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Turèll | Assassinio di lunedì | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 208 Seiten

Turèll Assassinio di lunedì


1. Auflage 2010
ISBN: 978-88-7091-276-0
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 208 Seiten

ISBN: 978-88-7091-276-0
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



In una notte fredda e ventosa, un lunedì maledetto di gennaio, un giornalista senza nome porta a passeggio i suoi pensieri cupi per le strade di Copenaghen, quando un grido gli gela il sangue nelle vene. Accorre, ma troppo tardi: una donna è stata strangolata. Il commissario Ehlers si precipita, ma non si trovano indizi: la vittima è una ragazza come tante, senza storia e senza passato. Il giornalista dà una mano all'amico commissario nelle indagini, ma ogni pista sembra un vicolo cieco. Il lunedì successivo l'assassino colpisce ancora, e proprio sotto il loro naso. Non rimane che tentare di tendergli una trappola... Un racconto nerissimo e amaro ma pieno di humour e di umanità che riecheggia come un blues tra i cortili dei quartieri malfamati e le luci dei caffè del centro, tra squatter e piccoli trafficanti, prostitute, alcolizzati e poveri diavoli, in una vivace, disillusa e ironica presa diretta dalla realtà urbana.

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1


Era una sera maledetta. Una di quelle sere in cui l’istinto ti dice che accadranno le cose più orribili e ingiuste. Naturalmente sai benissimo che cose del genere accadono di continuo e in tutto il mondo (nonché, si capisce, in altri pianeti eventualmente abitati). Certi giorni però (proprio come certe persone che incontri) li riconosci subito dall’atmosfera, dall’intonazione: sembrano condannati in partenza, come se non avessero mai avuto uno straccio di possibilità e corressero irrimediabilmente verso un abisso.

Era una notte fredda, ventosa e fradicia di pioggia. Un lunedì d’inizio gennaio. Per le strade di Copenaghen la gente si nascondeva dietro gli ombrelli o camminava piegata in due, facendosi strada attraverso la pioggia con la testa in avanti, come tanti tori infuriati. Quasi tutti sembravano presi dalla dichiarazione dei redditi o dall’affitto del mese. Le strade grondavano acqua per il terzo giorno di fila.

Era una sera in cui qualunque individuo con un filo di buon senso si sarebbe stravaccato nella migliore poltrona disponibile a leggere il miglior libro possibile, con il drink preferito a portata di mano.

Perciò nulla di strano che quella sera, proprio quella sera, fossi tra quei venticinque-trenta stravaganti paranoici che vagavano per le vie della città.

Camminavo e pensavo. Gli argomenti di riflessione non mi mancavano. Di che riempire tre colonne nella rubrica della posta del cuore, se non di più.

Avevo messo incinta una ragazza. Storia vecchia, e non crediate che ne andassi particolarmente fiero: qualunque fattorino avrebbe potuto fare lo stesso, se non meglio. Solo che era opera mia e di conseguenza un mio problema.

Benché certo, considerate le leggi di natura, più un problema che mio.

E lei, Gitte Bristol, l’avvocato dalla nera chioma fulgente con cui mi «accompagnavo» da sei mesi, ossia da quando ci eravamo incontrati su un aereo per Rodby, (senza che il nostro rapporto fosse molto progredito in tutto quel tempo), era piena di dubbi. Non era sicura che le piacesse l’idea di avere un figlio da me. Non era sicura che le piacesse l’idea di un figlio in generale. A dirla tutta, non era neppure sicurissima che le piacessi io.

I pronostici erano tra i più difficili.

Così alternava stati di depressione, in cui sembrava un po’ persa nel vuoto, ad altri di rabbia e furore, spesso contro il mondo intero, talvolta specialmente contro di me, in quanto ne ero parte molto invadente. Non la più invadente in assoluto, si capisce, ma certo più facile da aggredire dell’essere sconosciuto che se ne stava rannicchiato nel suo ventre, in attesa.

Cambiava idea a intervalli di qualche giorno, come influenzata da un imprevedibile ciclo ormonale. Ora voleva il «suo» bambino, ora pensava di provare ad avere il «nostro» bambino, ora decideva di abortire.

La furia e l’isteria delle donne, come dicono gli americani, sono .

Al lavoro però era sempre la stessa: determinata, efficiente, precisa. Con quelle vette disumane di deontologia professionale che solo le donne molto consapevoli riescono a sostenere.

Quella sera, naturalmente, aveva dato di matto. Date le circostanze non mi sentivo di biasimarla. E avendo lei manifestato il desiderio di «rimanere un po’ sola», un modo di dire che le ragazze della sua educazione adoperano con la massima naturalezza, io mi ero ritrovato fuori, sotto la pioggia, e avevo preso in maniera più o meno inconsapevole la via di casa: quella casa che mantenevo tuttora, pur vivendo per metà del mio tempo – o almeno pernottando spesso – da lei. Vagavo, dunque, e intanto pensavo, se non è una parola troppo grossa.

Pensai alla prima volta che l’avevo vista, nel ristorante del mio amico cinese Ho Ling Fung. Mangiava da sola, e mi fece un effetto travolgente, mai provato. Pensai alla prima volta che le avevo parlato, all’aeroporto di Rodby, grazie alla riprovevole mancanza di carrelli di quell’aeroporto di provincia. Pensai – tremando leggermente per la pioggia e al ricordo – alla notte all’Hotel Rodby in cui mi aveva «aperto la porta».

Pensai alla sua vita, alle scuole francesi, alla famiglia di giuristi in cui era cresciuta. Il padre, giudice pomposo, e quel passerotto succube della madre, eternamente indaffarata tra le tazze da caffè in un salotto immerso nel fumo di sigaretta. Pensai al suo primo matrimonio fallito accorgendomi che, se ci pensavo come al primo, mi stavo evidentemente già candidando per il secondo.

Infatti io l’amavo. Più di quanto avessi amato nessun altro.

Contrariamente a quanto affermano i mediocri oratori della domenica, l’amore non rende affatto ciechi. È vero l’esatto opposto: l’amore apre gli occhi. Chi ama vede cose che sfuggono a tutti gli altri, e si comporta spesso in maniera più logica e coerente di chi agisce a sangue freddo.

Di conseguenza io vedevo benissimo il fatto lampante di non essere il partito ideale per lei. Se è vero, come dice il proverbio, che «chi si somiglia si piglia» noi non avremmo dovuto neppure sognare di metterci a giocare ad .

Invece è proprio quel che avevamo fatto, ed ecco i risultati.

La materia di riflessione, insomma, non mancava e i pensieri seguivano il loro metodico, abituale, assurdo e sperimentato corso a volo d’uccello, mentre io misuravo le strade sotto la pioggia fitta e regolare che a poco a poco lavava la sporcizia da tutte le case e i muri di città, lasciandoli puri e immacolati, ma ricoperti da una rugiada di fiaba, nel fondo della notte.

A un tratto, come svegliandomi da un sogno, scoprii che le mie gambe servizievoli mi avevano portato su strade cittadine ben note. Giù per Istegade, oltre la Stazione centrale, lungo lo Strøget e girando a sinistra per Købmagergade fino a Nørreport, e da lì a Nørrebrogade: una rotta che quelle gambe avevano percorso migliaia di volte, a piedi o in macchina, negli ultimi vent’anni. Non sorprende che l’avessero imparata a memoria, come un cavallo ricorda una strada.

Ma ormai accadeva di rado che si allontanassero dal centro.

Quella sera erano arrivate fino alla Rotonda di Nørrebro, dove Jagtvej e Nørrebrogade s’intersecano tra loro insieme ad altre strade che portano a nord, a sud, a est e a ovest. O meglio: in centro, a Bispebjerg, a Lyngby e a Frederiksberg.

Era un quartiere che conoscevo bene, o meglio lo avevo conosciuto un tempo. Buona parte della mia famiglia riposava dietro le mura grigie del cimitero locale, l’Assistens Kirkegård, insieme a Hans Christian Andersen e a Søren Kierkegaard, dopo aver vissuto per generazioni nei grandi casamenti popolari di Nørrebro.

Arrivato alla Rotonda mi fermai un momento ad annusare l’atmosfera. Per un attimo mi sentii uno straniero in terra sconosciuta ma poi, per sprazzi successivi, i ricordi tornarono alla mente. Alla mia destra c’era sempre la Zigeuner Halle, la vecchia sala da ballo popolare con la musica tirolese e le serate di , in cui erano le donne a invitare gli uomini, la birra alla spina in boccali da un litro, i cori e i balli sulle panche. A sinistra, dall’altro lato di Jagtvej, c’era ancora il Colosseum, cinema dei giovani quando ero giovane io. La sola vista dell’insegna mi riportò al passato, ai tempi di Elvis Presley, di James Dean, di motociclette e giubbotti di pelle ormai fuori moda.

E proprio in mezzo, ora come allora, il Central café, con le sue sedie di velluto liso e le abat-jour da bordello, malandate e giallastre dietro le vecchie lettere dorate dell’insegna.

Niente era cambiato, anche il cimitero e la sua inconsolabile malinconia fatta muro erano sempre gli stessi.

Era uno di quei posti che la gente di altri quartieri – quello da cui proveniva Gitte Bristol, per dire – avrebbe definito “difficile”. Riguardo alle difficoltà non sarei tanto sicuro: ogni posto ha le sue, ma di certo si tratta di una zona povera e nessuno di quelli che ci sono nati può ignorarlo. È un posto che trae la sua identità da migliaia di appartamenti identici, arredati in modo identico, perché c’è un limite alle possibili variazioni se tutti gli abitanti ci devono mangiare, dormire e andare di corpo. È un posto in cui è raro che i giovani ottengano fondi o borse di studio per la cosiddetta «istruzione superiore». Da queste parti può essere già un’impresa sopravvivere fino all’età della scuola pubblica e imparare quanto basta per riuscire, più tardi, a compilare il modulo per il sussidio sociale o la schedina del totocalcio senza bisogno di aiuto.

Ma è anche un posto pieno di piante ben curate sui davanzali, con il suono della fisarmonica, il buon profumo di cucina che sale dai cortili e i marciapiedi che letteralmente traboccano di ortaggi (cosa che i copenaghesi adorano quando la incontrano nei paesi esotici dell’Europa del sud); un posto dove molte...



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