Salierno | Autobiografia di un picchiatore fascista | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 268 Seiten

Reihe: Indi

Salierno Autobiografia di un picchiatore fascista


1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-3389-584-0
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 268 Seiten

Reihe: Indi

ISBN: 978-88-3389-584-0
Verlag: minimum fax
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Autobiografia di un picchiatore fascista di Giulio Salierno, a quasi cinquant'anni dalla sua prima uscita, è ancora un libro attualissimo, la storia commovente di un uomo che è riuscito, parlando di sé, a scrivere un pezzo fondamentale dell'autobiografia della nostra martoriata Italia, e a profetizzare come una vera rivoluzione non sarebbe passata per la contrapposizione delle armi, ma per la difesa dei diritti dei più deboli: i poveri, gli ignoranti, i diseredati, i detenuti. La testimonianza bruciante di un ragazzo che sceglie di dare la propria vita per la violenza politica e l'omicidio. Un saggio minuzioso sul carattere e lo sviluppo del neofascismo italiano, tra campi paramilitari, traffici di esplosivi, corruzione delle istituzioni. Il romanzo dal vero della conversione esistenziale e culturale di un uomo, attraverso l'esperienza del carcere, che lo porterà a essere un sociologo di fama internazionale. Un'opera di sconcertante attualità, visto il momento politico che viviamo, un documento straordinario, pubblico e privato, di uno tra i più significativi intellettuali italiani, corredato da una prefazione di Sergio Luzzatto e da una nota della figlia Simona Salierno.

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PREFAZIONE
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Questo è un libro postumo per diverse ragioni. È postumo perché viene ristampato dopo la morte del suo autore, scomparso nel febbraio del 2006. Ma è postumo anche perché sembra molto più vecchio dei trentadue anni che dichiara all’anagrafe dell’editoria (Einaudi, Torino 1976): l’ evoca mondi irrimediabilmente lontani da noi, la cui distanza pare doversi misurare in anni luce. Può dunque riuscire opportuno anteporre al libro stesso una rapida introduzione. Non già – com’è costume quando le case editrici riscoprono certe «chicche» – per salutare la presunta attualità di un testo dimenticato, ma al contrario per sottolinearne l’assoluta, provocatoria inattualità.

Questo è un libro che parla al lettore di oggi, proprio perché non gli parla immediatamente: sin dai personaggi collettivi che mette in campo e sin dai termini con cui li designa, fascisti contro comunisti, camerati contro compagni, neri contro rossi, il libro presuppone dal suo lettore la volontà di partire alla ricerca di un tempo perduto. Un tempo in cui certe distinzioni valevano ancora, tra la destra e la sinistra, la conservazione e il progresso, i valori e i disvalori. Un tempo in cui si poteva ancora pensare che le cose fossero evidenti e i confini fossero netti, da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. Un tempo in cui risuonava ancora isolata, sterile, dispettosa, la voce profetica e testamentaria di Pier Paolo Pasolini: l’uomo-sismografo, cui la quotidiana misurazione dei sommovimenti profondi della società italiana aveva aperto anticipatamente gli occhi sopra la confusione dei ruoli, l’indistinzione dei profili, la dissolvenza dei colori tra fascisti e antifascisti. Sopra un futuro che è il nostro presente.

Due parole – un nome comune e un nome proprio – ritornano più spesso di altre nell’ . Il nome proprio è «Audisio», il nome comune è «sistema». E ciascuno dei due sostantivi, una volta decifrato, può servire da macchina del tempo. «Audisio» ci trasporta dritti dritti nell’Italia dei primi anni Cinquanta, là dove si svolsero gli eventi ricostruiti nel libro. «Sistema» ci conduce altrettanto direttamente nell’Italia dei primi anni Settanta, là dove l’ex picchiatore fascista, divenuto un intellettuale comunista, volle farsi biografo di se stesso. Tra una parola-macchina e l’altra (tra un’Italia e l’altra), lo spazio-tempo decisivo nella vita di Giulio Salierno: quindici anni di galera, per avere ucciso un giovane inerme nella Roma del 1953.

Audisio, chi era costui? Cittadino di un’altra Italia ancora, il lettore d’oggidì ha diritto di interrogarsi su Audisio come il prete manzoniano si interrogava su Carneade. Inutile esigere da lui chissà quali nozioni sul colonnello Valerio, i misteri di Dongo, piazzale Loreto: nell’attuale contesto di crisi dell’antifascismo, è già tanto se la repubblica «nata dalla Resistenza» ha trovato il modo di trasmettergli qualcosa di chiaro e distinto riguardo alla Liberazione. Sennonché, appunto, la figura di Audisio è troppo presente nel racconto di Salierno perché si possa fare a meno di definirne la valenza politica e simbolica. Se vogliamo capire che cosa indusse un piccoloborghese romano di diciotto anni, promettente leaderino neofascista, a uccidere senza motivo un ragazzo poco più grande di lui, salvo imboccare dal carcere un singolare cammino di redenzione morale e ideologica, è dal ragioniere Audisio Walter di Alessandria che dobbiamo prendere le mosse: da questo convitato di pietra all’incontrario, il cui fantasma aleggia sulla scena dell’ come quello non dell’uomo assassinato, ma dell’uomo da assassinare.

Nel tardo aprile 1945, quando Benito Mussolini, Claretta Petacci e gli ultimi gerarchi di Salò, fallita ogni mediazione , avevano cercato scampo fuggendo da Milano verso la Svizzera, i dirigenti della Resistenza si erano lanciati in una febbrile corsa contro il tempo. Volevano scongiurare la possibilità che il Duce e i suoi accoliti trovassero effettivamente rifugio presso un paese neutrale, ma volevano anche evitare che cadessero nelle mani degli Alleati, sottraendosi al giudizio degli italiani. Era stato così che, dopo l’arresto di Mussolini, riconosciuto e catturato a Dongo, un capo partigiano di provata esperienza militare e di stretta osservanza comunista, noto nel movimento resistenziale come il colonnello Valerio, aveva ricevuto la missione di precipitarsi sul lago di Como e di passare il Duce per le armi. Impresa compiuta in quattro e quattr’otto, attraverso un simulacro di processo popolare e l’esecuzione sommaria di Mussolini e della sua amante. Il colonnello Valerio – Walter Audisio – aveva poi riunito i due cadaveri a quelli degli altri gerarchi di Salò, fucilati dai partigiani di Dongo. Li aveva trasferiti nottetempo a Milano, e li aveva scaricati sul selciato di piazzale Loreto: pronti per essere vilipesi da una folla inferocita, e appesi a testa in giù come bovini di un macello.

Audisio era dunque, né più né meno, colui che aveva ucciso Mussolini. A partire dal 1947, l’identità del colonnello Valerio era stata rivelata , in seguito a una campagna di stampa neofascista. Da quel momento in poi, i comunisti avevano fatto di Audisio non soltanto un deputato della Repubblica, ma una bandiera del Partito: il tirannicida, il giustiziere che si era assunto la responsabilità di fucilare il Duce in nome del popolo italiano. Assai più equivoca era stata l’immagine di Audisio veicolata dagli ambienti centristi, e da una stampa «indipendente» asservita alle logiche della guerra fredda: dopo lo svelamento della sua identità, l’ex colonnello Valerio era stato trattato dai giornali d’opinione e dai rotocalchi popolari meno come un tirannicida che come un assassino. Quanto agli elettori e ai militanti del Movimento Sociale Italiano, seguaci impliciti o espliciti di Mussolini e del fascismo, non avevano potuto riconoscere in Audisio che un uomo da odiare. E anche, perché no, un simbolo da abbattere.

L’idea fissa che abitava la mente del giovane Salierno – uccidere Audisio: fargli «un buco nella testa con un foro d’ingresso in cui si potesse infilare il dito mignolo e un altro d’uscita in cui si potesse ficcare il pugno» – non era soltanto un’ossessione privata del commissario politico della sezione missina di Colle Oppio. Né era soltanto un personalissimo rito di passaggio dello sbarbatello verso l’età adulta, o un modo edipico di regolare i conti con la figura del padre, impiegatuccio ministeriale. Uccidere Audisio era un’idea che corrispondeva esattamente, quasi scolasticamente, alla mentalità del neofascismo giovanile nella Roma dei primi anni Cinquanta. Si lasciassero pure irretire dalla politica politicante i capi del neofascismo in doppiopetto, gli Arturo Michelini o gli Augusto De Marsanich, si facessero pure incantare dalle sirene della Democrazia Cristiana e dalle poltroncine del sottogoverno. I ragazzi come Salierno, quelli che venivano su tra una palestra e l’altra di pugilato, l’«Indomita», la «Bertola», e tra una spedizione squadristica e l’altra contro le sezioni comuniste della capitale, alla Garbatella, a Cinecittà, loro sapevano cosa dovevano fare per interpretare la natura genuinamente eversiva del neofascismo. Non occorreva cercare lontano: bastava appostarsi fra la Nomentana e la Salaria, caricare un fucile automatico, sparare contro l’onorevole Audisio. Bastava vendicare il Duce.

Ma quando tutto sembrava pronto, tutto andò a rotoli. La notte del 15 giugno 1953, in una strada periferica di Roma, Salierno e il suo migliore camerata uccisero un ragazzo di cui non sapevano nulla, «senza un perché»: senza neppure l’ombra di una motivazione politica, quasi in un raptus di criminalità comune. Fuggirono poi in Francia, si arruolarono nella Legione straniera, vennero arrestati dall’Interpol e ricondotti in Italia. Processati per omicidio, furono condannati a trent’anni di reclusione. Salierno pagava così a caro prezzo la sua versione del mito di Audisio: il sogno di passare alla storia come «il giustiziere dell’uccisore di Mussolini». Pagava, in generale, un’interpretazione dell’impegno militante come scelta più o meno consapevole di autodistruzione. Tra gli squadristi della sezione missina di Colle Oppio, negli anni successivi all’arresto di Salierno, uno si è suicidato, due sono morti nella Legione straniera, due si sono ammazzati facendo bravate con l’aereo o con la moto, un altro è stato sgozzato in Africa.

«Sistema» è la seconda parola magica che percorre l’ di Salierno, quando l’autore si esprime non già al passato, da picchiatore fascista, ma al presente, da rivoluzionario comunista: «il rivoluzionario che deve porsi sul terreno della guerra civile». O piuttosto che deve, nel suo caso, sul terreno della guerra civile, non più da nero ma da rosso, non più da camerata ma da compagno. Essendo transitato nel frattempo attraverso il bagno purificatore degli studi in carcere, avendo assimilato da una cella il pensiero di maestri vecchi o nuovi della sinistra, Marx e Gramsci, Lenin e Foucault. Ed essendo divenuto nei tardi anni Sessanta – al crescere impetuoso della protesta studentesca – un uomo-simbolo della lotta contro il sistema penitenziario: contro il carcere quale luogo di reclusione, ghetto dei poveri, dei deboli, dei marginali, ma anche contro il carcere quale «istituzione...



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