Di Dio | Più a est di Radi Kürkk | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 128 Seiten

Reihe: Intrecci

Di Dio Più a est di Radi Kürkk


1. Auflage 2019
ISBN: 978-88-6243-455-3
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 128 Seiten

Reihe: Intrecci

ISBN: 978-88-6243-455-3
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Rimasto improvvisamente orfano di tutta la famiglia, il giovane Lucio cerca di trovare un senso per quanto è accaduto e capire cosa fare ora della propria vita. Abita a Luz, un paese sulla riva di un grande fiume che per giorni si gonfia di pioggia minacciando di esondare da un momento all'altro e divorare tutto. L'incontro con il dottor Cervellati, unico dentista della zona, che lo conosce fin da bambino, sarà decisivo per lui. Oscuro e carismatico, Cervellati gli consegna infatti un misterioso racconto scritto dal padre del ragazzo di cui era il migliore amico... Un romanzo originale, una favola nera che racconta la continua, delirante, a tratti comica ricerca di una via di fuga dalla catastrofe ineluttabile che incombe sull'umanità.

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-32


Non ho più nemmeno da comprarmi un orsetto di liquirizia, tutte le tasche, tutti i cassetti sono stati raschiati. Non mi resta che drenare il conto dei miei genitori per un po’ di sostegno. È tutta roba mia, ormai, ma l’idea non mi piace. Esco di casa solo per questo, esattamente con questa intenzione: attraversare la strada e ficcarmi nella capsula aspettando che la voce sintetica mi chieda di posare il dito sull’infrarosso e di sistemare gli oggetti metallici nell’apposita sputacchiera.

Una volta uscito dal cancello mi accorgo che l’asfalto dimenticato del pezzo di strada prima dell’argine, come sempre quando piove, si è trasformato in un acquitrino e mi ci butto a piedi pari con le scarpe di tela: se appena si può, in banca, bisogna bagnare e sporcare, anche se di sopra c’è la moquette che assorbe e dà poca soddisfazione. La sequenza è la solita: saluto Otello, la guardia, entro nella capsula, esco, seguo il bancone coi vari sportelli, e all’ultimo cassiere chiedo del direttore: dott. Rivola, detto Banana. Malioso e lunatico, ma soprattutto sosia indiscusso di Elvis, Banana. Forse l’unico di tutta la comunità di Luz che valica gli argini per popolarità. Ogni sala da ballo di questa campagna giocattolo, ogni piazza, ogni malfermo piancito d’assi arrangiato per una festa conosce il suo pullman giallo, i suoi mantelli tempestati di pietre, le sue basette scampanate, folte come zerbini. In tournée ogni anno da quando non c’erano ancora i termosifoni in casa, Banana: uno spettacolo senza tempo. Ad attenderlo ogni volta, smanioso, un pubblico lourdesiano ma mai abbastanza vecchio, spesso miracolato dai suoi foulard madidi d’ormone, lanciati nell’indimenticabile finale. Ma il dott. Rivola oggi arriva più tardi, me lo dice una delle sue coriste che qui in banca cura il settore mutui.

“Se ha bisogno di contanti, però, non si preoccupi: trasferiamo provvisoriamente qualcosa dai conti dei suoi cari al suo, e poi regolarizziamo tutto appena arriva il dottore” mi dice la corista.

Ha ancora dei brillantini incorporati nel fondotinta di ieri notte e i piedi gonfi appoggiati sopra le scarpe da concerto, da cui si prendono una pausa come si deve. L’altro corista se n’è andato un mese fa. All’improvviso, durante una serata, gli è scoppiato un aneurisma in un polpaccio e, alla vista della gamba tutta rossa, gli è venuto un infarto. Hanno bloccato tutti i concerti per un mese e ripreso solo adesso, dopo averlo rimpiazzato con una guardia giurata che fa il trasporto valori, una bella voce.

Me ne vado, non riesco ad aspettare. E poi Banana preferisco vedermelo sul palco, con la camicia di seta bianca aperta fino al ventre e il colletto a battiscopa. In banca fa impressione, quando apre la porta del suo ufficio e percorre i soliti tre metri per venirti incontro sembra un tacchino costretto a fare l’uccelletto in un cucù. Con tutto quel grigio addosso, quelle cinture sobrie, lo sguardo castrato e il fare mercantile da contratto.

Esco rimbambito dai pensieri e da un piagnucolio di nuvole che mi si appiccica in faccia ma, mentre sto per rientrare, mi faccio attrarre da un tappo che galleggia sull’asfalto vicino al marciapiede, e comincio a calciarlo come si fa nel rugby. Cerco di mandarlo fuori dal margine della strada, il più lontano possibile, e intanto lo seguo. Per guadagnare spazio si fa, nel rugby, per avere meno campo da percorrere al momento dell’ultimo attacco. Una preparazione continua, ostinata, perché resti solo un passo, la spinta finale, devastante e irresistibile, al di là dell’ultima linea. È un esercizio che mi è sempre piaciuto, differire continuamente l’ultima battaglia con lunghi e ostinati rimandi, per poi, all’improvviso, piombare con un solo preciso colpo nel campo delle attese, e riprendere da quel punto con una rimessa in gioco decisiva e aleatoria. Così, di calcio in calcio alla fine si arriva in fondo, dove non si può più rimandare, né sbagliare. A quel parcheggio enorme, si arriva, dove mettendosi al centro, col sole in faccia, sembra di stare in un deserto con in lontananza gli argini che diventano dune; i lampioni ricurvi che si trasformano in palme; e le costruzioni sfocate in castelli tremuli e irreali. A quel parcheggio, sono arrivato calciando, quello del discount dietro la chiesa. Lavato e lucido d’acqua, oggi. Vuoto come sempre, ma poche volte così deserto e così infinito, un cranio d’asfalto glabro, con due sole auto posteggiate di fianco a un lampione, e tutto bordato di sabbia sporca e zuppa. A volte quel parcheggio lo sogno. Compare all’improvviso anche in mezzo ad altri sogni ed è totalmente coperto di cosce di pollo, attaccate le une alle altre, ordinate, sovrapposte, in numero così spropositato da poter sfamare una nazione. Il parcheggio delle cosce di pollo o il deserto delle cosce. Chissà perché l’hanno fatto così grande, Luz è un formicaio, a confronto, e tutti noi minuscoli insetti, solo il fiume regge la proporzione. La mia casa è una camera di quel formicaio, sotto il grande fiume e a un braccio d’asfalto dal deserto delle cosce.

Qui all’improvviso mi viene in mente che se questo è il giorno sì del dottor Cervellati, non c’è bisogno di soldi per fare le scorte. Vicino alle porte d’entrata del discount, appeso a un filo invisibile, fluttua in cielo il cartello sei per tre della promozione settimanale: un sagomatore per tagliare in casa le orecchie del cane, al fantastico prezzo di 16 euro a coppia (dx e sx) IVA inc. Questo è il paradiso di Cervellati: un luogo che già da fuori vuole convincerti che un fuori non esiste, che è solo illusione, che la vita vera è dentro... e allora entriamo. Con una riverenza lunga almeno dieci metri, le porte automatiche mi si spalancano in faccia per invitarmi civilmente a passare dal deserto al regno dei macroalimenti. Prendo un carrello gigante e mi metto a percorrere tutte le corsie con metodo, come se dovessi rasare un prato. Cervellati è là, elegantissimo, con la testa lievemente piegata in avanti e lo sguardo fisso al banco dei surgelati. Tiene le mani raccolte dietro la schiena e appoggiate a un bastone da passeggio bianco. Lo vedo di profilo. Indossa un completo color crema e un panama, è una montagna, e la giacca è una sindone su cui il sudore ha lasciato l’impronta dei polmoni. Ridacchia tra sé, immobile, ed è circondato da un alone di vuoto: la gente gli passa a distanza lasciandogli il possesso di tutto il reparto surgelati, come se emettesse raggi nocivi o incutesse uno stato di ossequiosa sottomissione. Mollo il carrello e mi avvicino piano mettendomi bene in vista come si fa con chi minaccia di buttarsi dal balcone. Man mano che arrivo a tiro, appaiono più evidenti le chiazzature di sudore stampate sul vestito. In generale riproducono la struttura corporea radiografabile, a eccezione di una doppia striatura ben visibile tra scapola e fianco, che non si capisce a cosa si riferisca. Nonostante la pioggia, qui dentro c’è un gran caldo, ma tutto quel sudore non è umano.

“Buongiorno dottore...”

Gli tendo la mano restando un po’ distante, e lui volta solo lievemente la faccia, resettando il sorriso. Sembra che mi stesse aspettando.

“Vieni dall’altra parte, Lucio.”

Mi tira per la mano facendomi girare dietro di lui.

“Coprimi il fianco sinistro e dimmi quando la cassiera là in fondo si alza per la pausa pranzo.”

Mi metto di guardia.

“Ecco, se ne va!” gli dico poco dopo.

C’è il tonfo di un portellone e un fruscio secco, ma quando mi volto, mi guarda serio come se niente fosse, con le mani sul bastone d’avorio. Di cambiato, in lui, non c’è proprio nulla. Mi fa segno di seguirlo ed entriamo nella corsia dei biscotti.

“C’è gente che non sa mai cosa comprare; tu lo sai, Lucio?”

“Mah, io veramente, dipende...”

“Certo, ma...”

Prende una scatola di biscotti e me la infila nella solita borsa che porto a tracolla.

“...cosa ti piace, lo sai cosa ti piace? E come ti piacerebbe essere?... Bisogna far presto a saperlo, devi aver fretta, coltivarla, la tua fretta...”

Accelera il passo, lo seguo, quasi correndo arriviamo davanti allo scaffale dei latticini. Controlla un attimo intorno, mi ficca un cartone di latte nella borsa e si china facendo finta di allacciarmi una scarpa, intanto mi inserisce due barattoli di yogurt nei calzini.

“Ognuno di noi ha in sé una persona che è la massima espressione delle proprie capacità, una forma compiuta, o divina, se vuoi. Ma molto spesso uno non riesce a vederla, in sé, questa persona, e a volte neppure a immaginarla...”

Il discount si è svuotato di quel misero traffico di carrelli che lo percorrevano prima dell’ora di pranzo. Come per incanto siamo rimasti solo io e il dottor Cervellati, incrociati e affiancati qua e là da qualche veloce addetto che, nella sua malinconica divisa color mela cotta, sembra pattinare sul pavimento lucidato a specchio. È più difficile, adesso, ma il dottore non sembra farci caso, col bastone segnala le direzioni da prendere, cercando i tragitti più rapidi e, di volta in volta, le corsie meno sorvegliate. Al banco della pasta mi piazza un sacchetto di riso dentro i pantaloni, dietro, sotto la cintura, e in quello del pesce mi mette in mano tre confezioni di salmone affumicato, poi mi dice:

“Adesso vai, passa il salmone alla cassiera bionda e sii naturale!”

Ho appiccicato addosso tutto il necessario per colazione pranzo e cena di qualche giorno, non so cosa abbia addosso Cervellati, ma il mio carico è ben più visibile perché il suo si disperde su un corpo in movimento che ha a che fare con un ammasso di detriti in continua...



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