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E-Book, Italienisch, 192 Seiten
Reihe: Narrativa
Woolf Tra un atto e l'altro
1. Auflage 2015
ISBN: 978-88-7452-562-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 192 Seiten
Reihe: Narrativa
ISBN: 978-88-7452-562-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Il 28 marzo 1941, quando Virginia Woolf esce di casa per non tornarci piú, lascia due lettere, una per il marito Leonard, l'altra per la sorella Vanessa, e il manoscritto del suo ultimo romanzo, Tra un atto e l'altro. Il giorno prima aveva scritto di non volerlo pubblicare perché troppo 'sciocco e frivolo'. Frivolezza che percorre leggera l'intero pomeriggio del giugno 1939, nel quale si svolge la tradizionale sfilata di storia inglese, affidata quest'anno alla regia di Miss La Trobe. La recita avviene nella placida campagna intorno a Pointz Hall, residenza degli Oliver, ma nella sua colonna sonora fanno irruzione i rombi dei bombardieri. L'eco della guerra risuona minacciosa nella recita di Miss La Trobe e nella vita di Virginia Woolf, interrompendo entrambe: 'Il futuro gettava ombre sul loro presente' - e l'ultimo atto si intitola, infatti, 'Tempo presente. Noi'. Cosí, Woolf invita chi legge a sedersi e provare dieci minuti di tempo presente. Dieci minuti dell'unica cosa che si possa desiderare. Essere qui. Essere ancora qui.Il 28 marzo 1941, quando Virginia Woolf esce di casa per non tornarci piú, lascia due lettere, una per il marito Leonard, l'altra per la sorella Vanessa, e il manoscritto del suo ultimo romanzo, Tra un atto e l'altro. Il giorno prima aveva scritto di non volerlo pubblicare perché troppo 'sciocco e frivolo'. Frivolezza che percorre leggera l'intero pomeriggio del giugno 1939, nel quale si svolge la tradizionale sfilata di storia inglese, affidata quest'anno alla regia di Miss La Trobe. La recita avviene nella placida campagna intorno a Pointz Hall, residenza degli Oliver, ma nella sua colonna sonora fanno irruzione i rombi dei bombardieri. L'eco della guerra risuona minacciosa nella recita di Miss La Trobe e nella vita di Virginia Woolf, interrompendo entrambe: 'Il futuro gettava ombre sul loro presente' - e l'ultimo atto si intitola, infatti, 'Tempo presente. Noi'. Cosí, Woolf invita chi legge a sedersi e provare dieci minuti di tempo presente. Dieci minuti dell'unica cosa che si possa desiderare. Essere qui. Essere ancora qui.
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Era una sera d’estate e, nella grande stanza con le finestre aperte sul giardino, stavano parlando del pozzo nero. Dalla contea avevano assicurato che avrebbero portato l’acqua al villaggio e invece non l’avevano fatto.
Mrs Haines, la moglie del proprietario della fattoria, una donna con la faccia da oca e due occhi che sporgevano come se nel canaletto di scolo avessero visto qualcosa da ingollare, disse con una certa enfasi: “Ma che argomenti in una serata come questa!”
Poi, era calato il silenzio, una mucca aveva sbuffato e cosí aveva avuto modo di dire quanto fosse stato strano, da bambina, non aver mai avuto paura delle mucche ma solo dei cavalli. D’altronde, da piccola, nel passeggino, un gigantesco cavallo da tiro le era arrivato a meno di un pollice dalla faccia. La sua famiglia, stava raccontando al vecchio in poltrona, per secoli aveva vissuto nei dintorni di Liskeard. E le tombe nel camposanto lo provavano.
Fuori, il cinguettio di un uccello. “Un usignolo?” chiese Mrs Haines. No, gli usignoli non arrivavano cosí a nord. Era un uccello diurno che dall’alto cinguettava sull’abbondanza e la succulenza del giorno, su vermi, lumache, brecciolini, anche dormendo.
Il vecchio in poltrona – Mr Oliver, funzionario di Sua Maestà nelle Indie, ora in pensione – disse che il posto scelto per il pozzo nero era, se aveva sentito bene, sulla strada romana. Da un aeroplano, disse, si possono ancora vedere distintamente le cicatrici lasciate dai Britanni, dai Romani, dalle tenute elisabettiane, e dall’aratro, quando, durante le guerre napoleoniche, aravano la collina per coltivare il grano.
“Ma non vi ricordate…” riprese Mrs Haines. No, quello no. Tuttavia ricordava – e stava per dire loro che cosa, quando fuori ci fu un rumore e Isa, la moglie di suo figlio, entrò con le sue treccine. Indossava una vestaglia a pavoni sbiaditi. Entrò come un cigno che avanza nell’acqua. Se n’erano accorti e lei si era fermata. Si sorprese di trovare qualcuno, e le luci accese. Era rimasta seduta accanto al suo bambino che non stava bene, si scusò. Di che cosa stavano parlando?
“Discutevamo del pozzo nero,” disse Mr Oliver.
“Ma che argomenti in una serata come questa!” di nuovo esclamò Mrs Haines.
Che cosa aveva detto lui del pozzo nero, o di qualsiasi altra cosa? s’interrogava Isa, piegando la testa rivolta a Rupert Haines, il proprietario della fattoria. Lo aveva incontrato alla vendita di beneficienza, e al circolo del tennis. Lui le aveva allungato una tazza e una racchetta – e questo era tutto. Ma in quel suo volto scavato aveva sempre sentito il mistero e, nel suo silenzio, la passione. Le era successo al circolo del tennis, e anche alla vendita di beneficienza. Una terza volta, adesso e forse piú intensamente, succedeva di nuovo.
“Mi ricordo,” intervenne il vecchio, “mia madre…” Di sua madre, il vecchio ricordava che era molto risoluta, teneva la scatola del tè chiusa a chiave e gli aveva dato, proprio in quella stanza, le opere di Byron. Era piú di sessant’anni fa, disse, che sua madre, proprio in quella stanza, gli aveva dato le opere di Byron. Fece una pausa.
“Cammina avvolta nella bellezza, come la notte,” recitò.
E poi ancora: “Non andremo piú cosí vagando, alla luce della luna”.
Isa alzò la testa. Le parole formarono due anelli, due anelli perfetti, che li facevano galleggiare, lei e Haines, come due cigni nella corrente. Ma il suo petto, bianco come la neve, era stretto in un groviglio di luride lenticchie d’acqua, e lei pure, coi suoi piedi palmati, era aggrovigliata, al marito, l’agente di cambio. Seduta su una sedia ad angolo, si dondolava avanti e indietro insieme alle scure treccine penzolanti, il corpo come l’imbottitura della sua vestaglia sbiadita.
Mrs Haines era consapevole dell’emozione che circolava tra loro e la escludeva. Aspettava, come si aspetta che si spengano le note dell’organo prima di uscire dalla chiesa. In macchina, tornando a casa, alla villa rossa tra i campi di granturco, avrebbe distrutto quell’emozione come un tordo strappa col becco le ali di una farfalla. Concedendosi dieci secondi prima di intervenire, si era alzata, fermata, e poi, come avesse udito l’ultima nota spegnersi, aveva teso la mano a Mrs Giles Oliver.
Tuttavia Isa, che avrebbe dovuto alzarsi nel momento stesso in cui Mrs Haines si alzava, era rimasta seduta. Mrs Haines, ingollando, la fissò coi suoi occhi da oca: “Per favore, Mrs Giles Oliver, mi usi la cortesia di accorgersi della mia esistenza…”, cosa che lei fu costretta a fare, alzandosi finalmente dalla sedia, nella vestaglia sbiadita e con le treccine che le ricadevano sulle spalle.
Pointz Hall, nella prima luce di un mattino d’estate, appariva una casa di media grandezza. Nelle guide turistiche, non era menzionata tra le case degne di nota. Era troppo modesta. Tuttavia, quella casa biancastra, col tetto grigio e un’ala costruita ad angolo retto che si trovava in un punto del prato malauguratamente basso e con una fila di alberi sul pendio adiacente, tanto che gli sbuffi di fumo si arricciavano sui nidi delle cornacchie, era una casa in cui si stava bene. Passandoci accanto, le persone si dicevano: “Mi chiedo se la metteranno mai in vendita,” e poi, rivolte all’autista: “Chi ci vive?”
L’autista non lo sapeva. Gli Oliver, che avevano acquistato la proprietà poco piú di un secolo prima, non avevano legami con i Waring, gli Elvey, i Mannering o i Burnet; vecchie famiglie imparentate tra loro e i cui morti si intrecciavano, come le radici dell’edera, sotto al muro del camposanto.
Solo da poco piú di centovent’anni gli Oliver erano lí. Tuttavia, salendo per la scala principale – ce n’era un’altra, sul retro, quasi una scaletta, per la servitú – ci s’imbatteva in un ritratto. Un drappo di broccato giallo si vedeva già a metà della scala e, arrivati in cima, ci si trovava al cospetto di un piccolo volto incipriato e di un’enorme acconciatura imbastita di perle, un’antenata di tutto rispetto. Sul corridoio si aprivano sei o sette camere da letto. Il maggiordomo era stato un soldato, aveva sposato la cameriera di una dama, e dentro a una teca di vetro stava l’orologio che aveva fermato un proiettile sul campo di Waterloo.
Era mattino presto. La rugiada era sull’erba. L’orologio della chiesa batté otto tocchi. Mrs Swithin aprí le tende della sua camera da letto – un chintz bianco spento, foderato di verde, che tanto graziosamente dall’esterno colorava la finestra. Là, con le vecchie mani sul chiavistello, strattonandolo nel tentativo di aprirlo, c’era lei: la vecchia sorella sposata di Mr Oliver, una vedova. Aveva sempre avuto l’intenzione di sistemarsi una casa per conto suo, magari a Kensington, o a Kew, cosí da godersi i giardini. Ma poi si fermava là tutta l’estate e, quando l’inverno appannava i vetri e intasava le grondaie di foglie morte, domandava: “Perché, Bart, hanno costruito la casa in un avvallamento, rivolta a nord?” Il fratello rispondeva: “Evidentemente per sfuggire alla natura. Non ci volevano forse quattro cavalli per portare attraverso il fango la carrozza di famiglia?” Poi le raccontava la famigerata storia del grande inverno del diciottesimo secolo, quando, per un mese intero, la casa era rimasta sotto la neve. E gli alberi erano caduti. Cosí ogni anno, quando arrivava l’inverno, Mrs Swithin si ritirava a Hastings.
Ma adesso era estate. Era stata svegliata dagli uccellini. Quanto cantavano! Aggredivano l’alba come tanti chierichetti una torta glassata. Obbligata ad ascoltarli, si era accomodata per la sua lettura preferita – un compendio di storia – e aveva passato le ore, tra le tre e le cinque, pensando alle foreste di rododendri che ricoprivano Piccadilly, quando il continente, come aveva capito, non ancora diviso dal canale, era intero, popolato, come aveva capito, da mostri urlanti con corpo di elefante e collo di foca che ansimavano e si sollevavano e, supponeva, arrancavano. L’iguanodonte, il mammut, il mastodonte, dai quali presumibilmente, pensò strattonando la finestra fino ad aprirla, discendiamo tutti.
Le ci vollero cinque secondi d’orologio, molti di piú col tempo della mente, per separare Grace, con il servizio di porcellana blu su un vassoio, dal mostro coperto di pelle che grugnendo, mentre la porta si apriva, stava per abbattere un enorme albero nel verde sottobosco umido di vapori della foresta primordiale. Naturalmente sobbalzò appena Grace poggiò il vassoio e disse: “Buongiorno, signora”. “Svitata” la chiamava Grace, mentre si sentiva puntato addosso quello sguardo diviso, metà su una bestia in una palude, metà su una cameriera con un vestitino stampato e il grembiule bianco.
“Quanto cantano questi uccelli!” disse Mrs Swithin tanto per dire qualcosa. La finestra era aperta adesso, e di certo gli uccelli stavano cantando. Un tordo gentile saltellava nel prato, un ricciolo di gomma rosacea gli si contorceva nel becco. Tentata da quella vista a continuare la propria fantasiosa ricostruzione del passato, Mrs Swithin si interruppe. Era solita allargare i confini del presente con voli nel passato o nel futuro, o di traverso, lungo corridoi e vicoli. Ma si ricordò della madre – sua madre che,...