E-Book, Italienisch, 338 Seiten
Stefánsson Grande come l'universo
1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7091-439-9
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 338 Seiten
ISBN: 978-88-7091-439-9
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
«Le persone possono trasformarsi in una lacrima o in un pugno - a volte la differenza tra le due cose è molto sottile» e racchiude la storia di un'intera famiglia. Dopo aver mandato all'aria il suo matrimonio, la scrittura ed essere fuggito lontano, Ari torna in Islanda per incontrare il padre malato e vicino alla fine. Ma il muro di silenzi che li divide lo obbliga a un viaggio indietro nel tempo che intreccia i destini di tre generazioni e le diverse anime di un paese. Un paese di pescatori stretto tra un mare che dà e prende la vita, e un cielo infinito che nutre i sogni e il bisogno di poesia, dove il nonno Oddur, l'eroe dei fiordi, crede solo nella sua lotta per la sopravvivenza, mentre nonna Margrét incontra un uomo che le insegna a leggere le stelle. È lo spirito ribelle di Margrét che Ari sembra ereditare attraverso le donne della famiglia, dalla zia Veiga che durante la guerra si abbandona all'amore e diventa la «puttana dei tedeschi», alla zia Lilla che compone i suoi unici versi alla morte della figlia perché non sia mai dimenticata. E sono le voci immortali della letteratura e della musica a risuonare in questo romanzo, da Dante a Hemingway, da Elvis a Mozart, alle band islandesi, ai Dire Straits. Una saga famigliare cominciata con I pesci non hanno gambe che racconta un secolo di storia attraverso i due angoli opposti del paese, e tutta l'ironia, la poesia e la sensualità dell'esistenza. Il viaggio di un uomo e di uno scrittore che si guarda indietro alla ricerca delle parole da mettere in salvo e tramandare, per ricordarci chi siamo, per vincere l'oblio del tempo e quel silenzio che ci può trasformare in una lacrima o in un pugno. Jón Kalman Stefánsson ritorna con un grande romanzo corale per raccontare l'anima di un paese, e quel potere delle parole di dare corpo ai desideri e decidere destini, di farci affrontare le acque più insidiose.
Weitere Infos & Material
E così il destino si avvia, ma nevica
sulle strade vuote di Keflavík, sulla
disoccupazione e sulle insegne pubblicitarie
Nostra zia, la zia mia e di Ari, non aveva tutta questa gran fiducia nelle antiche tradizioni, che probabilmente sono la definizione più garbata per la superstizione, la grettezza, a meno che al contrario non siano una sorta di saggezza che ci ha tenuti in vita in questo paese inospitale, in questa grande isola solitaria. La vita di rado le aveva mostrato clemenza, tantomeno gli uomini o il destino, e in tutti i suoi giorni lei aveva composto un’unica poesia. Parlava di sua figlia, Lára, che era morta a soli otto anni dopo una grave malattia. Nonostante la tenera età sembrava sapere come sarebbe andata, era stata incredibilmente forte, stoica, era crollata solo verso la fine, si era destata dal suo stato di incoscienza, aveva spalancato gli occhi, si era aggrappata alla madre e aveva chiesto spaventata: Mamma, credi che si senta male, a morire? Mamma, ma poi rimarrò sola? E nostra zia, che chiamavamo sempre e soltanto Lilla, sorrideva e diceva no, cuore mio, staremo sempre insieme, non ti lascerò mai. Ma era stato uno sforzo enorme per lei mentire, sorridere e mantenere il sorriso davanti alla figlia perché vedesse qualcosa di bello nei suoi ultimi momenti di vita, e così confidasse che la morte è solo un passo di lato, una momentanea esitazione prima della felicità, senza mai temere che fosse una brutta megera crudele che viveva nella fosca montagna sopra il villaggio. Lilla era riuscita a sorriderle ma non a trattenere le lacrime che continuavano a scorrerle dagli occhi grigi. Stringeva Lára tra le braccia sentendo la giovane vita scivolare via, e cercava di trattenerla con tutta la forza dell’amore, che è incommensurabile e molto più primitiva dei settecento anni di lava che vedeva dalla finestra della loro casa di Grindavík. La teneva stretta ma la morte tirava molto più forte, quella alla fine trascina tutto a sé, i fiori e il sistema solare, gli straccioni come i presidenti. Lilla lo sentiva, sentiva che l’amore, le lacrime, la disperazione non servivano a niente, che al cospetto della morte non esiste giustizia, solo la fine di tutto, e allora compose quella poesia, non poté farne a meno, una forza inarrestabile la spinse a farlo mentre stringeva quel corpicino gracile di otto anni, aveva già offerto più volte la sua vita in cambio, la sua felicità, la salute, i ricordi, tutto, ma era sempre stata ignorata. Ogni sforzo era stato inutile e l’unica cosa che Lilla aveva potuto fare, l’unica cosa che era riuscita a offrire alla figlia era stato tenerla tra le braccia mentre le lacrime scorrevano, una supplica dopo l’altra, così sincere e pure che è incomprensibile che non abbiano sortito alcun effetto, che non siano valse a nulla, forse è vero che non esiste giustizia in questo mondo, né un briciolo né una traccia. Ma allora, e forse proprio per questo, compose la poesia su sua figlia. Che era una bambina di otto anni con i capelli biondi e ricci, la fronte serena, gli occhi azzurri, il buffo nasetto a patata e la bocca che sapeva ridere da far sbiadire tutto il male del mondo e renderlo un sassolino nero che chiunque poteva lanciare lontano.
Il fratello minore di Lilla era un poeta, anche sua sorella, ma lei non aveva mai saputo comporre versi, proprio come il fratello più grande, il nonno mio e di Ari, nemmeno un mezzo rigo, prima di quel momento, quando tutto era venuto meno. Una poesia, due strofe, dopo di che il mondo era morto.
Un anno dopo il marito l’aveva già lasciata. Sembrava non le importasse più di continuare a vivere, avere altri figli, lasciarlo avvicinare, gli consentiva a malapena di starle accanto, figuriamoci toccarla. Lui la accusava di provare un dolore esagerato, si era espresso proprio così, un dolore esagerato. Avrei dovuto saperlo, le aveva detto arrabbiato, quasi sbottando, mi avevano messo in guardia più di una volta sulla vostra gente, degli spostati, esaltati, impossibile farci affidamento, tutti artisti deboli di nervi. Io voglio continuare a vivere, è un crimine? È un tradimento? Mi stai letteralmente annientando con il tuo dolore.
E poi aveva picchiato i grandi pugni chiusi sul tavolo, ma con gli occhi lucidi, d’un tratto sembrava lottare contro le lacrime. In seguito diventò un armatore affermato, conosciuto in tutto il paese, di cui si parla anche nella Storia di Grindavík, mentre non si fa menzione di Lilla, così vanno le cose, ci ricordiamo dei beni materiali, non del dolore. Lei si trasferì di nuovo a Reykjavík. Con il fardello di una vita intera in una sola valigia: un cambio d’abiti, quattro libri, la tabacchiera del padre che era morto il giorno prima della sua cresima, era caduto al porto ubriaco fradicio, aveva annaspato ridendo nel mare gelido, finché non era stato ripescato da un compagno di bevute, sghignazzante pure lui, perché in acqua il padre di Lilla, il bisnonno mio e di Ari, sembrava una medusa spettrale o un pesce malfatto, ma era rimasto ammollo così a lungo che si prese un malanno, gli venne la polmonite e morì. Nient’altro che quello nella valigia, un cambio d’abiti, quattro libri, la tabacchiera, la fotografia di Lára, due suoi vestitini, la sua bambola, quattro disegni e la poesia che in seguito avrebbe trascritto a macchina e incollato sotto la foto. E infine il suo senso di colpa, per aver tradito la figlia continuando a vivere invece di morire con lei.
La foto e la poesia erano le prime cose che appendeva alla parete quando si trasferiva in una nuova casa, un nuovo seminterrato, una nuova mansarda, un nuovo bugigattolo, e lo faceva assai spesso, in tutto si trasferì ventisei volte in quarant’anni. Un po’ come se fosse sempre in fuga, non riusciva a stare più di due anni nello stesso posto, e la prima cosa che faceva era appendere il piccolo ritratto della bambina di sette anni, sorridente davanti alla casa di Grindavík, all’epoca in cui splendeva il sole. La foto stava sopra il divanetto verde, la poesia attaccata sotto e i quattro disegni tutt’intorno. Con il tempo rimasero le uniche cose a ricordare al mondo che sua figlia era davvero esistita su questa terra. Io e Ari imparammo subito quei versi a memoria, senza che nessuno ce l’avesse chiesto, senza pensarci, con tutte le volte che ci eravamo seduti davanti al divano a bere cioccolata calda, mangiare biscotti, ricevere la benevolenza di Lilla, in qualche modo ci erano filtrati dentro. Lilla l’aveva scoperto per caso, ormai anziana, malridotta, e non era riuscita a controllarsi, quella persona compassata aveva cominciato a tremare, poi si era messa a dondolare avanti e indietro come per tranquillizzarsi, però piangeva, completamente disarmata davanti a noi, come se quella poesia fosse l’unica cosa a impedire che sua figlia sparisse nell’oblio. Finché esisteva, e qualcuno la conosceva, Lára era al sicuro nell’aldilà. Qualcuno si sarebbe occupato di lei in un buio pieno di minacce – così i suoi versi erano una sorta di messaggio che riusciva a varcare quella zona ineffabile tra la vita e la morte, a raggiungere una bambina di otto anni che aspettava la sua mamma, in un modo che andava oltre la nostra comprensione, arrivavano fino a lei, la toccavano e le dicevano, su, su, va tutto bene, perché presto arriverà la tua mamma, presto morirà anche lei e allora raccoglierete i ranuncoli insieme.
Si era trasferita ventisei volte, da un seminterrato a una mansarda, da una mansarda a un seminterrato, e prima di andare a dormire per la prima volta in una casa ne contava sempre le finestre, una, due, tre, quattro, cinque, perché così si avveravano i sogni notturni, una vecchia credenza, una superstizione, un vecchio fardello, quasi l’unica cosa di quel genere a cui prestava fede, a cui voleva credere, che i sogni si costruissero su forze che né la veglia né la logica conoscevano e chissà, forse si sarebbe svegliata in un nuovo mattino con il sorriso della figlia, che aveva ancora otto anni anche se ne erano passati decine, nessuno invecchia nella morte, il tempo non passa nell’eternità, la sua forza irriverente si vanifica. Per qualche motivo io e Ari abbiamo preso da lei questa usanza, di contare le finestre della casa in cui dormiamo per la prima volta, anche se solo per una notte, come se questo semplice rito potesse far avverare i nostri sogni, piegare le leggi di natura; conto le finestre nella piccola casa di legno a due piani dello zio nel quartiere antico di Keflavík. Ma devo uscire per farlo, sotto la neve, talmente fitta che Keflavík è sparita del tutto. Torno dentro rivestito di bianco, con una tunica angelica, come se fossi stato benedetto, i gatti dello zio mi soffiano contro come due serpenti velenosi ma io vado a dormire, copro con un plaid lo zio che si è addormentato sulla poltrona, ascoltando i Hljómar che cantano «è un paradiso, esistere», un’affermazione chiaramente azzardata. Lo copro con il plaid, sbatto per due volte contro i modellini aerei che pendono dai fili sottili al soffitto, i cacciabombardieri dell’esercito americano. Ho contato le finestre, la neve che avevo addosso si è sciolta, ho chiuso cautamente la porta della camera in modo che i gatti non possano entrare a strapparmi gli occhi a graffi, e infine mi stendo sul letto che ricorda una vecchia brandina da adolescenti, e mi addormento. Sento il mare nel dormiveglia, è fuori, nella neve, non molto distante sotto la casa, lo strumento musicale più grande del mondo che nei suoi accordi contiene due fratelli, il destino e la morte, due opposti, il conforto e la veemenza. Sprofondo lentamente nel mondo del sonno e il fragore del mare si confonde con i miei sogni. Il mare che un tempo era l’ambiente naturale di Oddur, il nonno paterno di Ari, lui...