E-Book, Italienisch, 240 Seiten
Reihe: Amazzoni
Perat La masochista
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-6243-538-3
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 240 Seiten
Reihe: Amazzoni
ISBN: 978-88-6243-538-3
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Nata nel 1988, è una scrittrice, giornalista e poetessa slovena attualmente residente negli Stati Uniti. Ha pubblicato due raccolte poetiche accolte favorevolmente da pubblico e critica. La masochista, uscito nel 2018, è il suo esordio narrativo e l'ha confermata come una delle autrici contemporanee più talentuose.
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Sarebbe sbagliato dire che Maximilian fosse brutto. Quando da lontano lo guardavo mettere in ordine delle carte o leggere un giornale nella giusta luce, a volte riuscivo a convincermi che avevano ragione tutti quelli che insistevano a ripetere quanto fosse bello. Eppure, in seguito, leggendo Anna Karenina, scoprii che Tolstoj aveva commesso un errore. Era impossibile che Anna si fosse resa conto solo alla fine di quanto fossero grandi le orecchie del marito. Doveva averlo sempre saputo, però c’era voluto del tempo perché lo ammettesse davanti a sé stessa. Come io mi voltavo dall’altra parte mentre Maximilian sorbiva la minestra facendo schioccare la lingua, così anche lei doveva aver spesso distolto lo sguardo cercando di convincersi che qualsiasi cosa la disturbasse era comunque irrilevante e a lungo andare sarebbe scomparsa da sé.
Sarebbe anche sbagliato dire che non mi amasse. Al pari di Leopold anche lui adorava la storia della bambina lupo. E i miei capelli rossi. E il mio stupido nome. Nadežda, “Speranza”, che scherzo crudele. Una speranza, amava dire Leopold, nel tuo nome si cela una speranza. È buffo, ma in un certo senso aveva ragione. Nel mio nome si celava una speranza – la speranza che un giorno qualcuno sarebbe riuscito a pronunciarlo correttamente. Che un giorno nessuno mi avrebbe chiesto di ripeterglielo per due volte, ammutolendo alla terza, per cortesia e con indulgenza. La speranza che prima o poi sarebbe passato inosservato, senza che una qualche signora si sentisse in dovere di informarci, con apparente frivolezza, che anche la sua cameriera si chiamava così. Maximilian adorava tutto ciò che sembrava esotico, specie se non lo era fino in fondo, in modo da non affliggerlo inutilmente con qualche enigma di sorta, cosicché, con il mio nome, chioma e pedigree, io fui per lui fin dall’inizio una scelta naturale. Ed era di sicuro anche questa una forma di amore. Certo non è affatto da escludere che quando, tra me e me, a più riprese insistevo nell’attribuire il mio stato d’ansia accanto a lui al fatto che non mi amasse o non mi amasse abbastanza, in realtà volessi solo evitare di ammettere che ero io quella a corto di amore.
Lo avevo conosciuto a Lindheim, la città in cui avevo imparato a odiare Leopold, e non è inverosimile che proprio questo odio mi avesse spinta a rivolgere a qualcun altro quello che avevo provato una volta nei suoi confronti.
A Lindheim, la più noiosa di tutte le noiose città tedesche, ci eravamo trasferiti perché Leopold aveva deciso che in vecchiaia avrebbe con piacere riscoperto l’esistenza dell’amore, si era separato da Wanda, con cui aveva vissuto fino ad allora, e si era risposato con Hulda, sua segretaria e traduttrice.
Dall’oggi al domani una vita ne aveva sostituita un’altra e poi si era stabilita con noi per un bel po’. La casa di Hulda divenne la nostra casa e così Lindheim, sebbene tutto in essa fosse ripugnante. Anche se non era la prima volta che vivevo in provincia, a Lindheim per la prima volta vissi una vita provinciale, una vita che andava da un pasto all’altro, con brevi intervalli per gli studi, l’esercizio fisico e occasionali passeggiate. Il mio odio per Lindheim era ingiusto, certo, ma l’ingiustizia, ciononostante, non ne diminuì la forza. Odiavo Lindheim perché odiavo Hulda e perché, al pari di Hulda, mi era stata imposta con la forza, come conseguenza della sconsideratezza di Leopold. Ancora oggi, non so se sia stato Leopold a lasciare Wanda o se in realtà sia accaduto esattamente l’opposto e sia stata Wanda a lasciare Leopold, ma già allora sapevo che la loro separazione avrebbe comportato appena una piccola correzione nella biografia di lui, mentre avrebbe derubato lei di qualsiasi opportunità di una vita normale. Benché con Leopold quasi di certo non fosse mai stata veramente felice e avesse speso la maggior parte delle sue energie per mantenerlo a galla sia dal punto di vista finanziario che emotivo, come se il proprio benessere fosse per lei di secondaria importanza, lui le aveva garantito una posizione solida, mentre senza Leopold il mondo non aveva da offrirle una sistemazione garantita.
Povera Wanda, riflettevo, osservando i suoi sforzi per ritagliarsi il diritto a un proprio racconto della loro separazione. E con ben poco successo – con quale crudele spontaneità le preferivano tutti Leopold. Con quale crudele spontaneità, e pur consapevole di quanto fossi ingiusta, lo preferivo perfino io, e perfino nel periodo in cui gli ero maggiormente ostile. Con quanta avidità mi affannavo per ottenere la sua attenzione e il suo riconoscimento, e quanto mi rese felice quando – dopo la separazione – decise di portarmi con sé a Lindheim. Ovvio che Leopold fosse un pazzo, maniaco, nevrastenico, sovreccitato, su questo tutti si trovavano concordi, ma era come un bambino che non si può richiamare alle proprie responsabilità. Wanda, d’altro canto, era una calcolatrice che aveva rincorso il suo titolo nobiliare, una donna di facili costumi, una cagna inasprita incapace di sostenere con sufficiente dignità, umiltà e in silenzio la sua sorte di donna divorziata. Perfino nella mia compassione infantile c’era qualcosa di superficiale, come una informe paura che qualcosa di simile, se non fossi cresciuta in modo giudizioso, sarebbe potuto accadere a me, un disagio al pensiero che al mattino l’amore è ancora lì, ma quando a sera lo cerchi allungando la mano, al suo posto sul comodino non giace che una spenta indifferenza. Era così superficiale, la mia compassione, che non si poteva neppure definirla tale. Era come se tutto ciò che accadeva stesse accadendo in primo luogo a me. E quasi fossi io quella abbandonata, il pensiero della rapidità con cui Wanda era stata rimpiazzata e della volgarità di colei che le era succeduta mi gettava nella disperazione.
Anche se Hulda era mia madre tanto quanto Wanda, l’ho sempre considerata una matrigna e attendevo con sospetto il giorno in cui mi avrebbe rifilato una mela avvelenata o assoldato un cacciatore perché si mettesse sulle mie tracce e le servisse il mio fegato e i miei polmoni come prova commestibile della mia eliminazione. Era comprensibile che Hulda non potesse guardare con tenerezza ai resti della vita precedente di Leopold, ma perfino il benché minimo cenno di simpatia umana pareva al di là della sua portata, né la smuoveva dalla sua ostilità il fatto che tra questi resti vi fossero anche dei bambini cui non si poteva certo attribuire alcuna responsabilità e men che meno alcuna colpa nell’intera faccenda. Era fredda e crudele, ma la sua freddezza e la sua crudeltà non erano una mascherata, un travestimento da mettersi e poi togliersi come si fa con un soprabito di pelliccia. Erano reali, futili e banali. Quando Saša morì di tifo, per un po’ finse empatia, come da manuale, ma la fretta con cui se ne sbarazzò fu la prova lampante che il suo era sollievo piuttosto che compassione. Ora non le restava che scrollarsi di dosso me, e il futuro di Leopold le sarebbe appartenuto interamente e indiviso. La sua stupida seriosità, l’arida mancanza di umorismo e la sua casa arredata in modo pacchiano crebbero dentro di me come simboli di alienazione. E Leopold, scegliendo tutto ciò, non aveva tradito solo Wanda, aveva tradito anche me. L’uomo che riusciva ad amare questa grossolana quotidianità non poteva, no, non poteva essere lo stesso che mi aveva insegnato ad amare la grandezza di ciò che non si piega al quotidiano. Crescere con Leopold significava crescere in movimento. Seguire il denaro, seguire gli intrighi, muoversi su e giù per l’Austria alla ricerca di un affitto più conveniente, nascondersi in Ungheria e infine fuggire in Germania, per non dover scontare quattro giorni di prigione comminatigli dall’imperatore per aver offeso un conte. Significava desiderare che questo perenne movimento approdasse da qualche parte, che la giostra si fermasse prima che la violenza con cui girava ci proiettasse fuori dall’ordine costituito dei viventi. Significava essere stremati e boccheggianti, rimanere senza fiato e, in ogni luogo dove brevemente ci soffermavamo, usare una cautela estrema nello stringere amicizie, per non soffrire troppo nel momento in cui di nuovo le avremmo dovute rompere. Crescere con Leopold significava sognare una vera casa. E quando questi sogni finalmente divennero realtà, imparai a rendermi conto che i sogni che diventano realtà si chiamano delusione. Che il desiderio è radicato nei particolari e che realizzato come generalità significa meno, anche un bel po’ meno, di niente.
Quando vagheggiavo una casa, di certo non sognavo Hulda Meister e la sua dimora kitsch in mezzo a una pianura desolata, dove al mattino si poteva scorgere all’orizzonte la sagoma dell’ospite la cui visita era attesa verso sera. Sognavo la casa che già avevo, solo più solida, sicura, convincente. Quella nostra a Bruck, dove pesanti tendaggi orientali sostituivano le porte, una casa intrappolata tra le montagne e la foresta, il cui soggiorno Leopold aveva temerariamente arredato con i ritratti delle sue antiche amanti, disposti con diplomazia procedendo dalla parete verso il bordo della credenza, dalle più insignificanti alle più memorabili.
Sognavo questa casa, così com’era, ma senza doverla mai lasciare. Oppure il nostro appartamento a Graz, o il nostro angusto alloggio a Rosenberg, dove non invitavamo mai nessuno, perché nessuno sospettasse che i vecchi debiti di Leopold inghiottivano regolarmente le nuove entrate, il nostro appartamento, troppo piccolo per una famiglia di cinque persone, dove Leopold, che non ha mai saputo resistere alla piaggeria, aveva invitato quel leccapiedi del suo segretario, il signor Kapf, un individuo di conclamata inutilità, il signor Kapf con un garofano rosso all’occhiello, il signor Kapf,...




