E-Book, Englisch, 343 Seiten
Reihe: Narrativa
Stefánsson Il mio sottomarino giallo
1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-7091-791-8
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Englisch, 343 Seiten
Reihe: Narrativa
ISBN: 978-88-7091-791-8
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
È estate in un parco di Londra, quando a uno scrittore islandese di passaggio sembra di vedere nientemeno che Paul McCartney, seduto sotto un albero. Deve avvicinarlo, ma cosa dirgli? Come riordinare il groviglio di una vita che ai Beatles si è aggrappata nei momenti più difficili? Forse la storia comincia nel 1969, quando lo scrittore aveva sette anni e il padre sulla sua Trabant, più imbarazzato che commosso, gli disse che mamma era morta, lasciando al figlio i suoi dischi, i suoi libri e un vuoto enorme. Poi arriveranno una matrigna, l'appartamento in uno squallido condominio di Reykjavík, i silenzi ostinati di un padre alcolista, lo scioglimento dei Beatles, l'immersione nella Bibbia e la scoperta amara del dio crudele dell'Antico Testamento. Il suo mondo è crollato e di lui si impossessa un furore senza nome, mitigato soltanto dalla solitudine e dalle lunghe estati trascorse nei selvaggi Strandir, nel Nord dell'Islanda, dove fantasia e realtà si confondono, i Beatles si riuniscono e i morti tornano, a implorare di non essere dimenticati. E se la vita è «una ferita che non si rimargina mai», il bambino si fa adulto e scopre la poesia chiuso nella biblioteca di Keflavík, conosce l'amicizia e impara a leggere il silenzio, forse anche quelli del padre. In un romanzo dove l'ispirazione autobiografica si mischia ad allucinazioni magiche, tra salti nel tempo e da un continente all'altro, Jón Kalman Stefánsson ripercorre a cuore aperto una vita intensa come tante e, munito solo di una penna che sa trovare la speranza quando tutte le luci si spengono, accompagna il lettore nei suoi luoghi oscuri.
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Credo di essere stato l’unico nel condominio che li ha frequentati. Conoscevo la loro storia, sapevo da dove venivano, com’erano veramente. Si può dire che li avessi ricevuti in eredità dopo la morte della mamma.
Sono le sette del mattino passate da poco, qualche mese dopo che i dati di fatto di papà e di Dio avevano ucciso la mamma sulla Keflavíkurvegur. Papà ha appena riempito il suo thermos di caffè e si è preparato il pranzo al sacco. Io sono seduto a tavola in cucina davanti alla zuppa d’avena fatta da lui.
Oggi vai a scuola, dice papà dopo aver messo il pranzo al sacco e il thermos in una borsa di tela, ma invece di sbrigarsi a uscire sta in piedi davanti alla finestra a guardare il mattino scuro e pesante di neve.
Io sono seduto a tavola, fisso la ciotola piena di zuppa d’avena troppo liquida, aspetto che se ne vada.
Sì, sì, certo che vai a scuola, che mi viene in mente, dice, e continua a osservare il mattino, si gratta la testa, strizza un occhio come se cercasse di ricordare qualcosa d’importante, poi scuote la testa, come se vi avesse rinunciato del tutto, e annuisce. Ma certo, ripete, la scuola, bisogna andarci. Una volta ci andavo anch’io. Pensa un po’. Roba da matti!
Lancia un’occhiata verso di me, fa di nuovo sì con il capo come per conferma. Io alzo la testa e vedo la distesa di lava scarmigliata che ci separa.
Papà: Allora vado.
Si gratta di nuovo la testa. Allora vado, ripete. E poi ecco che se n’è andato.
Con il thermos di caffè e il pranzo al sacco e le chiavi per svegliare la Trabant.
Mi alzo, svuoto la ciotola di porridge nell’acquaio, vado a prendere due biscotti secchi della Frón, mi arrampico sul piano della cucina e da lì lo guardo spalare la neve dall’auto. Ci mette un po’, perché durante la notte ha nevicato in abbondanza con un vento forte che ha accumulato la neve e papà ha il suo bel daffare a liberarla. Per due volte rimane bloccato senza riuscire a uscire dal parcheggio e immettersi in strada, dove la neve alzata dal vento inghiotte sia lui che l’auto. Io resto seduto sul piano della cucina e guardo i bambini sfilare uno dopo l’altro dal condominio, le cartelle sulla schiena, affrontare il vento e la neve per andare a scuola. Io non so cosa farmene, di quella scuola. Lì si impara solo a sommare 12 più 13, a snocciolare i nomi delle capitali dei paesi nordici e a fabbricare cavalli al corso di falegnameria. Io non ho tempo per cose del genere, ho già abbastanza da fare a leggere la Bibbia e a scoprire com’è cominciato tutto, dove se n’è andato il Dio della bontà, come si può fare per scansare la morte e raggiungere le persone che contano di più. È evidente quindi che non ho niente a che fare con il cavallo o la sega, che per me le cifre si possono sommare o sottrarre a piacimento, le città possono anche cambiare nome oppure essere abbandonate. La preside a scuola ha telefonato due volte a papà e l’ha perfino convocato, ma non è un mio problema.
Devo riconoscerlo, però: il testo della Bibbia può essere parecchio pesante, serio, noioso e confuso. Quindi mi prendo spesso delle pause e leggo 1 oppure , controllo i vestiti della mamma che sono ancora nell’armadio, mi pettino con la sua spazzola oppure metto su i due dischi che ha lasciato accanto al giradischi, come un messaggio per me. Uno è la di un certo Schubert, che comincia in un modo che si direbbe capace di vincere la morte, l’altro è dei Beatles, e lo conosco molto meglio. La mamma mi suonava con la chitarra una delle canzoni di quel disco, , mi faceva cantare con lei e poi diceva che dovevamo formare un gruppo, noi due insieme. Quindi questa canzone mi piace particolarmente e la canticchio tra me quella glaciale mattina d’inverno, quando interrompo la lettura della Bibbia per scendere e salire le scale di corsa. È soprattutto l’inizio che ti prende proprio, e i primi versi, che in effetti sono gli unici che so cantare davvero.
Tu mi ami e lo so che se devo andare rimarrò per sempre con te, e questo mi consola.
Sono talmente concentrato sulla canzone, sulla sua melodia tragica e orecchiabile, che non mi accorgo che la vecchia Sesselja è uscita sulle scale ed è scesa fino all’ammezzato per osservare il brutto tempo e la penombra del mattino dalla grande vetrata del pianerottolo. Sta lì immobile a fumare quando arrivo a gran velocità, canticchiando la mia canzone – e le sbatto contro. O meglio, ci finisco dentro, perché è come infilarsi in un covone di fieno compatto, caldo e profumato; ci sprofondo dentro. Nel colore bruno, nel tempo passato, nel denso, caldo, insistente odore del tabacco.
Accipicchia quanta fretta che hai, bambino mio, fa lei, mi prende forte per le spalle e mi tiene fermo. Io ho solo sette anni e lei è talmente contratta dalla vecchiaia che siamo quasi alti uguali. Però è molto energica, perché la sua mano esile, segnata dalle vene e dalle macchioline, mi tiene fermo con una forza sovrumana, sento le dita che mi penetrano nella spalla. Ha una sigaretta tra l’indice e il medio dell’altra mano, fa un tiro senza mollare la presa e socchiude gli occhi dal taglio obliquo per ripararli dal fumo. Occhi che un tempo erano stati azzurri e adesso sono velati da una foschia chiara che smorza il colore e li rende più impenetrabili, più tristi. C’è qualcosa in loro che mi ricorda la brughiera e l’autunno che spirava dentro la tenda con me e la mamma, poco più di sei mesi prima.
Anche se la mamma era ormai gravemente ammalata e in certi giorni non riusciva nemmeno a muoversi in casa senza un aiuto, si era messa in testa di passare una notte in tenda sulla brughiera. Non so come fosse riuscita a convincere papà, comunque siamo partiti in macchina e abbiamo lasciato la città. Io mi sono addormentato sul sedile dietro, e mi sono svegliato mentre papà parcheggiava la Trabant sul ciglio della strada. Siamo scesi dall’auto e l’aria era limpida, riecheggiava di canti di uccelli, profumava di torba, sembrava quasi che la mamma non fosse più ammalata. Rideva, mi scompigliava i capelli, ballava con me mentre papà scaricava dall’auto la tenda, i sacchi a pelo e tutto il resto. Poi siamo saliti a piedi sulla brughiera. Papà ha dovuto portare tutto ed era talmente carico che si distingueva appena sotto quell’ammasso di cose.
Quando mi sono svegliato il mattino dopo la brughiera era in gran parte scomparsa sotto la bruma e io e la mamma eravamo soli in tenda. Lei leggeva un libro, mi passava le mani tra i capelli, il varco della tenda aperto, l’erba profumata, i poggi silenziosi, e la strolaga maggiore cantava lontano nella nebbia, sul lago dove papà era andato a pescare. È il suo canto per l’autunno, ha detto la mamma quando si è accorta che ero sveglio. Compone la sua elegia per l’autunno che fa sempre ritorno. E c’era soltanto l’odore dell’erba, i poggi silenziosi, la bruma, la strolaga e le mani di mia madre nei capelli. Le sue mani vive. Ho chiuso gli occhi e ho sperato che quel momento non finisse mai, che quella fosse l’eternità: io e la mamma in tenda, le sue mani tra i miei capelli, e la strolaga che filava la nebbia con la sua malinconia.
Ma quando apro gli occhi li ritrovo piantati in quelli della vecchia Sesselja del terzo piano. E visto che i suoi occhi mi ricordano quella bruma autunnale, la landa, la tenda e la strolaga, le dico: I tuoi occhi assomigliano a una brughiera nebbiosa.
Allora lei si mette a ridere, una risata breve, incredibilmente rauca e cupa, come se avesse un corvo in petto, mi lascia la spalla, sospira, Ah, povero bambino senza più la mamma – e poi mi porta a casa sua.
Dovresti essere a scuola, sai, dice una volta entrati nell’appartamento, che è più luminoso di quanto immaginavo. Una stretta panca per il telefono in corridoio, alle pareti dei quadri che raffigurano le montagne, il mare e la campagna. Passiamo oltre la panca e mi guida in cucina ma si ferma sulla porta, come se esitasse a entrare per non disturbare suo marito che è seduto al tavolo, l’aria severa, il volto segnato. Porta una camicia a quadri blu e le bretelle, le mani appoggiate sul tavolo ai lati di una tazza di caffè, talmente immobili che sembrano morte. Con gli occhi socchiusi ascolta la radio succhiando una zolletta di zucchero. Ascolta una canzone malinconica che riconosco subito, è quella che cantava la strolaga sulla brughiera, dal profondo delle nebbie, e la mamma si era unita al canto. Ripenso a un tempo che più non è,
lo tengo nascosto nel cuor
un dolce ricordo, lieve e silente
torna a trovarmi ogni notte e ogni dì
perché mai, mai lo possa scordar
perché mai, mai lo possa scordar
Con le mani posate sulle mie spalle, la vecchia signora si...