E-Book, Italienisch, 220 Seiten
Turèll Assassinio di marzo
1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7091-434-4
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 220 Seiten
ISBN: 978-88-7091-434-4
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Marzo a Copenaghen, un giornalista senza nome, flâneur dei bassifondi e detective per il vizio di trovarsi sempre nel posto sbagliato, sta per recuperare un po' di fiducia nell'umanità quando si imbatte in un ricco collezionista d'arte con un coltello piantato nella schiena. Nessun indizio nel suo lussuoso appartamento, a parte due quadri spariti, un Pollock e un Léger, ma la polizia scopre ben presto i sentimenti più che paterni che legavano il mecenate a un giovane pittore, suo ultimo protetto. Quando il ragazzo sparisce senza riscuotere la sua immensa eredità e i cadaveri cominciano ad aumentare, tutte le tracce portano dai quartieri alti ai vecchi vicoli a luci rosse della città, dietro le porte sempre chiuse di un misterioso night club. Poeta metropolitano e virtuoso della penna, fonte inesauribile di immagini folgoranti che brillano di uno humour geniale e amaro, Dan Turèll è entrato nei classici del giallo nordico come il Chandler danese. Amico di sbirri e prostitute, con lo sguardo smaliziato di chi ha visto quelli che si sporcano le mani e quelli che muovono i fili dall'alto, il suo giornalista senza nome ci trasporta in una Copenaghen hard boiled anni Settanta, tra inquieti teppisti, trafficanti di droga e avventurieri della notte, nella fumosa penombra di un vecchio film noir, al ritmo incalzante di una calda suite jazz.
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1
Era un giorno di marzo, come risultava dal cosiddetto calendario gregoriano, ma era anche molto di più. Era un bel giorno, proprio come piacciono a me. Nella solita vitaccia da cani un giorno del genere è abbastanza raro perché valga la pena farci caso.
Il cielo era sereno e come immobile, né caldo né freddo, né secco né umido, come se si fosse preso un giorno di vacanza e avesse lasciato l’officina, dopo aver chiuso tutti i suoi attrezzi e materiali di scena negli armadi sigillati con serrature di sicurezza. Era uno di quei giorni in cui sembrava di poter vedere da un capo all’altro della città, o da un capo all’altro della propria vita, secondo la direzione in cui si puntava il cannocchiale.
Forse era solo il tempo pallido e fresco di marzo, o forse era la notte appena trascorsa che mi era rimasta incollata addosso: una notte felice insieme a Gitte, un prodigio di notte, di quelle che ti convincono che se tutti avessero un’appagante vita sessuale e la coltivassero con generosa regolarità, gran parte della violenza e dei peccati capitali scomparirebbe dalla faccia della terra. Una di quelle notti che somigliano a una resurrezione divina, cui ci si aggrappa come un neonato al suo sonaglio, o un drogato alla sua siringa: riconoscenti, ma anche un po’ sorpresi che qualcuno ti ritenga degno di risorgere.
Inoltre – all’ultimo momento, al quarto mese – Gitte aveva finalmente stabilito di volere il nostro bambino. Dopo mesi d’incertezza – tre per la precisione – e di alti e bassi, aveva infine preso la sua decisione. Questo è un punto sul quale, se ci si mette troppo a scegliere, altri lo fanno per te. Si supera il limite entro cui l’aborto è legale. Forse era stato solo quello. Naturalmente poteva ancora dare il bambino in adozione subito dopo la nascita. Il sistema prevede sempre qualche via d’uscita.
Io però mi sentivo rincuorato. Se ci fossero state altre notti come quella, lei non l’avrebbe fatto. Se ci fossero state altre notti come quella, poteva perfino darsi che lo adottassi io. Come una specie di souvenir.
Ridacchiai tra me all’idea – con Gitte e i ricordi di quella notte ancora in corpo, o meglio attorno al corpo, come una specie di bozzolo, una corazza calda e protettiva – mentre attraversavo Vesterbrogade diretto alla Stazione Centrale.
Era mezzogiorno. Le campane del municipio avevano appena finito di suonare le dodici con il solito rintocco sordo, come un tamburino che conclude vigorosamente il suo assolo per sottolineare: questo è quanto, non aspettatevi altro. Anche il traffico sembrava pensare che era una bella giornata. Non un conducente d’autobus che minacciasse un automobilista con il pugno chiuso, né un colpo di clacson rabbioso, quando attraversai Vesterbrogade. Ogni abitante di Copenaghen sa quanto sia raro.
Ero passato al Bladet per «sentire se c’era qualcosa in ballo». Noi free-lance siamo costretti a «sentire se c’è qualcosa in ballo», almeno una volta ogni tanto. In particolare quelli di noi che si preparano, in un modo o nell’altro, a diventare padri.
«Padri!» La sola parola mi evocava una barba folta, un brutto complesso, e una pipa lunga un metro: insomma, una via di mezzo tra Freud e Thorvald Stauning.*
Qualcosa in ballo c’era, più o meno. Michelsen, il segretario di redazione, mi consegnò una lettera anonima che era arrivata quella mattina.
Non che fosse una novità. Da quando il giornale, qualche mese prima, aveva tappezzato tutti gli autobus, le stazioni ferroviarie e le colonne pubblicitarie del paese con l’originale slogan «Ditelo al Bladet!» («Avete una critica da fare, un’esperienza da raccontare, una gioia da condividere? Ditelo al Bladet!») eravamo stati sommersi – giusta punizione – da lettere anonime e telefonate apocrife, quasi tutte prive di interesse per qualunque essere vivente dal quoziente intellettivo superiore a quindici. Noi – o meglio loro, gli impiegati fissi che non potevano fuggire urlando dagli uffici – avevamo dovuto parlare con una variegata scelta di pazzoidi e piantagrane tra i più energici e tenaci della nazione. Quei solerti colleghi avevano prestato orecchie e occhi a storie di malattie, pettegolezzi di vicinato, liti per confini, proteste sui ritardi postali e sulle irregolarità dei treni, solfe sulle tasse, lamentele sui giovani trasandati e impertinenti. Col tempo si erano fatti l’impressione che i danesi fossero un popolo che perdeva la calma per una banana un po’ passata nella borsa della spesa. Più di una volta avevano discretamente ricordato al direttore di essere stati assunti un tempo come giornalisti, e non psichiatri o infermieri.
«Rafforza il rapporto con i lettori!» rispondeva regolarmente Otzen con il tono dell’oracolo. E agli altri non restava che opporre seri dubbi sul fatto che chi si rivolgeva al giornale con quegli argomenti sapesse leggere o avrebbe mai imparato a farlo.
Comunque: il mittente della lettera anonima che avevo in tasca sapeva leggere, probabilmente, visto che era in grado di scrivere. I due requisiti si accompagnano spesso.
Non conteneva peraltro alcuna traccia di rissosità. Era breve, concreta, sintetica, senza chiacchiere né sciocchezze inutili. Una lettera che andava dritta al punto. Conteneva solo, scritte in stampatello con una penna blu su un semplice foglio A5, strappato alla meglio da un blocco reperibile in qualunque chiosco, quattro paroline:
Dov’è Eric Liljencrone?
«Controlla un po’ questa», aveva detto Michelsen tutto indaffarato. Ed era sparito prima che potessi tirarla fuori dalla busta già aperta. Il trucco più vecchio della stampa danese per rifilarti una schifezza di lavoro che nessuno vuole.
Ma io non avevo niente da fare, non prima di sera, quando Gitte sarebbe tornata dal suo studio d’avvocato. Nel frattempo potevo pensare a Eric Liljencrone come a dar da mangiare ai piccioni in Rådhuspladsen. E comunque mi piaceva il nome. Se ci fosse stato scritto Peter Larsen o Poul Jensen, quel foglietto sarebbe finito dritto nel cestino.
Nell’elenco telefonico di Copenaghen c’erano solo tre Liljencrone. E un solo Eric. A parte lui, il mercato dei Liljencrone offriva un’Astrid e un’Irene. Nomi fuori moda. Che sapevano un po’ di lavanda, di sali da annusare e di fazzoletti ricamati a mano nei cassetti del comò. E abitavano tutti a Frederiksberg.
Seguendo il mio cosiddetto fiuto giornalistico, e con insolito spirito d’iniziativa, estesi la ricerca al Who’s who. Eric Liljencrone si era assicurato una robusta quantità di righe.
Era laureato in legge, dirigente, figlio di Thomas P. Liljencrone e di sua moglie Astrid, nata Rützfeldt. Nato nel 1920, perciò al momento sessantenne. Aveva collezionato una lunga serie d’incarichi presso il ministero degli Esteri, fatto parte di vari consigli e comitati e ottenuto onorificenze come il Nastro di Cavaliere di prima classe dell’Ordine norvegese di Sant’Olav e la Gran Croce dell’Ordine al merito civile spagnolo, che di certo facevano bella figura sul risvolto della giacca. Si era dimesso da un mandato diplomatico a Parigi alla morte del padre. Ora era direttore della Liljencrone Invest. Con sede in Bredgade. Scapolo, visto che non erano menzionate mogli, e domiciliato in Drachmannsvej 5, a Frederiksberg.
Gli telefonai. Nessuno se ne curò.
Poi trovai il numero della Liljencrone Invest, con sede in Bredgade. Nemmeno lì si presero il disturbo di tirare su la cornetta. Se fossi stato un affidabile investitore, gli sarebbe costato milioni.
Ma d’altra parte, se fossi stato un affidabile investitore, non avrei sprecato il mio tempo in telefonate a un anziano sconosciuto solo perché un segretario di redazione sotto stress mi aveva ficcato una lettera anonima in mano.
Mentre percorrevo da un capo all’altro la Stazione Centrale, immerso nei miei pensieri (pagati dal Bladet), qualcuno mi urtò. Qualcuno che – come presto si scoprì – era un vecchio signore, ma non Eric Liljencrone. Chiedeva un contributo per un biglietto per Roskilde.
Riconobbi subito il ceffo. Raccoglieva soldi per il suo biglietto per Roskilde da quando abitavo nel quartiere. Gli domandai se non potesse andare prima o poi da qualche altra parte, tanto per cambiare un po’. Il mondo offriva ben altre sfide che Roskilde. Avevo sentito dire che anche Ringsted era molto bella, gli raccontai.
Lui mi confidò con aria molto professionale che un biglietto per Roskilde era la proposta d’investimento più opportuna, perché il prezzo corrispondeva esattamente alla cifra che gli davano il più delle volte, quando racimolava qualcosa. Ringsted sarebbe sembrata un’esagerazione, gli pareva. La gente si sarebbe insospettita.
Per qualche strano motivo mi sembrò che il ragionamento filasse, perciò gli mollai dieci corone esentasse e lui disse che ero un brav’uomo. Era un pezzo che qualcuno non me lo diceva così a buon mercato. Era proprio un giorno magnifico.
Istegade sapeva quasi di primavera. L’improvvisa mancanza del miscuglio di neve e pioggia che aveva tempestato la città negli ultimi mesi aveva spinto tutti gli animali fuori dalle loro tane, svegliandoli dal letargo. Lungo i marciapiedi, gli ubriaconi a tempo pieno sedevano sui gradini delle case con la terza o quarta birra stretta tra le ginocchia, e le puttane avevano iniziato la parata di guardia...