio e mi vengono i brividi, a vedere la sua tazza appesa lì. Vado alla porta e lo aiuto a entrare.
Mi fa: «Adesso di’ la verità», e mi pizzica il braccio con la sua vecchia zampa.
Dico: «Con lei no». Lo aiuto a sedersi sullo sgabello.
Prendo dalla tasca un sasso bitorzoluto e glielo schiaffo davanti sul bancone. Lui lo rigira con la mano rattrappita, lo studia. «È un gasteropode», dice. «Probabilmente del permiano. Ti tocca pagare anche a ’sto giro». Con lui non c’è gara. Li conosce tutti.
«Ancora non m’è riuscito di trovare un trilobite», dico.
«Qualcuno ce n’è», dice lui. «Però pochi. Le rocce qui intorno sono quasi tutte troppo giovani».
La ragazza gli porta il caffè nella sua tazza, la seguiamo con lo sguardo mentre torna in cucina. Bei fianchi.
«Visto che roba?» La indica con la testa.
Dico: «Guardare e non toccare». Riconosco una minorenne da un chilometro di distanza.
«Cavolo, quando eravamo in Michigan con tuo padre l’età delle ragazze non ci ha mai fermato».
«Di’ la verità».
«Hai voglia. Basta che calcoli bene i tempi e salti sul primo treno appena ti rialzi i pantaloni».
Guardo il davanzale della finestra. Gli scheletri friabili delle mosche sparsi qua e là. «Perché tu e papà ve ne siete andati dal Michigan?»
Le rughe intorno agli occhi si rilassano. Dice: «La guerra», e beve un sorso di caffè.
Dico: «Non è più riuscito a tornarci».
«Manco io. Volevo tornarci, lì o in Germania, così, giusto a dare un’occhiata».
«Sì, m’aveva promesso che mi faceva vedere dove avete sepolto l’argenteria e tutto il resto durante la guerra».
Dice: «Vicino all’Elba. Ma ormai l’avranno già trovata».
Il mio occhio si riflette nel caffè, il vapore mi avviluppa il viso, sento che arriva il mal di testa. Alzo lo sguardo per chiedere un’aspirina alla sorella dello Stagnaro, ma lei sta ridacchiando in cucina.
«È lì che s’è ferito», dice Jim. «Sull’Elba. Non s’è svegliato per un bel po’. Che freddo, faceva un freddo boia. L’avevo dato per morto, invece è rinvenuto. Mi fa: “Ho girato tutto il mondo”. Mi fa: “Che bella la Cina, Jim”».
«Se l’era sognato?»
«Boh. Sono anni che non me lo chiedo più».
La sorella dello Stagnaro arriva col bricco per scucirci la mancia. Le chiedo un’aspirina e vedo che ha un brufolo sulla clavicola. Non ricordo d’aver visto foto della Cina. Guardo i fianchi della sorellina.
«Trent vuole ancora i vostri terreni per costruirci?»
«Come no», dico. «E mi sa tanto che mamma glieli vende. Io non sono buono a mandarli avanti come papà. La canna da zucchero è ridotta uno schifo». Finisco il caffè. Sono stanco di parlare della fattoria. «Stasera esco con Ginny», dico.
«Daglielo da parte mia», dice Jim. Mi allenta una ditata sulla patta. Non mi piace quando parla così di lei. Se ne accorge, e gli passa il sorriso. «Gli ho trovato parecchio gas, a suo padre. Era uno in gamba, prima che lo piantasse la moglie».
Mi giro sullo sgabello, gli do una pacca sulle spalle deboli e invecchiate. Penso a papà e provo a scherzare. «Puzzi così tanto che ti segue il beccamorti».
Ride. «Lo sai, sì, che appena nato eri brutto come la fame?»
Sorrido e mi avvio verso la porta. Lo sento urlare alla sorellina. «Vieni qua, cocca, che ti racconto una barzelletta».
Il cielo è velato. Il calore scotta, penetra il sale sulla mia pelle, la tira. Metto in moto, prendo a ovest sull’autostrada costruita sul letto prosciugato del Teays. Terre basse e colline ai lati, coperte da nuvoloni giallastri che il sole rovente non riesce a cancellare. Passo davanti a una targa messa dalla WPA:4 «Strada del fiume Teays misurata da George Washington». Vedo campi e bestiame al posto degli edifici, immagini da un’epoca remota.
Svolto dalla strada principale verso casa nostra. Le nuvole spengono e accendono il sole in cortile. Guardo di nuovo il punto dove è caduto papà. Era steso fra l’erba fitta, braccia e gambe divaricate, una scheggia di metallo della sua vecchia ferita gli era arrivata al cervello. Ricordo che l’erba lo aveva riempito di segni in faccia, come se lo avessero picchiato.
Arrivo al capannone, metto in moto il trattore, guido fino alla collinetta in fondo alle nostre terre e mi fermo. Sto lì, fumo, guardo di nuovo le canne da zucchero. Le curve dei filari sono fitte, ma intorno hanno una specie di cicatrice d’argilla, e c’è una ruggine violacea sulle foglie. La ruggine non mi stupisce. Le piante sono conciate troppo male per stare a preoccuparmi della ruggine. Qualcuno spacca legna in lontananza, i colpi d’ascia rimbalzano fino a me. I fianchi delle colline sono abbrustoliti, percorsi da spettri di calore. Le nostre bestie si spostano nel vallone e gli uccelli si nascondono tra fronde di alberi che non abbiamo mai abbattuto per il pascolo. Guardo il cippo di confine, vecchio e rugoso. Papà lo ha piantato quando sono finiti i giorni da vagabondo e da soldato. È in legno di robinia e resterà lì per un bel pezzo. Addosso gli si aggrappa qualche campanula morta.
«Sono proprio negato», dico. «Inutile farsi il mazzo se sei negato».
I colpi d’ascia si interrompono. Ascolto le ali delle cicale, cerco con gli occhi la ruggine in fondo ai campi.
Dico: «Eh già, Colly, non sei buono manco a coltivare fagiolini in un mucchio di letame».
Spengo la sigaretta sul pavimento del trattore. Non voglio incendi. Metto in moto e sobbalzo per i campi, poi scendo verso il guado del torrente in secca e mi arrampico dall’altra parte. Le tartarughe cascano dai tronchi negli stagni. Fermo il trattore. La canna da zucchero è messa male anche qui. Mi massaggio una scottatura sulla nuca.
Dico: «Che disastro, Ginny. Non ne faccio una giusta».
Mi rilasso sul sedile, provo a scordarmi questi campi, le colline intorno. Molto prima di me o di questi attrezzi, qui c’era il Teays. Riesco quasi a sentire le acque gelide e il solletico dei trilobiti che strisciano. L’acqua delle vecchie montagne scorreva tutta a ovest. Ma la terra si è sollevata. E a me restano solo il letto di un fiume e gli animali di pietra che colleziono. Batto le ciglia e respiro. Mio padre è una nuvola cachi nel canneto e Ginny per me non è altro che l’odore amaro delle more in cima alla collina.
Prendo il sacco e l’arpione da pesca. Un banco di cavedani sfreccia a riva. Fra il muschio vedo spandersi gli anelli nel punto in cui si è tuffata una tartaruga. La povera fessa non mi sfugge. Lo stagno odora di marcio e il sole è brunastro.
Entro in acqua. Va verso le radici di un tronco. Affondo l’arpione qua e là e sento uno strattone. È una tartaruga sveglia, ma resta sempre una povera fessa. Scommetto che potrebbe passare la vita a papparsi...