Blatto | Canzoni di Natale | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 142 Seiten

Blatto Canzoni di Natale


1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-6783-404-4
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 142 Seiten

ISBN: 978-88-6783-404-4
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
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Non sono soltanto le lucine, i pacchetti o i panettoni in vetrina a farci capire che Natale è vicino, ma anche la colonna sonora delle nostre giornate che cambia improvvisamente. Si comincia con gli Wham! e Last Christmas, per poi passare a Jingle Bells nelle sue innumerevoli versioni, fino ai Beatles, Mariah Carey e i Beach Boys. Maurizio Blatto, che di musica sa (praticamente) tutto ha deciso di raccontare le canzoni che ci tengono compagnia per venti giorni all'anno prima di finire nel cassetto e riproporsi, quasi ringiovanite, appena torna dicembre. Blatto ci svela retroscena, aneddoti, curiosità e tante storie legate ai musicisti che hanno dato voce ai nostri Natali, raccontando di neve di polistirolo, di canzoni nello spazio, di vigilie melanconiche, di pianisti a fumetti, di cantanti nati il 25 dicembre e di gruppi che sembrano un presepe. Rock, jazz, folk, punk e chi più ne ha più ne metta per tutti coloro che hanno una tradizione da rinnovare o per chi vuole inventarsi un Natale fatto di nuovi e immancabili ascolti.

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(di Lada Niva e Whamageddon)


Una delle tre canzoni di Natale più famose di tutti i tempi è stata registrata d’estate e al caldo, più precisamente sotto il sole dell’agosto 1984. Ovviamente per motivi tecnici, in modo che fosse disponibile a dicembre, ma anche perché in fondo Natale è uno “stato mentale”, una sorta di rifugio sicuro che ci spinge un martedì sera d’aprile a guardare un film in cui due vecchi compagni di liceo si ritrovano in una cittadina dell’Ohio e scoprono sotto il vischio di essere sempre stati innamorati l’uno dell’altro. La neve è di polistirolo, la recitazione pessima, la trama prevedibile già dai titoli iniziali, ma alla fine ci alziamo sereni dal divano, vagamente “sedati” e meno preoccupati per l’agenda lavorativa del giorno dopo.

Lo sapeva anche George Michael, quando fece addobbare con le decorazioni natalizie gli Advision Studios di Londra e si accinse, armato di un sintetizzatore, di una drum machine e, soprattutto, di qualche campana da slitta, a incidere il suo immortale contributo alla colonna sonora dei nostri Natali. Ricreava le condizioni giuste per entrare nello “stato mentale” consono a cantare di vacanze, fiocchi di neve e caminetti.

Giorni in cui tutto è perfetto.

Davvero? Insomma, e George Michael, uno che due o tre segreti del pop li conosceva, evitò la gioia a tutto tondo, inserendo quella lieve nota di tristezza che caratterizza ogni grande melodia e che spesso pervade anche i giorni natalizi. Troppe aspettative, eccesso di speranze, piccole delusioni dietro l’angolo: succede. E , nonostante l’inossidabile brezza d’ottimismo (mai rimpianta a sufficienza) degli anni Ottanta, introduce una vena di malinconia, nemmeno troppo celata. Quale? L’amore non corrisposto.

Il testo è inequivocabilmente drammatico. “Lo scorso Natale ti ho dato il mio cuore, ma proprio il giorno dopo l’hai buttato via.” “Quest’anno per salvarmi dalle lacrime lo darò a qualcuno di speciale.” “Una stanza affollata, amici dagli occhi stanchi, mi sto nascondendo da te e dalla tua anima di ghiaccio.” Sono parole da tipica , la ballata classica dell’amore perso o non ricambiato, ma nonostante tutto, ogni anno la facciamo risuonare nei nostri salotti mentre attacchiamo all’albero la pallina rosso carminio che era della nonna Teresa o scartiamo come fossero radioattivi i canditi dal panettone. Ignoriamo il vero testo? Non sappiamo l’inglese? No, è solo uno dei tanti effetti dello “stato mentale natalizio”. Ci siamo dentro e non vogliamo uscirne per nulla al mondo. Un adorabile autoinganno che forse si adagiò sui cuscini della cameretta in cui George Michael trascorse l’adolescenza e dove scrisse durante una visita ai genitori insieme al compagno negli Wham! Andrew Ridgeley. Il ritornello prese forma lì, in quel luogo d’elezione massima per il pop degli ultimi quarant’anni, tra le fondamenta di ciò che si aspira a essere, in mezzo a dischi, libri, quaderni con goffe poesie e abiti ormai imbarazzanti dei quali è emotivamente impossibile disfarsi. Nella protezione assoluta della sua cameretta immaginiamo George Michael che si alza dal letto, apre la porta, chiama Andrew e gli fa sentire il primo abbozzo della canzone. E lui lo ascolta ammirato, definendo anni dopo quegli istanti come «un momento di pura meraviglia».

Furono d’accordo anche i milioni di ascoltatori che spinsero ai vertici delle classifiche di fine 1984 in ogni parte del mondo. Nella patria inglese la canzone si piazzò al secondo posto delle chart per ben cinque settimane consecutive.

Un attimo, secondo posto? Ebbene sì, a tenerla lontana dalla vetta fu, ironia della sorte, il singolo firmato dal supergruppo britannico Band Aid messo in piedi per raccogliere fondi contro la carestia in Etiopia. Insieme a star del calibro di Sting, Simon Le Bon, Bono Vox e Phil Collins, spiccava anche il contributo di George Michael, che quindi in qualche misura sabotò sé stesso. Anche le royalties di furono destinate allo stesso obiettivo benefico e la sindrome da eterno secondo (classico copyright di Toto Cutugno), fu finalmente sfatata il giorno di Capodanno del 2021 quando, trentasei anni dopo la sua pubblicazione, il brano raggiunse la posizione numero uno nella classifica dei singoli inglesi. Giustizia fatta, finalmente, dopo che il classicone degli Wham! era stato a lungo il singolo più venduto di sempre tra “i numeri due”. All’epoca spopolò ovunque, dalla Svezia al Giappone, dove è ancora la canzone di un gruppo non giapponese ad aver avuto più successo.

Traino efficace fu sicuramente il video, quintessenza della vacanza natalizia. Cottage in Svizzera (Saa-Fee, “perla delle Alpi”), funivia, sci, decorazioni, grandi sorrisi, il duo pop Pepsi & Shirlie, la modella Kathy Hill e, ovviamente Andrew Ridgeley e George Michael. Ma pure sguardi d’intesa (maliziosi, come lo spot del deodorante 80s) durante l’addobbo dell’albero, con rimpianti e rimorsi a supporto del testo. All’epoca lo guardammo con gli occhi sgranati e in qualche modo tentammo di replicarlo. Esattamente come due anni dopo si tentò di plagiare in proprio Kim Basinger e Mickey Rourke che amoreggiavano davanti al frigo con Kim a occhi chiusi che assaggiava fragole e miele («Ma cos’è sta schifezza? Non è che mi hai fatto mangiare la maionese Calvè che era scaduta da due mesi?»), si cercò di allestire la propria vacanza Wham! («Ci penso io, sarà identica»). Successe ovviamente di tutto.

Mi duole segnalare il caso di un drammatico tentativo di emulare la chioma bionda stile Farrah Fawcett (la dea delle ) vantata all’epoca da George Michael con il malsano utilizzo di una confezione formato famiglia di acqua ossigenata da parte di un disperato che venne ricoverato al Pronto soccorso con un’ustione chimica.

Ma anche la tragedia sfiorata da un gruppo di emuli che pensò bene di mettere in piedi l’esatta replica del video. Esatta più o meno… Tralasciando l’eventuale parallelo con l’avvenenza dei reali protagonisti, i problemi furono altri. I mezzi di trasporto, innanzitutto. I fuoristrada originali vennero sostituiti con il più abbordabile ma meno affidabile Lada Niva (codice VAZ 2121), equivalente sovietico prodotto dal 1977 negli stabilimenti di Togliattigrad e inspiegabilmente diffusosi in Italia tra chi “voleva, ma non poteva” durante gli anni Ottanta.

Bestia dalle linee squadrate, firmate nientemeno che dal designer e Valerij Pavlovic Semuškin, iniziò ad arrancare a sorpresa pure sulle nostre Alpi. Esattamente in una località di quella nobile catena montuosa si diresse il nostro manipolo di sventurati, con i maglioni dentro le borse del nuoto (blu, tubolari e con i manici bianchi: quelle, le stesse del video) e le chiavi di una «baita bellissima, ma dove la mia famiglia non va da qualche anno». Iniziò a nevicare in tangenziale, fitto e senza tregua. A metà del tragitto il Lada Niva emise alcuni rantoli degni di un caribù in fin di vita. La visibilità era nulla. Non esisteva ancora il GPS e le indicazioni degli alpestri, ostili, si rivelarono vaghe. Ma gli sventurati raggiunsero la baita (in realtà una specie di catapecchia con fienile semidistrutto forse dai bombardamenti della Luftwaffe) quando ormai nessuno fischiettava più da parecchi minuti. In breve: il riscaldamento non funzionava, un tubo ghiacciato era esploso e aveva allagato la tavernetta dove, in teoria, avrebbero dovuto aver luogo i festeggiamenti Wham! style, e mettiamoci pure che le lasagne preparate da una delle madri dei nostri protagonisti durante uno dei sobbalzi non ammortizzati dal Lada Niva erano crollate per metà dentro i Moon Boot rossi stipati nel bagagliaio.

Un disastro, una copertina degli Iron Maiden piuttosto che una clip degli Wham!. Il buonsenso convinse il quartetto a rientrare in città, forse consigliato dalla preoccupante perdita di sensibilità all’estremità degli arti di un paio di loro. Sulla statale innevata il Lada Niva disse basta. Fine, fermo. «Non preoccupatevi, so cosa fare», sentenziò l’uomo al volante che, in mezzo a una bufera degna della Groenlandia, fece ricorso alla manovella d’emergenza. Prego? Sì, da manuale, ecco la dotazione di attrezzi fornita, in un elegante astuccio di cuoio insieme al Lada Niva: due cacciacopertoni, una pompa per gonfiare le gomme (a camera d’aria), una lampadina di emergenza da collegare nell’apposita presa sita nel vano motore, un manometro, una limetta e un calibro per puntine platinate e candele, un set di chiavi inglesi, una pinza, diversi cacciaviti e, soprattutto, una manovella per l’avviamento manuale. «Tranquilli, so dove metterla», urlò nel vento implacabile, prima di inserirla nel foro situato sotto il paraurti anteriore. Quindi iniziò a girare avvalendosi della forza della disperazione. Ma non bastò. Poco dopo perse i sensi dentro un metro di neve. Lo portarono a fatica nell’abitacolo e tentarono di rianimarlo con il manometro estratto...



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