E-Book, Italienisch, 108 Seiten
Carlotto / D'Andrea / De Giovanni Tre passi nel buio
1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-7521-960-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Il noir, il thriller e il giallo raccontati dai maestri del genere
E-Book, Italienisch, 108 Seiten
ISBN: 978-88-7521-960-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Negli ultimi vent'anni, la letteratura italiana di genere ha conquistato il predominio assoluto nelle classifiche di vendita, e costruito una vera a propria comunità di lettori che va sempre più ampliandosi. La costellazione di romanzi che vengono radunati - forse frettolosamente - sotto l'etichetta del crime nasconde differenze rilevanti e spesso ignorate: scrivere un noir non è la stessa cosa che scrivere un giallo; la serialità richiede tecniche di costruzione dell'intreccio che non sono né scontate, né alla portata di tutti; il thriller è un genere a sé, con regole proprie che è necessario applicare nei minimi dettagli, anche quando le si voglia sovvertire. Per la prima volta, tre maestri rispettivamente del noir, del giallo e del thriller hanno accettato di aprire il proprio laboratorio ai lettori, raccontando nei dettagli come costruiscono le loro storie, quali ne sono gli ingredienti irrinunciabili e come questi si sono evoluti nel corso degli anni. Il risultato è un libro pieno di passione e competenza: una lettura irrinunciabile per gli appassionati di Carlotto, D'Andrea e de Giovanni, ma anche per chi non li conosce ancora. Oltre che, ovviamente, per chi sogna di scrivere una storia crime, e vuol capire da dove partire e cosa non sbagliare.
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Se dovessi tentare di dire che cosa è per me il thriller, eviterei le definizioni classiche, come eviterei di soffermarmi su tecniche, trucchi e meccanismi che ormai sono noti a chiunque segua con regolarità le serie televisive su Netflix o su Sky. Per me, il thriller è un traguardo: un grande equilibratore, il ponte ideale gettato tra le mie ossessioni di scrittore e le esigenze e le aspettative dei miei lettori. Non credo che, in quanto tale, il thriller abbia meriti o qualità intrinseche che lo rendano migliore o più efficace del noir o del poliziesco. Più semplicemente, il poliziesco non è nelle mie corde, per via di una strana avversione nei confronti delle figure di commissari o comunque di tutori della legge (che non ha niente di ideologico, e somiglia di più a un’idiosincrasia autoriale), oltre che da una fisiologica diffidenza nei confronti della serialità, sulla quale magari tornerò più avanti. Quanto al noir, sono convinto che per saperne scrivere uno sia necessario un bagaglio di vissuto e di esperienze personali che a me manca.
Con il thriller, invece, posso giocare quasi a mio piacimento. Non esistono scuole che mi condizionino, ma solo una serie di autori che amo e che hanno miriadi di cose da insegnarmi. È la forma narrativa all’interno del genere che assicura la maggior libertà, e che consente di muoversi con la massima disinvoltura tra suspense e romanzesco puro. Infine, il thriller ha un respiro fortemente internazionale, e questo non può che renderlo caro a chi, come me, è cresciuto nella convinzione che l’epoca delle letterature nazionali sia finita da un pezzo, e che esista oramai soltanto il gigantesco agglomerato della letteratura occidentale.
Il lavoro che mi porta dall’ideazione alla stesura di un romanzo si divide sostanzialmente in tre fasi. Nella prima, che è quella ideativa, parto da una suggestione o un’immagine che mi ossessiona e comincio a giocarci liberamente, fino a quando nella mente non prendono forma i personaggi. Nella seconda fase predispongo quello che io chiamo il «meccanismo», e che potrei definire una sinossi estremamente dettagliata, capitolo per capitolo, movimento dopo movimento, dell’intero romanzo.
Nel momento in cui sono già dentro la storia e la sto organizzando mentalmente, c’è un modo che mi consente di rendermi conto che la storia funziona, ed è quando, all’atto di lavorare sul meccanismo narrativo, delle scene ti si dipanano davanti agli occhi e continuano a stare lì e a offuscare la tua visione d’insieme, finché non decidi di metterle su carta. Quando ti capita una cosa simile vuol dire che il personaggio al centro della scena e la funzione che riveste nella storia sono giusti, e non ti resta che buttare subito giù il testo, che nella maggior parte dei casi rimarrà invariato fino alla stesura finale.
La cosa davvero importante del meccanismo narrativo è che ti consenta di avere una struttura, un motore che funzioni perfettamente e che abbia sufficiente benzina. Perché la struttura funzioni deve esserci una rigorosa consequenzialità tra le cose che accadono, qualcosa che nella vita, in realtà, raramente si verifica. Mentre metti a punto il motore, però, devi anche perfezionare la messa a fuoco dei personaggi, che in un certo senso rappresentano la benzina che fa funzionare la macchina narrativa. Nel momento in cui hai benzina a sufficienza e il motore è bene a punto arrivi alla terza parte, che è quella dell’immersione nella scrittura.
È un po’ come se tu fossi un maratoneta: ti sei preparato, hai fatto tutti gli allenamenti necessari, hai mangiato le cose giuste e non ti resta altro da fare che partire, se non vuoi che la storia ti esploda in mano.
Una volta giunto al momento della scrittura vera e propria, ho la fortuna di andar via veloce come una scheggia. Tra l’altro non rileggo mai quello che scrivo, finché non sono arrivato alla fine. Non mi fermo, devo andare avanti senza soste o intervalli. E questo posso farlo perché so con assoluta certezza che la struttura reggerà: posso quindi concentrarmi, capitolo dopo capitolo, sequenza dopo sequenza, sulla voce che il lettore si sentirà risuonare nella testa: la stessa voce che tu stesso hai cominciato a sentire nitida nella tua, di testa, una volta eliminati tutti i dubbi sulla trama e sui personaggi.
Se tutto è stato predisposto nel modo migliore, quella voce rimarrà nitida per l’intera durata della storia che andrai a raccontare. In questa fase ti accorgi spesso di migliorare, ma come scrivente, non come scrittore. A crescere non è l’autore, che è chiamato a ideare e costruire le storie, ma l’artigiano che deve saperle esporre nel modo più efficace, per arrivare a toccare le corde giuste che servono a far funzionare il libro nel suo complesso.
Solo completato anche il processo di scrittura arrivi a mettere la parola fine, e solo allora potrai sapere con certezza se la storia che hai costruito vale il tempo che occorrerà ai lettori per sfogliarla, o se invece ti toccherà buttare via tutto. D’altro canto, anche nella peggiore delle ipotesi, resta il fatto, almeno parzialmente consolante, che i fallimenti ti consentono più ancora dei successi di capire tante cose di te stesso, e del tuo processo di scrittura.
È vero, mi capita spesso di finire un romanzo e decidere di metterlo via, o di tenerlo nel cassetto. E il motivo è tutto sommato semplice. Io ho dei nuclei immaginativi tutti miei e molto personali, ma questo non credo valga solo per me. Anche i musicisti hanno due o tre accordi che li ossessionano, e trascorrono una vita intera a cercare il modo perfetto per utilizzarli. E quasi tutti gli scrittori hanno due o tre nuclei che capita di cogliere, declinati ogni volta in maniera diversa, nella maggior parte dei loro libri. Inevitabile, dunque, che i nuclei di cui parlo riemergano in modo quasi ciclico: semplicemente, alcuni di essi non sono ancora maturi per diventare un libro; altri li trovi già pronti a essere trasposti dentro una storia nel momento stesso in cui ti si rivelano, oppure ti ritornano in mente a distanza di anni e dici: «Ah, adesso sì che saprei come raccontartela, questa cosa qui». Sarà anche banale, ma il novanta per cento della vita di uno scrittore si muove dentro la sua testa, nei confini del suo cranio. Le idee rimbalzano da una parete all’altra, azzuffandosi tra loro per emergere. Poi, di punto in bianco, tu le scopri, perché in realtà la prima fase del processo creativo – della quale non abbiamo detto molto perché rimane in larga parte un mistero, e non è possibile parlarne in modo produttivo – si traduce quasi sempre nella sensazione di aver scoperto qualcosa che c’era già, in attesa di essere dissotterrato. Stephen King ha utilizzato un’immagine particolarmente efficace, per descrivere il momento della creazione: è come quando trovi...




