Strangio | All'ombra del dragone | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 512 Seiten

Reihe: Asia

Strangio All'ombra del dragone

Il Sudest asiatico nel secolo cinese
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-6783-376-4
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Il Sudest asiatico nel secolo cinese

E-Book, Italienisch, 512 Seiten

Reihe: Asia

ISBN: 978-88-6783-376-4
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



L'influenza della Cina si allunga inarrestabile come un'ombra sul Sudest asiatico, dove la vicinanza geografica con Pechino è allo stesso tempo una benedizione e una maledizione. All'ombra del dragone tratteggia la storia del rapporto tra le nazioni della regione e la Cina e delinea l'attuale situazione geopolitica, analizzando ogni ambito della relazione: economico, politico, militare e culturale. Mentre la Cina cerca di ripristinare l'antico status di potenza dominante dell'Asia, i Paesi del Sudest asiatico devono affrontare una scelta sempre più complessa: prosperare all'interno della sua orbita o languire al di fuori di essa. Intanto mentre le potenze rivali, inclusi gli Stati Uniti, intraprendono azioni concertate per frenare le ambizioni cinesi, la regione è emersa come un'area cruciale di competizione strategica. Basandosi su più di un decennio di esperienza sul campo, Sebastian Strangio esplora gli impatti dell'ascesa della Cina sul Sudest asiatico, come i Paesi della regione stanno rispondendo e il peso di questo scenario per i futuri equilibri di potere a livello globale.

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LO SNODO DELL’INDO-PACIFICO


Dalla tribuna, il presidente Xi Jinping osservava le forze armate cinesi sfilare lungo il Viale della pace eterna: prima migliaia di militari in marcia a ranghi serrati, poi una schiera di panzer, droni e artiglieria pesante, inclusi – per la prima volta sulla scena mondiale – i temibili missili balistici nucleari DF-41, trasportati su lunghi carri a sedici ruote. Seguivano infine le esibizioni volte a celebrare i successi del Partito comunista cinese (PCC) di Xi. Un gruppo di giovani entusiasti agitava le torce di plastica davanti a un gigantesco ritratto di Mao Zedong. I carri rappresentavano le «Quattro modernizzazioni» di Deng Xiaoping e le «Tre rappresentanze» di Jiang Zemin, le Olimpiadi di Pechino 2008 e i risultati cinesi nella ferrovia ad alta velocità.

Era il primo ottobre 2019 e l’occasione era il settantesimo anniversario della Repubblica popolare cinese (RPC). Prima della parata, il presidente Xi aveva tenuto un breve discorso, in piedi sopra l’immenso ritratto di Mao esposto a Tiananmen, «la Porta della pace celeste». Xi indossava una giacca maoista nera del tutto simile a quella che portava settant’anni prima il Grande timoniere, quando dallo stesso luogo aveva annunciato la fondazione della RPC. «Non c’è forza che possa scuotere le fondamenta di questa grande nazione» ha detto Xi alla folla accalcata in piazza Tiananmen. «Nessuna forza può fermare l’avanzata del popolo e della nazione cinese.»1

La parata, con la sua minuziosa coreografia, le macchine da guerra e le fanfare, metteva persuasivamente in scena tutto il potere e le crescenti ambizioni del Paese più popoloso del mondo. Poco dopo essere salito al governo, il 15 novembre 2012, Xi Jinping aveva giurato di riportare la Cina alla gloria e alla centralità del passato, parlando di un «sogno cinese» e di un «grande rinnovamento della nazione». Man mano che consolidava il potere in patria e rafforzava la centralità del PCC nella vita politica ed economica del Paese, il presidente si faceva più risoluto nei rapporti con l’estero. Scrollatosi di dosso la prudenza e l’umiltà dei suoi predecessori, aveva apertamente annunciato la trasformazione della Cina in grande potenza e nell’ottobre 2017, al XIX Congresso nazionale del Partito, aveva proclamato una «nuova epoca» in cui il Paese avrebbe occupato il centro della scena mondiale, apportando «un maggior contributo all’umanità»2.

A grandi linee, l’obiettivo di Xi è lo stesso dei patrioti e dei politici delle generazioni passate, da Mao al leader dei nazionalisti Chiang Kai-shek: la restaurazione della «ricchezza e del potere» (fuqiang) della nazione cinese dopo un lungo periodo di disgregazione e debolezza3. Questo progetto di rinnovamento nazionale muove dalla profonda convinzione di essere «vittime» di ciò che il PCC chiama il «secolo dell’umiliazione», ossia un cupo periodo di sottomissione alle potenze occidentali, inaugurato con la sconfitta nella Prima guerra dell’oppio del 1839-1842 e terminato nel 1949 con la fondazione della RPC e il proclama di Mao: «La nostra nazione non sarà mai più disprezzata da nessuno, ci siamo già alzati in piedi»4.

Se l’obiettivo non è nuovo, i mezzi, al contrario, risultano per molti versi inediti. Per la prima volta in cinquecento anni, la Cina si è rivolta al mare, rivendicando, sulla base di dubbie pretese storiche, la sovranità sulla maggior parte del mar Cinese meridionale e costruendo rapidamente una possente flotta «d’alto mare», capace di estendere il potere cinese al largo delle sue coste. In contemporanea, sta spingendo per riformare le principali istituzioni internazionali affinché riflettano i suoi interessi e standard normativi. Ha inoltre fondato una schiera di nuovi istituti finanziari a integrazione di quelli dominati dagli Stati Uniti, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Nel 2015, ha lanciato la Banca asiatica di investimento per le infrastrutture (AIIB), con sede a Pechino, che ha l’obiettivo di sostenere lo sviluppo in tutta la regione. L’AIIB al momento conta settantasei membri, fra i quali la maggior parte dei Paesi asiatici.

La più ambiziosa delle iniziative cinesi è di gran lunga la Nuova via della seta (BRI), annunciata nel 2013. Paragonata da alcuni a un nuovo piano Marshall, prevede l’investimento di decine di miliardi di dollari nella costruzione di una rete internazionale di strade, linee ferroviarie, gasdotti e oleodotti, porti, impianti di fibra ottica e zone industriali, che andrà da Vladivostok all’oceano Atlantico. Con una direttrice terrestre e una marittima – rispettivamente, la Zona economica della via della seta e la Via della seta marittima del XXI secolo – il progetto mira a trasformare l’Eurasia continentale in un’unica zona geoeconomica, con la Cina al suo centro. Per sostenerne i cantieri infrastrutturali, negli ultimi mesi del 2014 la Cina ha annunciato la costituzione del Fondo per la via della seta, al quale ha destinato 40 miliardi di dollari. Da allora, la Nuova via della seta è diventata la prima voce, nonché il modello organizzativo, delle numerosissime iniziative cinesi nel mondo.

Gli osservatori occidentali spesso interpretano erroneamente queste operazioni come tentativi di rovesciare e sostituire l’attuale ordine di sicurezza globale sostenuto dagli Stati Uniti e in vigore sin dalla fine della Seconda guerra mondiale. In realtà, la posizione cinese è molto più ambigua. Essendo fra i Paesi che hanno tratto più vantaggi dall’egemonia statunitense, la Cina ha ben poco interesse nel distruggere le strutture che hanno contribuito alla sua crescita economica; il suo obiettivo, semmai, è quello – comune a qualsiasi potenza – di riformare la guida delle istituzioni internazionali affinché le riconoscano la dovuta centralità, creando al tempo stesso organi e meccanismi nuovi laddove ne avverte il bisogno. Evan Feigenbaum5 vede in questa strategia una «diversificazione del portfolio» anziché una sostituzione su larga scala di istituzioni e sistemi: «In gran parte dei casi Pechino cerca il cambiamento strutturale chiedendo modifiche alla cornice esistente».

Se il piano non è rimpiazzare gli Stati Uniti come potenza egemone a livello mondiale, è però vero che la Cina vuole rivendicare almeno in parte la posizione di leadership di cui godeva in Asia orientale prima della sottomissione agli imperi occidentali e al Giappone tra Otto e Novecento. Nel maggio 2014, Xi ha dichiarato che era tempo che fossero «gli asiatici a gestire gli affari, risolvere i problemi e difendere la sicurezza dell’Asia», lasciando forse trapelare la volontà di espellere le forze militari statunitensi dalla regione. Anche se non tutti sono convinti che si trattasse di una vera dichiarazione d’intenti6, alcune azioni recenti mostrano senza possibilità di equivoci che Xi è determinato a cancellare le umiliazioni passate, a guadagnarsi il rispetto della comunità globale e a riportare la Cina alla posizione «naturale» di un tempo: quella che la vede al centro dell’ordine asiatico.

Nel progetto di «rinnovamento» nazionale, il Sudest asiatico è uno snodo centrale; soprattutto perché il contesto strategico in cui si muove la Cina è piuttosto complicato. Vista con gli occhi di Pechino, l’Asia è una terra a dir poco claustrofobica: su tre lati, la Cina confina con quattordici nazioni, tra cui due rivali, l’India e la Russia, oltretutto dotate di armamenti nucleari. La costa orientale affaccia su una barriera di isole – dalla penisola russa della Kamcatka, a nord, all’isola del Borneo, a sud – che le impedisce l’accesso alle rotte oceaniche. A formare parte di questa barriera sono tre Paesi che beneficiano di trattati con gli Stati Uniti – il Giappone, la Corea del Sud e le Filippine –, nonché Taiwan, che vanta strettissimi legami con Washington. Come ha lamentato Meng Xiangqing, dell’università della Difesa nazionale cinese, si tratta di confini a dir poco soffocanti per un’aspirante potenza. «Sul continente confiniamo con grandi nazioni, mentre per mare siamo circondati da una catena di isole»; in altre parole, «non abbiamo mai potuto trarre vantaggi dal fatto di avere a disposizione sia la terra che il mare.»7

Considerati gli ostacoli all’espansione che si presentano sui lati nord, est e ovest, i piccoli Stati collocati a sud della Cina finiscono per assumere particolare rilievo. Il Sudest asiatico, che si estende su una longitudine di cinquanta gradi baciati dal sole, dall’oceano Pacifico a quello Indiano, è al tempo stesso il cortile di casa della Cina e il suo principale punto debole. Col crescere della propria economia, la RPC ha sviluppato una forte dipendenza dalle trafficate rotte marittime della regione, soprattutto dal congestionato stretto di Malacca, l’imbuto che separa la penisola malese e la costa orientale di Sumatra, in Indonesia. Ogni anno vi transitano quasi 90.000 portacontainer, oltre la metà del tonnellaggio mercantile mondiale, a cui è affidato circa un quarto delle merci e un terzo del petrolio (greggio e raffinato) che si muovono per il globo. Malacca è così il secondo principale punto critico per il traffico di petrolio,...



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