E-Book, Italienisch, 370 Seiten
Stefánsson I pesci non hanno gambe
1. Auflage 2015
ISBN: 978-88-7091-422-1
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 370 Seiten
ISBN: 978-88-7091-422-1
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Tutto comincia con l'amore, questa «esplosione solare che ti distrugge la vita e rende abitabili i deserti», ma che con il tempo può raffreddarsi diventando un banale martedì. È allora che Ari, poeta di vocazione ed editore di successo, manda tutto in frantumi, tradisce sua moglie e i tre figli e fugge dall'Islanda. È allora che sua nonna Margrét, un secolo prima, ritorna dal Canada piena di sogni e libertà, si toglie il suo vestito americano per il marito che si è scelta, ma si ritrova soffocata da un villaggio di pescatori che destina l'uomo al mare e la donna a un'inerte solitudine. Ed è l'urgente ricerca di se stessi e della felicità a guidare questa insolita storia famigliare, che procede a flashback nel tempo e attraverso i due angoli opposti d'Islanda, da un arcaico fiordo dell'est alla piana di Keflavík, «il posto più nero del paese», che ha avuto il suo unico periodo di splendore all'epoca della controversa base americana, quando navi cariche di prodotti mai visti venivano accolte come messaggere di nuovi tempi, ponti verso il mondo e la modernità. Una storia di pescatori che vogliono navigare fino alla luna e di astronauti americani che si addestrano all'allunaggio nei campi di lava, di giovani sognatori che scoprono i Beatles e i Pink Floyd e di monelli che assaltano i camion USA per fare scorta di M&M's. Un romanzo corale in cui tanta voce hanno le donne e la stessa natura parla per raccontare l'anima di un paese, e quel potere delle parole di dare corpo ai desideri e decidere destini, di farci affrontare le acque più insidiose, anche se non sappiamo nuotare, anche se i pesci non hanno gambe.
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Non lo dico con risentimento, ma Ari è l’unica persona che avrebbe potuto trascinarmi di nuovo in questo posto, sulla sterminata distesa di lava nera che si è arrestata nella sofferenza centinaia di anni fa, in alcune zone nuda ma in qualche punto il muschio è riuscito ad ammorbidirla e consolarla, vestirla di silenzio e di conciliazione; ci allontaniamo in macchina dalla città, oltrepassiamo il lungo stabilimento per la lavorazione dell’alluminio e ci addentriamo nel campo di lava che prima è un urlo arcaico, poi un silenzio ovattato dal muschio.
È nuvoloso, le nubi scure hanno soffocato l’esitante chiarore dicembrino e la lava è come una notte da entrambi i lati della strada, la Reykjanesbraut. A metà percorso si accendono i lampioni lungo la carreggiata che con le loro luci persistenti vegliano sugli esseri umani, e sottraggono loro le stelle e il panorama, luci che oscurano la vista. Passo attraverso il cielo plumbeo e i ricordi, un campo di lava e sentimenti offuscati, chi se ne va non torna mai indietro, eppure io sto tornando, e neanche tanto esitante ma a centodieci chilometri all’ora, a Keflavík.
Keflavík che non esiste.
Non so se sia per questo audace verso poetico, per la verità della poesia, ma andare a Keflavík somiglia sempre un po’ ad allontanarsi dal resto del mondo per raggiungere un luogo che non esiste. Eppure bastano appena venti minuti di macchina dal lungo stabilimento per la lavorazione dell’alluminio e dalla vegetazione poco vigorosa che vi sta intorno per vedere le prime case di Njarðvík emergere dalla lava, avvolte dal grigiore e dal nonsenso. L’incredulità che qui si possano celare delle vite non ci abbandona mai, me e Ari, che questa sia una zona abitabile, che ci siano addirittura parecchie case, c’è qualcosa in questo fatto che sfida la ragione, la logica della storia. D’altra parte le case di Njarðvík non dovrebbero coglierci di sorpresa, dovremmo essere preparati, perché dopo esserci lasciati alle spalle una buona metà del tragitto troviamo sulla destra il piccolo villaggio di Stapaþorp, che è prosperato e ha vissuto sull’esercito americano e adesso sonnecchia mezzo sepolto nella lava ai piedi di Stapi, la grande rupe da cui prende il nome e che si erge più simile alla grinfia di un troll o a un urlo uscito dal mare burrascoso. E pochi chilometri dopo compare una grande insegna intermittente con un nome che lampeggia piano, come il palpito di un cuore oppresso sul via vai del traffico:
REYKJANESBÆR
Lampeggia come un avvertimento a chi passa di qui, l’ultima occasione per tornare indietro, il punto in cui finisce il mondo.
Reykjanesbær, la scialba denominazione che raggruppa tre centri abitati e i loro vecchi toponimi: Njarðvík, Keflavík, Hafnir.
Mille abitanti. E un mare senza quote ittiche.*
Non faccio marcia indietro, procedo oltre l’avvertimento, continuo a uscire dal mondo, e ben presto mi trovo davanti l’incomprensibile, prima l’enorme hangar sulla vecchia Vallarsvæði, di gran lunga l’edificio più grande di tutta l’Islanda, eretto dall’esercito americano, le dimensioni una conferma della sua supremazia – poi dal campo di lava spuntano le case di Njarðvík, e oltre quelle si estende Keflavík, il luogo che custodisce anni importanti della mia vita e di quella di Ari, il posto dei tre punti cardinali.
L’Islanda è una terra impietosa, si dice da qualche parte: «ed è a malapena abitabile nelle annate peggiori». Dev’essere un’affermazione corretta, i monti celano un temperamento collerico e portano la morte in seno alle loro pendici, il vento può essere spietato, il gelo esasperante. Una terra impietosa e per due volte gli islandesi sono stati quasi sterminati dalle privazioni, dalle malattie, dalle eruzioni vulcaniche, ma Keflavík è sicuramente la zona meno abitabile del paese. In confronto a Keflavík, la regione di Biskupstunga e le campagne dello Skagafjörður hanno il volto della beatitudine celeste, la mitezza delle terre meridionali. Se il pesce veniva a mancare c’era poco a salvarti, le raffiche salmastre percuotevano gli abitanti, l’acqua della vita spariva insieme alle speranze nella distesa di lava, e tra qui e il cielo non è mai stata misurata una distanza più grande. Di nessun valore, si dice nello di Árni Magnússon e Páll Vídalín,** del XVIII secolo, la prima descrizione completa di Keflavík, stilata dalla ponderatezza degli uomini di scienza. Non davano spazio alla poesia, loro, ai sentimenti, ai giudizi personali, contavano solo la precisione e l’analisi: «Navi non ne arrivano, l’approdo è pessimo. Nessun campo coltivato, piuttosto aree di pascolo, e massima scarsità di acqua potabile, sia in estate sia in inverno. Il cammino per raggiungere la chiesa è lungo e spesso impraticabile nel periodo invernale. In nessun altro luogo nell’intero paese il popolo dimora in tale prossimità con la morte».
Io e Ari abbiamo abbandonato Keflavík alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, siamo saliti su un autobus portando con noi le cose più importanti, vestiti, ricordi, libri, dischi, e non ci siamo mai voltati indietro. Alla partenza l’autista, un signore rispettabile di una certa età, con i capelli grigio argento e provvisto di una serenità bonaria, aveva infilato un nastro nel mangiacassette e alzato il volume, cominciava a sentirci poco, e per tutta la strada fino a Reykjavík gli Wham ci avevano tormentati come una vendetta spietata. Lentamente eravamo usciti dalla città, avevamo oltrepassato il porto e poi la Vallarsvæði, con i suoi cacciabombardieri e seimila soldati americani che nel frattempo se ne sono andati, partiti qualche anno fa, portando via con sé le armi e la morte, il lavoro e gli hamburger, la radio e i locali da ballo, senza lasciare altro che case abbandonate e disoccupazione. Avevamo attraversato Njarðvík e imboccato la Reykjanesbraut, allora più stretta e lenta, almeno un’ora di macchina per Reykjavík, l’autista aveva ascoltato per tre volte lungo il tragitto, e la sua serenità bonaria si era trasformata in cattiveria.
«Sono felice di essere venuto nel posto più nero del paese», disse il presidente islandese durante la sua visita ufficiale nel settembre del 1944, tre mesi dopo la costituzione della repubblica, le sue prime parole in quella che finora è stata l’unica visita di un presidente islandese a Keflavík. Il posto più nero – com’era possibile vivere qui prima dell’arrivo dell’esercito americano, prima dell’epoca della meccanizzazione?
Si fa presto a rispondere, semplicemente non era possibile.
«In nessun altro luogo nell’intero paese il popolo dimora in tale prossimità con la morte.»
Il vento incessante sembrava poter soffiare da due direzioni contemporaneamente, la salsedine e la sabbia ci frustavano a turno, il cielo era così distante che le nostre preghiere non arrivano che a metà strada, per poi cadere a terra come uccelli morti o trasformarsi in grandine, e l’acqua potabile era salata come se stessimo bevendo l’oceano. Questo posto non è vivibile, tutto lo sconsiglia, il buonsenso, il vento, la lava. Eppure ci abbiamo abitato per tutti questi anni, per tutti questi secoli, ostinati come la lava, silenziosi nella storia come il muschio che cresce sulla roccia e la trasforma in terra, qualcuno dovrebbe farci un monumento, darci una medaglia, scrivere un libro su di noi.
Noi chi?
Io e Ari naturalmente non siamo originari di qui – e come potremmo esserlo – non sul serio, ci siamo trasferiti quando avevamo dodici anni, e siamo partiti, spariti, dieci anni più tardi, dopo aver concluso la scuola dell’obbligo, aver lavorato nell’edilizia, nel merluzzo e nello stoccafisso a Keflavík e a Sandgerði, tre anni nel sale e nel pesce essiccato al vento, finite le superiori; siamo arrivati bambini, e ripartiti che eravamo qualcos’altro. Non siamo affatto originari di qui, allora perché il cuore mi batte forte in petto quando mi avvicino in auto a Njarðvík, il posto che sembrerà sempre il gruppo spalla di Keflavík, la band sconosciuta, che non ha niente degno di essere menzionato se non il centro civico Stapinn? Un nuovo quartiere residenziale è sorto dove un tempo si stendeva una catena di colline deserte in direzione della Vallarsvæði, per lo più grandi ville singole, alcune sono ancora vuote e sovrastano la strada come una vita che qualcuno si sia dimenticato di vivere. Sotto le case si aprono distese di cespugli bassi, file di esili alberi assicurati saldamente al suolo, come per evitarne la fuga. Poi l’auto scivola sulla linea invisibile che separa Njarðvík e Keflavík. Il cuore batte, questo muscolo insulso, un misterioso...