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E-Book, Italienisch, 78 Seiten

Reihe: Gransassi

Siti Pagare o non pagare


1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-7452-717-5
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

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Reihe: Gransassi

ISBN: 978-88-7452-717-5
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Come è cambiato il rapporto con i soldi nell'arco di pochi decenni? Rispetto a una generazione che ha conosciuto il 'piacere di pagare', il quale definiva l'identità stessa di una persona ('pagare era una sottospecie del pregare'), per 'i nativi digitali sono mutati i parametri mentali: pagare (ed essere pagati) è diventato più aleatorio, lavorare per comprare è più una teoria che un fatto, il rapporto stesso con l'economico è diventato più rabbioso, indolente e disperato al tempo stesso'. In questo pamphlet di Walter Siti, il concetto di pagare diventa lo spunto per una riflessione critica e un'analisi sociologica e storica di una trasformazione ancora in atto. Pagare o non pagare inaugura la serie di gransassi Trovare le Parole.

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2. Ma insomma, quanto costa davvero?


Sarà proprio vero, come si dice, che la vita non ha prezzo? Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, assorbito dagli americani in qualche modo lo shock, Kenneth Feinberg fu nominato commissario speciale per i rimborsi alle famiglie dei deceduti; il budget era illimitato ma dovevano comunque essere trovati dei criteri di raffronto per erogare cifre precise. Il criterio che Feinberg adottò1 fu di calcolare quanto ogni vittima avrebbe presumibilmente guadagnato nel corso della vita che gli sarebbe restata da vivere; dunque gli uomini vennero valutati piú delle donne, i giovani piú degli anziani, i dirigenti molto piú delle segretarie. Le loro vite, una volta stroncate, non ebbero lo stesso prezzo. Quando, quattro anni dopo, si trattò di rimborsare le famiglie delle vittime dell’uragano Katrina, mediamente le cifre equivalsero alla metà di quelle che erano state decise da Feinberg per le Torri Gemelle; forse perché l’uragano aveva colpito zone meno ricche di Manhattan o forse, come venne ipotizzato dalla stampa dell’epoca, perché era piú difficile per l’opinione pubblica “sentirsi coinvolta”. Una vita spenta dal terrorismo vale due volte una vita annegata in un’alluvione.

Per prevenire un rischio di morte, quanto è disposta a spendere una società? Nei paesi poveri la vita vale meno: è culturalmente piú ovvio produrla e gli abitanti la sacrificano piú facilmente – le spese per la prevenzione sono molto minori, si lavora in ambienti inquinatissimi e in edifici pericolanti, le scarse forze di sicurezza sono requisite dalle oligarchie al potere. Se i fumi, le polveri o i liquami di una fabbrica provocano il cancro, quanto piú gli operai sono poveri tanto meno i proprietari di quella fabbrica dovranno spendere per bonificarla; un lavoratore che accetta un rischio di tumore in cambio del lavoro fisso, quanto valuta la propria vita? Per rendere antisismici tutti i nostri edifici, per garantire gli agglomerati urbani alle falde del Vesuvio, per minimizzare gli attentati o i morti sulle strade, in teoria si dovrebbero spendere cifre che manderebbero in tilt qualunque bilancio; che rapporto c’è tra spesa pubblica e vite potenzialmente salvabili? Insomma, fino a quante morti un risparmio è “ragionevole”? Anche quando si parla di vite umane, vige il calcolo costi/benefici: vale la pena di deviare il corso di un fiume perché un solo bambino potrebbe caderci dentro?

Le compagnie di assicurazione, loro lo sanno quanto costano la vita e la salute dei loro clienti, tengono tariffari dettagliatissimi; in un pronto soccorso del Wisconsin è stato rilevato che, tra le vittime di gravi incidenti d’auto, coloro che erano privi di assicurazione avevano il 40% di probabilità in piú di morire. Per un cittadino del Wisconsin, scegliere se permettersi o no una (carissima) assicurazione privata significa inconsciamente assegnare un prezzo alla propria vita. Un contadino messicano che voglia passare negli Stati Uniti può corrompere una guardia di frontiera o affidarsi a una guida illegale (i cosiddetti “coyotes”): la seconda costa meno ma il rischio di essere sparati o imprigionati è piú alto – anche in questo caso la vita diventa una variabile economica. La crisi post-2008 ha messo in ombra le preoccupazioni per il clima; questo significa che, nella nostra percezione, la vita di un uomo del 2150 vale meno della vita di un uomo ora? Il nostro corpo ha un prezzo: sia perché costa nutrirlo, coprirlo e mantenerlo in salute, sia perché possiamo affittarlo nella prostituzione o nella procreazione, sia perché costa seppellirlo – ma anche perché il lavoro lo consuma, e perché ormai si può vendere a pezzi col commercio degli organi: in Iran un rene costa 1200 dollari sul mercato legale, in India 860, ma in quasi tutto il mondo si possono strappare prezzi assai piú convenienti sul mercato clandestino.

Tutto ha un prezzo: l’aria pura costa meno in Svizzera che in Cina2, in Burkina Faso gli agricoltori pagano, per usarla come fertilizzante, la spazzatura indifferenziata. Da sempre si sa che le donne costano: che sia il “prezzo per la sposa” che un giovane africano deve versare al suocero (in denaro o in capi di bestiame), o sia la tradizionale dote da dare alla figlia che abbandona la casa paterna, dote cosí onerosa talvolta da lasciare le figlie per sempre zitelle (o monache), o piú radicalmente indurre all’infanticidio femminile3. Costa il tempo, costano i voti (sia che ci si rivolga a un regolare gruppo di lobbisti o si ricorra alla scorciatoia della corruzione), costa la priorità (che tu voglia assaporare il gusto di essere un early adopter di prodotti alla moda, o che tu pretenda il tuo sito tra i primi posti nelle schermate di Google); nemmeno Dio si sottrae alla sfera dell’economico (piú si è benestanti e integrati, piú si scelgono “fedi” poco impegnative). Nessun compiacimento cinico nello smontare il romanticismo idealista del “la vita non ha prezzo” o dell’“amore trionfa anche sulla povertà”; piuttosto il bisogno di considerare lucidamente il gap tra utopia e realtà nella vita associata, visti i giochi ambigui e sporchi che i media (e la politica) sono portati a fare su tale gap. “Di ogni cosa”, suggeriva Brecht, “chiedere innanzitutto quanto costa”, senza lasciar fuori dal conto la nostra sfera piú intima – è il solo antidoto contro le illusioni di una soggettività sempre piú immaginaria.

È interessante, semmai, capire perché certi costi siano continuamente enfatizzati, in luce, e su altri invece si stenda pudico o complice il silenzio. Il “costo della politica”, per esempio, è urlato da tutti i talk show: e tutti si stracciano le vesti sottolineando come tale costo venga poi sopportato, attraverso le tasse, dai cittadini. Qualche giornale si spinge a fare, scandalizzato, delle cifre: il Secolo d’Italia, nel 2015, sparava in prima pagina “143 euro all’anno per abitante in Val d’Aosta, 63 euro in Trentino”. Si sorvola su altri costi che incidono molto di piú; mi chiedo a quanto sommi annualmente, tanto per dirne una, il “costo del conformismo”. Quanto costa cioè, a ogni italiano, comprare cose che non gli servono solo per far rabbia al collega d’ufficio, o per obbedire all’ingiunzione sociale latente del “ce l’hanno tutti”? Senza arrivare agli estremi del “consumo ostentatorio” di cui parlava Thornstein Veblen (consumo che almeno ha il pregio dell’autocoscienza e forse dell’autoironia, come con l’applicazione per iPhone apparsa nel 2008 e denominata “I Am Rich”, che per modici 999 dollari faceva apparire sul tuo display una magnifica gemma rossa, e basta)4 – senza arrivare a questo, esiste ormai in tutti i ceti sociali un bisogno di lusso democratico (“da oggi il lusso non è piú un lusso”, proclama un noto slogan pubblicitario): la borsa assemblabile con rifiniture componibili a scelta per avere un “accessorio esclusivo”, il jamón serrano messo in tavola invece del prosciutto di Parma, la frutta fuori stagione, il sabato pomeriggio a farsi coccolare in un centro massaggi. “Protect me from what I want”, invocavano negli anni novanta le gigantesche scritte al neon di Jenny Holzer, prima che la locuzione diventasse proverbiale e fornisse il titolo a una canzone dei Placebo.

A proposito di “effetto placebo”, ogni esperto di vendite sa che l’acquirente medio e impreparato, di fronte a due prodotti che appartengono all’area del consumo-coccola, sceglierà quello che costa di piú e non quello che costa di meno – provare per esempio con due bottiglie di vino sconosciuto, da portare in dono a una cena. L’economia è per metà psicologia. Si potrebbe calcolare, nella vita quotidiana di ciascuno di noi, il “costo dell’inerzia” (cioè quanto spendiamo per non modificare le nostre abitudini) o il “costo della facilità” (tutte le cose “già montate” invece che trafficare noi con un po’ di bricolage, o l’insalata già pulita al supermercato; per non parlare dei biglietti d’auguri già scritti, o dei mazzi di fiori “con preghiera prestampata” in un chiosco davanti al Cimitero Monumentale). Costa il diritto di non sottostare alle leggi (le aziende in Europa possono comprare concessioni per emettere CO2 oltre il limite consentito), costa l’autocostrizione a tenersi in forma (i sedentari sono quelli che in palestra pagano gli abbonamenti piú lunghi); costa lo sballo, costa il piacere dell’indifferenza (le monetine che lasciamo cadere nel cappello di un barbone pur di non fermarci a conversare con lui, o i trenta euro di una tessera politica per non sentirci colpevoli di diserzione, o una pelliccia a mamma per Natale onde abbandonarla senza scrupoli nelle mani della badante), costa l’agio di trasgredire anche alle regole piú semplici. In Israele alcune scuole hanno fissato una piccola ammenda per i genitori che andavano a prendere i figli in ritardo: con sorpresa dei dirigenti, il fenomeno invece di diminuire è aumentato – una volta che la coscienza veniva tacitata pagando, i genitori si sentivano autorizzati a fare il comodo loro.

Di fronte a tutti questi costi a cui non badiamo, moneta che ci scivola inavvertita o benedetta dalle tasche solo per consentirci di alimentare il nostro ego, ha davvero senso indignarci per quanto ci costa ogni migrante? Fosse bruta spilorceria, ma consapevole, darebbe almeno al denaro l’importanza che ha: gli avari di Dickens lo conoscevano bene il peso di una ghinea. Quel che si è perso è proprio il senso originario del denaro; il consumismo si è caratterizzato fin dall’inizio per una sproporzione tra valore d’uso e valore di scambio, ma oggi il divario è diventato cosí abissale e falotico da far perdere qualunque...



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