E-Book, Italienisch, 320 Seiten
Reihe: Amazzoni
Viktorie La cercatrice di funghi
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-6243-498-0
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 320 Seiten
Reihe: Amazzoni
ISBN: 978-88-6243-498-0
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
(Praga, 1980) Considerata l'astro nascente della letteratura ceca, è scrittrice, traduttrice e docente di lingue. Ha esordito nel 2015 con il romanzo Ane?ka, accolto positivamente da critica e lettori. I suoi libri sono tradotti in spagnolo, catalano, tedesco, croato, polacco e arabo. La cercatrice di funghi è il suo terzo romanzo.
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1
Lo odiavo. Il vestito rosa antico con le balze mi stringeva in vita, le dita dei piedi le avevo tutte indolenzite dalle ballerine bianche di vernice, ero seduta sulla sedia imbottita, la schiena dritta come un cero, e appena incurvavo un po’ le spalle, tra le scapole mi piombava uno spintone: “Stai su!”
Con la coda dell’occhio vedevo che anche i miei fratelli storcevano il naso, si schernivano, sputando qua e là una parolaccia. Erano ansiosi di vedere l’opera forse quanto lo sono i maiali di farsi castrare, avrebbero preferito di gran lunga andare al cinema o guardare la televisione a casa. Forse non avrebbero disdegnato neanche uno spettacolo all’Alfa, ma una cosa del genere era fuori discussione. Noi dovevamo andare al Teatro Grande, ai Giardini Smetana. All’unico “autentico teatro di Plzen”. Una scena di tutto rispetto, con un’orchestra importante e un allestimento curato nel dettaglio, autori classici, Prokof’ev, Verdi, Smetana. Mia madre era fissata con i classici.
Non vedevo l’ora che in sala abbassassero le luci e il vocio del pubblico cessasse. Non appena le prime note dei violini infransero il silenzio, senza dare nell’occhio mio fratello maggiore tirò fuori dalla tasca il lettore CD, si ficcò un auricolare nell’orecchio e passò l’altro al più piccolo. Anche mio padre, che stava seduto su uno sgabello, si rilassò un attimo nel palco oscurato. Abbassò le spalle, accostò la testa al muro, ogni tanto accavallando persino una gamba sull’altra. Io incurvai la schiena un millimetro alla volta, avvicinando il mento al parapetto del balcone e appoggiando infine il viso sulla mano, mentre con l’altra pescavo il binocolo dalla borsetta. Osservare gli spettatori mi divertiva più degli avvenimenti sul palcoscenico. Nel campo visivo degli oculari si alternavano signore dai capelli cotonati coi riflessi viola, giovani tra le cui mani si illuminavano i display dei cellulari e turisti venuti in jeans che applaudivano freneticamente a ogni aria.
Ma la cosa più interessante accadeva alle mie spalle. Non ho mai visto nessuno divorare a quel modo quanto avviene in scena. Alcuni spettatori nelle lenti del binocolo trattenevano il fiato, altri erano addirittura in lacrime, ma quello era niente in confronto alla sua performance. Mia madre sedeva sullo sgabello, la schiena dritta come un fuso, con una mano posata sul petto, la bocca lievemente dischiusa. Sembrava che qualcuno le stesse praticando un esorcismo. Ogni parola sul palco, ogni passo sordo sul pavimento le si riverberavano in viso, a qualunque suono un po’ più acuto trasaliva, sgranava gli occhi o li socchiudeva. Durante le scene d’amore aveva le guance in fiamme, mentre quando accadeva qualcosa di spiacevole si copriva la vista con le mani e seguiva lo spettacolo attraverso le fessure tra le dita. Avrei giurato di sentirle il cuore battere. Potevo seguirla con lo sguardo fisso per tutta la rappresentazione, forse avrei potuto darle anche un pizzicotto sulla coscia: non se ne sarebbe accorta minimamente.
Mia madre era lo spettatore che ogni teatro che si rispetti merita. Faceva parte del Teatro Grande tanto quanto il personale di sala col programma e le quinte dipinte con cura. Era persino più di questo. Mia madre era la migliore attrice del teatro. La sua performance si meritò una lunga standing ovation. Bravo! Era il suo momento di gloria. Mio padre, capofamiglia e nostra esclusiva fonte di sostentamento, accanto a lei appariva come il semplice ciondolo di un portachiavi, un attore comprimario che si limita a far da spalla alla vera stella.
Mia madre era un’artista calatasi a tal punto nel proprio personaggio da non riuscire a staccare neanche a spettacolo finito.
E perciò nessuno poté volergliene per essersi portata dietro gli enfatici gesti teatrali anche sul letto di morte. La sua ultima ora ricordava una tragedia classica degna di Sofocle.
Poco dopo le sei di mattina mi avevano chiamato perché arrivassi al più presto. A quanto pare era molto debole, temevano il peggio. Per un attimo avevo esitato, il sole al di là dei vetri mi invitava ad andare nel bosco, poi però mi ero schiodata a fatica dal letto disfatto, vestita in fretta e diretta verso la stazione.
In ospedale non ci arrivai prima delle dieci.
Erano già tutti e due in attesa davanti alla sua stanza. Evžen stava impettito con le mani dietro la schiena a contemplare dalla finestra. Milan, mezza spanna più basso, si appoggiava alla parete dipinta di bianco. Annuì appena a mo’ di saluto e mi sorrise cauto; vedendo però Evžen che si era girato verso di lui con un’espressione acida, abbassò svelto gli angoli della bocca.
“Che sei venuta a fare?” mi ringhiò Evžen.
Non risposi, preferii puntare dritto verso la porta. Milan però mi stava già afferrando per una spalla.
“Aspetta, Sisi, non possiamo ancora.”
Si schiarì la voce dentro il pugno stretto, con le nocche sbiancate, e fece scivolare lo sguardo a terra. Aveva i muscoli del viso contratti e sulla fronte gli scintillavano piccole gocce di sudore.
Presi posto in silenzio sulla panca in similpelle accanto alla stanza. Solo alcuni minuti più tardi compresi perché non ero potuta entrare. La porta si aprì e in corridoio uscì un’infermiera con i guanti di gomma azzurra, davanti a lei un carrello con un catino bagnato e degli stracci. Ci fece un cenno con la testa come a dire che era pronta.
“Tolgo il disturbo” bisbigliò e spinse il carrello verso l’infermeria. Le ruote si misero a squittire come un topo preso in trappola.
Entrai nella stanza per ultima. Non sentivo neanche un po’ di nervosismo, ero certissima che si trattasse di un nuovo falso allarme. Persino Evžen e Milan, con tutti gli sforzi, non riuscivano a celare il malumore. Non era del resto la prima volta che ci trascinavamo fin lì per niente: solo nell’ultimo mese nostra madre ci aveva convocato in ben due occasioni.
Ma appena scorsi il suo viso cinereo e contemplai i suoi occhi spenti dalla sclera giallognola, mi fu chiaro in un lampo che stavolta non ci stava prendendo in giro.
Mia madre, che l’infermiera aveva nel frattempo liberato da ogni olezzo sgradevole, giaceva teatralmente sprofondata in un letto d’ospedale, con una coperta bianca increspata gettata addosso come in un quadro di Rubens. Disteso sotto il pezzo di stoffa non c’era però un corpo giovane e florido. La pelle cadente sulle braccia bianche e grassocce si raggrinziva sull’avambraccio e sulle ascelle creando antiestetiche pieghe, i capelli troppo lunghi, spettinati, le svolazzavano da tutte le parti, incollata agli angoli della bocca aveva una saliva giallastra. L’aria della stanza era intrisa di vecchiaia, disinfettante e pathos.
Strizzava gli occhi arrossati verso il soffitto e non sembrava consapevole della nostra presenza. Per un attimo restammo lì senza sapere che pesci pigliare, Milan si mosse verso di lei, le sfiorò la mano e la salutò, ma le sue parole non penetrarono oltre la sua espressione smarrita: ci scivolarono sopra come una goccia su un vetro. Milan si strinse nelle spalle, sporse il labbro inferiore e tornò da noi.
Ci sedemmo tutti e tre sul letto vuoto accanto a lei. Nessuno si decideva a parlare. Milan giocava col telefonino, Evžen fissava impassibile fuori dalla finestra, mentre io dondolavo i piedi sotto l’alta sponda del letto. Tutti ci rifiutavamo di guardare in faccia la morte. Stavamo seduti uno accanto all’altro come tre persone che in un momento qualsiasi condividano la stessa panchina al parco: a stento qualcuno avrebbe potuto indovinare che eravamo fratelli.
Non avevo idea di quanto fosse durata, forse alcune ore, o magari solo un paio di minuti. Finalmente nostra madre si agitò sul letto e girò appena la testa verso di noi. Il velo di foschia era sparito dagli occhi. Ci guardò.
“Figli” rantolò. L’enorme gozzo sotto la pelle giallastra ebbe un fremito. Notai che aveva il respiro molto corto. Il monitor sopra la sua testa lampeggiò.
Nostra madre deglutì a fatica, sbatté le ciglia un paio di volte, spalancò le braccia e dischiuse i palmi delle mani. Capimmo che gli ultimi istanti della sua vita voleva trascorrerli unita alle persone più care.
Due mani, tre figli. Una selezione anche sul letto di morte. Ci scambiammo sguardi imbarazzati, nessuno voleva farsi avanti per primo. Milan si sfregava il mento, indeciso, Evžen si mordeva il labbro, io preferivo fissarmi gli scarponi logori.
Ambarabà ciccì coccò...
Era chiaro fin dall’inizio chi sarebbe rimasto fuori. Evžen si guardò intorno ancora un paio di volte, scivolò giù dal letto e poi si avvicinò timidamente al braccio destro della madre. Subito dopo di lui, anche Milan cominciò a farsi strada tra i tubicini della flebo, gli elettrodi e i fili del monitor. Urtò appena il sacchetto dell’urina, si lasciò scappare un colpevole “ahi ahi”, ma alla fine occupò con successo il posto alla sua sinistra.
Nostra madre strinse le mani dei due figli maschi e tornò a sibilare qualcosa. Intervallava le parole che le uscivano lente dalla bocca a una tosse secca. I miei fratelli la guardavano negli occhi e annuivano. Ero seduta troppo distante per riuscire a capire quel che diceva. Per un attimo mi venne in mente di unirmi al quadro, cercare di abbracciarla e darle un bacio sulla fronte, in fondo ero anch’io una di loro, l’unica figlia femmina, la sua bambina, ma non volevo turbare quella simmetria perfetta. A ogni modo accanto al letto non era rimasto abbastanza posto per me. Evžen le accarezzò i capelli, si piegò su di lei e le sussurrò qualcosa...




