E-Book, Italienisch, 409 Seiten
Reihe: I Corvi
Demick I mangiatori di Buddha
1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-7091-768-0
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 409 Seiten
Reihe: I Corvi
ISBN: 978-88-7091-768-0
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Ngaba, città stretta tra due monasteri, è la prima frontiera dell'altopiano tibetano per chi arriva da nord. Qui gli invasori cinesi si sono scontrati con la resistenza locale sin dagli anni Trenta, quando l'Armata Rossa di Mao entrò in città e, in preda alla fame, dissacrò i templi per mangiare le statuette votive di Buddha, fatte di farina e burro. Oggi Ngaba è inaccessibile agli occidentali, ma Barbara Demick, sfidando la burocrazia di Pechino e a costo di gravi rischi personali, è riuscita a visitarla e ha raccolto i fili di una storia, quella del Tibet moderno, fatta di repressione e ribellione, fughe e compromessi. Tra le mille voci di questo popolo umiliato e offeso c'è Gonpo, la principessa deposta bambina; Delek, nomade brutalizzato dagli invasori che diventa una Guardia Rossa; Tsegyam, il poeta che insegnava il tibetano e i testi proibiti nelle scuole per tramandare la raffinatezza di una cultura che la Cina cerca di cancellare; e poi studenti radicalizzati nei monasteri, ex monaci che si reinventano imprenditori, giovani scissi tra l'identità tibetana e l'abiura in nome del benessere economico cinese. E c'è chi non ha mai smesso di combattere ma, per non rinunciare ai principi buddhisti e al pacifismo del Dalai Lama, lo ha fatto rivolgendo la violenza delle proteste contro un solo bersaglio: il proprio corpo. Così a Ngaba a decine si sono avvolti nel filo spinato, hanno bevuto la benzina e si sono dati fuoco. Polifonico come un romanzo corale e rigoroso come un'inchiesta, I mangiatori di Buddha racconta di oppressione, resistenza e di una colonizzazione ancora in atto, illuminando un angolo di mondo che un regime potentissimo vuole tenere nell'ombra.
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Nota dell’autrice
Il centro di Ngaba, 2014.
Il Tibet ha avuto per secoli la fama di un regno inaccessibile. Le sue attrattive erano nascoste dalla barriera naturale dell’Himalaya e da un governo teocratico e isolato alla cui guida si succedevano i Dalai Lama, ognuno dei quali ritenuto la reincarnazione del suo predecessore. La letteratura del XIX e del XX secolo sul Tibet è ricca di testimonianze di stranieri che tentano di entrare nel paese travestiti da monaci o eremiti.
Oggi non sono i tibetani a tener chiuse le porte, ma il Partito comunista cinese. La Cina, che governa il Tibet dal 1950, scoraggia in ogni modo possibile l’ingresso ai visitatori provenienti dall’estero. Un moderno aeroporto con tanto di Burger King e sportelli bancomat ha trasformato Lhasa, un tempo città santa, in una trappola per turisti di nazionalità quasi esclusivamente cinese. Gli stranieri che desiderano visitare il territorio che la Cina ha denominato Regione autonoma del Tibet devono essere in possesso di uno speciale permesso di viaggio, che ad accademici, diplomatici, giornalisti e a chiunque abbia la tendenza a fare domande scomode viene rilasciato con parsimonia. In teoria, le regioni orientali dell’altopiano tibetano, che ricadono nelle province del Sichuan, del Qinghai, del Gansu e dello Yunnan, sono aperte a chiunque abbia ottenuto un visto cinese, ma spesso ai checkpoint gli stranieri vengono respinti, oppure viene negata loro la possibilità di alloggiare negli alberghi.
Mi sono trasferita a Pechino come corrispondente del nel 2007, l’anno prima delle Olimpiadi. Nel presentare la propria candidatura a ospitare i giochi, il governo cinese aveva dato ampie rassicurazioni sul rispetto dei diritti umani e sull’apertura del paese alla stampa estera, ma in realtà gran parte del paese è rimasta off-limits per i giornalisti. E Ngaba era tra le zone più inaccessibili.
Ngaba è un luogo poco conosciuto. Sulle carte geografiche in lingua inglese è indicata con il suo nome cinese, Aba (pronunciato come quello del gruppo pop svedese); il nome tibetano è un po’ ostico per i non madrelingua, ma suona all’incirca come Nabba o Nah-wa, a seconda del dialetto.
Per il Partito comunista la città è stata una spina nel fianco fin dagli anni Trenta. Ogni dieci anni circa si trasforma in un teatro di proteste antigovernative che lasciano immancabilmente dietro di sé una scia di distruzione e morte. Poiché i tibetani seguono gli insegnamenti del quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, che ha abbracciato la nonviolenza ed è stato insignito del premio Nobel per la Pace, la maggior parte dei morti per motivi politici degli ultimi anni si è registrata da parte tibetana. Durante le proteste del 2008 le truppe cinesi hanno aperto il fuoco sui manifestanti a Ngaba, uccidendo diverse decine di persone. Nel 2009 un monaco buddhista si è cosparso di benzina sulla strada principale e si è dato fuoco chiedendo il ritorno del Dalai Lama, che vive in esilio in India. A questo episodio ha fatto seguito un’ondata di immolazioni. Al momento in cui scriviamo, 156 tibetani si sono dati fuoco, quasi un terzo dei quali a Ngaba e dintorni, l’ultimo in ordine di tempo nel novembre del 2019. Per Pechino queste morti rappresentano una fonte di imbarazzo, poiché smentiscono l’affermazione propagandistica secondo cui i tibetani hanno una percezione positiva della dominazione cinese.
Dopo le prime immolazioni le autorità cinesi hanno raddoppiato gli sforzi per tenere lontani i giornalisti, istituendo posti di blocco all’ingresso della città con barriere anticarro, transenne e agenti paramilitari che controllavano le automobili per assicurarsi che non entrassero stranieri. Alcuni intrepidi giornalisti, con alterna fortuna, si sono sdraiati sul sedile posteriore impugnando la macchina fotografica come un periscopio per scattare immagini dal finestrino.
Noi giornalisti siamo bastian contrari: se ci dicono che non possiamo andare in un certo luogo, è molto probabile che cercheremo di andarci. Il mio ultimo libro era dedicato alla Corea del Nord, che mi aveva attratto, devo ammetterlo, anche perché era praticamente chiusa ai visitatori occidentali. Così, quando decisi di occuparmi di una città tibetana, ho puntato su Ngaba. Volevo sapere che cosa c’era, lì, che il governo cinese era tanto preoccupato di non farmi vedere. Perché tanti dei suoi abitanti erano disposti a darsi la morte in uno dei modi più orribili che si possano immaginare?
Ero incuriosita dal Tibet, come altri occidentali. Non sono buddhista e non ho mai cercato conforto nelle religioni dell’Estremo Oriente (e nemmeno dell’Occidente, se è per questo), ma ero colpita dalla profonda spiritualità tibetana, che aveva ispirato in quei luoghi una cultura, una filosofia e una letteratura straordinarie e originali, in un mondo sempre più omologato. Avevo studiato la storia cinese, e quindi ero al corrente dell’invasione e della fuga del Dalai Lama, ma avevo un’idea molto superficiale dei tibetani stessi, al di là delle caricature dei santoni con le guance scarne nelle loro grotte e dei nomadi sorridenti che stringono tra le mani i loro . Cosa significava essere un tibetano nel XXI secolo e vivere ai margini della Cina moderna?
La tecnologia ha privato il mondo di gran parte del suo mistero. Con pochi clic, Google Earth permette di osservare dall’alto le zone più remote del pianeta, però non è in grado di raccontare ciò che accade in quei luoghi. Avevo bisogno di andare a Ngaba.
Una nota geografica: il governo cinese ha denominato Regione autonoma del Tibet solo metà dell’altopiano tibetano, per ragioni storiche che spiegherò più avanti. Ma la maggior parte dei tibetani vive in aree delle province del Sichuan, del Qinghai, del Gansu e dello Yunnan che, pur trovandosi fuori dal «Tibet ufficiale», sono altrettanto tibetane. Negli ultimi decenni queste zone orientali dell’altopiano sono diventate il cuore del Tibet, terra di musicisti, registi, scrittori e attivisti famosi, nonché lama tibetani, tra i quali l’attuale Dalai Lama.
Ngaba si trova nel Sichuan, all’incirca nel punto in cui l’altopiano tibetano si incontra con la Cina, facendone una sorta di prima linea. Per arrivarci di solito si passa per Chengdu, il capoluogo della provincia, una delle nuove megalopoli cinesi.
Lasciandosi alle spalle i nuovi e rutilanti centri commerciali con le loro boutique di Gucci e Louis Vuitton e i grattacieli residenziali, si percorrono le circonvallazioni e poi ci si dirige a nord, verso le montagne. In linea d’aria Ngaba dista poco più di 350 chilometri, ma il viaggio attraverso la foresta pluviale temperata dei monti Qionglai, l’habitat naturale degli amati panda, dura una giornata intera. Dopo una salita interminabile lungo stretti tornanti attraversati dai rivoli d’acqua che scendono dalle rocce si raggiunge l’altopiano, dove gli alberi si diradano fino a sparire, e all’improvviso il paesaggio si apre. La transizione è talmente brusca che è come entrare in un armadio magico e ritrovarsi in un’altra dimensione.
In ogni direzione, uno sterminato tappeto verde e corrugato si alza e si abbassa seguendo i contorni dei rilievi. Nei libri illustrati sul Tibet il cielo è sempre azzurro, ma durante le mie visite, per lo più in primavera, basse nuvole simili a falde di ovatta oscuravano le cime delle montagne. I villaggi lungo la strada sono costituiti da gruppi di tozze case di terra battuta. Yak e pecore arruffati ignorano le poche auto di passaggio. Nei punti significativi della strada si trovano le offerte alle divinità, che per i tibetani abitano ogni passo e ogni collina. Le bandiere di preghiera, sbiancate dal sole in tenui colori pastello, sventolano dalle creste delle montagne.
Ngaba si trova a 3350 metri sul livello del mare, anche se l’altitudine non è immediatamente percepibile perché il territorio è tutto sommato pianeggiante. Il centro della città è poco più di uno stretto nastro urbano che taglia le terre erbose. La strada principale, la n. 302 sulle carte geografiche, attraversa tutta la città; in un quarto d’ora si può andare da un capo all’altro. Il primo semaforo è stato installato nel 2013. In una zona rurale come questa non è insolito vedere uomini a cavallo, anche se oggi la gente preferisce spostarsi in moto o in risciò a pedali. La maggior parte degli anziani e alcuni giovani indossano la tradizionale , una specie di cappotto fermato in vita dalla cintura; ma molti optano per un compromesso fra tradizione e praticità e portano cappelli da cowboy e giacconi di montone o imbottiti di piumino. Le donne indossano spesso gonne lunghe.
Ai due lati di Ngaba si ergono come fermalibri due monasteri buddhisti, i cui tetti dorati riflettono la luce del sole. Sono dipinti in vermiglio e giallo uovo intensi, i colori usati per gli edifici monastici, che contrastano con il grigiore del paesaggio. Il monastero di Se (si pronuncia come «sei») è situato vicino al primo checkpoint entrando in città da est; all’estremità opposta si trova invece il monastero di Kirti, più grande, che è stato l’epicentro delle immolazioni.
Tra i due monasteri il paesaggio urbano è un groviglio di edifici bassi rivestiti di piastrelle, come...