E-Book, Italienisch, 160 Seiten
Reihe: saggi | terra
Chakrabarty / de Giuli / Porcelluzzi Clima, Storia e Capitale
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-7452-936-0
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 160 Seiten
Reihe: saggi | terra
ISBN: 978-88-7452-936-0
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Dipesh Chakrabarty è uno storico indiano, professore presso l'Università di Chicago. Si è imposto come una delle figure di maggior rilievo della Postcolonial Theory col suo 'Provincializzare l'Europa' (Meltemi, 2000). A partire da 'The Climate of History' partecipa al dibattito mondiale sul cambiamento climatico
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Introduzione: Chakrabarty e la natura della società
di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi
Lo studio della natura ci mette di fronte ai nostri limiti cognitivi: davanti al non umano, spesso non vediamo e non tocchiamo davvero, e fatichiamo a capire. Per misurare il “resto” ci inventiamo cose che non stanno né in cielo né in terra, come per esempio il livello del mare. Più che un fenomeno, un concetto. Non è però soltanto un metro di paragone, il mare è un’interfaccia: si macchia, specchia, ospita microplastiche e megattere, si lascia tirare, schiacciare, trivellare… la sua forma si attacca alla nostra vista, così come quella che chiamiamo la misura dipende dalla tecnologia. Ma per quanto lo si circondi di satelliti e sonde, per quanto si cerchi di cablarlo e calibrarlo, la sua superficie resta più vasta delle nostre capacità di previsione: succede che travolga intere città, che bruci, che fiorisca di carcasse da trascinare a riva.
All’inizio del 2020, qualche settimana prima della monopolizzazione del ciclo di informazione da parte di SARS-CoV-2, una delle tante notizie di devastazione ecologica si è propagata per qualche giorno, forse qualche ora, perdendosi poi in mezzo alle altre. La notizia nasceva dalla pubblicazione di uno studio dell’Università di Washington intorno al ritrovamento di sessantamila cadaveri di urie comuni, un uccello diffuso sulle coste atlantiche del Nord America più settentrionale e del Portogallo, ma anche sul bordo del Pacifico, dall’Alaska e dalla Columbia Britannica fino alla California. I cadaveri si erano ammucchiati tra l’estate del 2015 e la primavera del 2016, soprattutto lungo le coste di Alaska, Washington, Oregon e California. Secondo i ricercatori però, dato che la maggior parte degli uccelli morti non era arrivata a riva, il totale dei cadaveri andava stimato intorno al milione di esemplari.
A uccidere un milione di urie comuni è stata un’enorme bolla di acqua calda. Negli anni ’10 abbiamo assistito a gravi aumenti di temperatura delle acque oceaniche, soprattutto nella stessa finestra temporale della morte delle urie, accelerati in quel caso dal Niño (“un’oscillazione periodica del sistema oceano-atmosfera legata a variazioni di temperatura nell’Oceano Pacifico tropicale”1), che è andato ad aggravare la condizione anticiclonica ormai presente da anni.
Gli anticicloni si formano quando una massa d’aria si raffredda, contraendosi e addensandosi, aumentando quindi il peso dell’atmosfera e la pressione dell’aria sulla superficie. Il mare, già ogni anno più acido per il surplus di carbonio antropico, aumenta così di temperatura. L’enorme bolla d’acqua calda, in quella finestra temporale, ha innalzato la temperatura media di quella fetta di mare di 6 gradi Celsius, estendendosi per oltre un milione di chilometri quadrati: un’area pari a due volte la Spagna, che nella sua espansione sterile e anossica ha inglobato e reciso diverse catene alimentari.
Secondo lo studio citato le urie, che ogni giorno dovrebbero mangiare il corrispettivo di metà del loro peso corporeo per sopravvivere, sono morte di fame. Questo perché il metabolismo di salmoni e halibut, che si sono ritrovati a loro volta con poco cibo a disposizione, li ha portati a cacciare pesci più piccoli del solito: il risultato è stato meno cibo per le urie, più morti, meno nati.
Tra le stagioni riproduttive 2015 e 2016, più di 15 colonie non hanno prodotto nemmeno un pulcino. I ricercatori hanno precisato che queste stime potrebbero essere basse, dato che monitorano solo un quarto di tutte le colonie, e hanno scoperto anche altri effetti della bolla di acqua calda, tra cui una vasta fioritura di alghe nocive lungo la costa occidentale degli Stati Uniti che è costata alla pesca perdite per milioni di dollari2.
Julia Parrish, coautrice dello studio e docente della Washington University, ha aggiunto che “anche altri animali sono morti, tra cui leoni marini, pulcinelle di mare e balene”3.
La morte degli ecosistemi è silenziosa, e spesso ci concede solo poche immagini sparute: il candeggiarsi dei coralli, gli olocausti di animali sulle spiagge… L’attività antropica, invece, con i suoi calcoli scalibrati, non manca mai di stupirci: il 2 luglio 2021 un gasdotto sottomarino di Petróleos Mexicanos, l’azienda petrolifera statale messicana, a seguito di un guasto ha scatenato un incendio sulla superficie delle acque del Golfo del Messico. Pemex ha dichiarato che il guasto è stato causato dalla caduta di un fulmine; inoltre, ha dichiarato di avere chiuso le valvole del gasdotto cinque ore dopo l’inizio della perdita di gas. Nel giro di ventiquattr’ore, settantatré milioni di persone hanno visto il video dell’enorme palla di fuoco nell’oceano.
L’oceano brucia, e con lui le terre. Ogni anno, circa il 5 per cento della superficie terrestre australiana è colpita da incendi: dal luglio del 2019 al marzo del 2020 è andato in fumo il 10 per cento della produttività primaria netta del continente, ovvero la sua capacità di fotosintetizzare l’energia solare. Di ripararsi dal sole e farne qualcosa di utile alla vita. Tra ottobre e gennaio, a cavallo fra la primavera e l’estate australiana, sono bruciati 8 milioni di ettari di terreno, il doppio della superficie complessiva colpita dagli incendi del 2019 in Siberia e in Amazzonia, e pari all’80 per cento di tutte le foreste italiane.
A bruciare in Australia non è stata la foresta, ma il cosiddetto , popolato da piante in realtà pirofite e pirofile, impregnate di resine infiammabili e al tempo stesso cariche di semi praticamente impermeabili al fuoco. Come precisa Giorgio Vacchiano, ricercatore forestale all’Università degli Studi di Milano:
In Australia, metà delle accensioni sono causate da fulmini, e metà dall’uomo per cause sia colpose che dolose. Il 2019 è stato in Australia l’anno più caldo e più secco mai registrato dal 1900 a oggi. Nell’ultimo anno le temperature medie sono state di 1,5 gradi più alte rispetto alla media 1961-1990, le massime oltre 2°C in più, ed è mancato oltre un terzo della pioggia che solitamente cade sul continente. La straordinaria siccità australiana è stata generata da una rara combinazione di fattori. Normalmente il primo anello della catena è El Niño, un riscaldamento periodico del Pacifico Meridionale che causa grandi cambiamenti nella meteorologia della Terra, ma quest’anno El Niño non è attivo. Si è invece verificato con un’intensità senza precedenti un altro fenomeno climatico, il Dipolo dell’Oceano Indiano (IOD) – una configurazione che porta aria umida sulle coste africane e aria secca su quelle australiane4.
I fulmini e il Niño, l’Oceano Pacifico e quello Indiano, Stati Uniti, India, Australia… il mondo intero: oggi sappiamo oltre ogni ragionevole dubbio che le attività umane sono alla base di cambiamenti climatici che colpiscono in maniera indiscriminata e globale. L’influenza umana sul pianeta sta portando a siccità, ondate di calore, temporali distruttivi, eventi climatici estremi sempre più frequenti e poderosi. Gli spettri che fino a qualche anno fa sembravano solo una lugubre e vaga minaccia che pendeva sui futuri dei nostri pronipoti sono apparsi nel nostro quotidiano con una velocità che forse in pochi si aspettavano.
Oltre ogni ragionevole dubbio, sappiamo quindi da anni quello che diversi scienziati avevano iniziato a intuire da molto prima: sono le emissioni antropogeniche di gas serra, di anidride carbonica e metano, a guidare questi cambiamenti climatici. La scienza del clima è una scienza complessa, può sembrare bizantina a uno sguardo inesperto, ma c’è almeno una semplice equazione da poter fissare a mente: ogni 1000 miliardi di tonnellate di emissioni cumulative di CO2, la temperatura sulla superficie del globo aumenta di circa 0,45°C, con tutte le conseguenze del caso. L’IPCC, il panel intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, si prende ciclicamente la briga di fare una sintesi della letteratura scientifica sul tema: si tratta, com’è facile immaginare, di decine di migliaia di articoli. L’ultimo documento dell’IPCC (pubblicato nell’agosto 2021, 3949 pagine) riporta questi dati5: rispetto all’età pre-industriale, l’aumento di temperatura globale è oggi di 1,09°C. Sono stati registrati aumenti di 1,59°C sulla terraferma e di 0,88°C sugli oceani. Dal 1970 a oggi, l’aumento della temperatura è stato “più rapido che in qualunque altro periodo di 50 anni degli ultimi 2000 anni. La temperatura degli oceani è aumentata più rapidamente nell’ultimo secolo che negli ultimi 11.000 anni, epoca dell’ultima deglaciazione”6.
Molti dei danni che questi cambiamenti hanno portato sono irreversibili, e altri ancora lo diventeranno se non si interviene subito. Già oggi sappiamo che il massimo a cui possiamo ambire è un mitigamento, un rallentamento. Una vittoria spuntata, forse, ma contenere l’innalzamento delle temperature anche solo di mezzo grado può fare una differenza enorme. Ogni virgola conta perché, viceversa, ogni piccolo aumento ci porta...