Dutli | L'ultimo viaggio di Soutine | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 288 Seiten

Reihe: Intrecci

Dutli L'ultimo viaggio di Soutine


1. Auflage 2017
ISBN: 978-88-6243-342-6
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 288 Seiten

Reihe: Intrecci

ISBN: 978-88-6243-342-6
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



'Non si tratta di felicità o infelicità, ma di colore o non colore. Del bianco striato di blu e di rosso. Del verde veronese, del turchese, del rosso scarlatto e del colore del sangue. Si tratta della morte del colore, che è immortale, e della sua resurrezione.' Nell'estate del 1943, nascosto a bordo di un carro funebre, il pittore Chaim Soutine - afflitto fin dalla giovinezza da un'ulcera gastrica - attraversa la Francia occupata dai nazisti per essere operato d'urgenza a Parigi. Sotto l'effetto della morfina, sospeso tra sonno e veglia, Soutine ricorda la difficile infanzia nel villaggio di Smilovi?i, gli anni a Montparnasse e l'amicizia con Modigliani, gli stenti e l'improvviso successo. Ma la guerra mette bruscamente fine a tutto. Nel delirio provocatogli dal dolore e dal 'magico oppiaceo', il malato in viaggio verso la capitale francese immagina di raggiungere il paradiso bianco, dove il misterioso dottor Bog gli assicura la guarigione a patto che non dipinga mai più... Un romanzo suggestivo e dal ritmo incalzante, che apre continui momenti di riflessione sull'esperienza artistica e la tormentata personalità di Soutine.

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CHINON, 6 AGOSTO 1943


I due uomini chiudono le ali nere della portiera sul retro con un movimento brusco. Uno schiocco acuto che ricorda quello di un’arma, uno scatto secco nella serratura in attesa. Una scossa percorre l’automobile, le colombe sussultano e in preda al panico si alzano in volo sopra il tetto dell’ospedale, verso l’azzurro. È come se una breve risata s’insinuasse nel catafalco nero. Probabilmente appartiene al più anziano; il ragazzo con la sciarpa intorno al collo, che come il paese occupato ha preso freddo in pieno agosto, non si sarebbe mai permesso. No, il pittore avrà sentito male. Non poteva trattarsi di una risata. Il primo giorno di lavoro il capo raccomanda ai dipendenti che nel loro mestiere non si scherza sui morti: dignità silenziosa e sobria pietà sono le parole d’ordine. Lo si deve a coloro che restano e alla buona reputazione della ditta.

Eppure quel magnifico giorno di agosto tutto è diverso. L’uomo che devono portare a Parigi con il carro funebre, una Citroën nera modello Corbillard, è un morto vivente. L’automobile ha già scortato molte salme all’ultima dimora, vecchie e giovani. È il loro grosso animale silenzioso, che custodiscono con cura. Dopo ogni utilizzo va pulito con la spugna e sfregato con la pelle di daino. A controllare è il capo in persona, ed è impietoso. Un carro funebre sporco è inconcepibile, la ditta tiene molto alla pulizia più accurata, anche in tempo di guerra. Gli autisti non hanno mai trasportato un cadavere vivo prima d’ora.

Pare che sia un pittore, un medico lo ha accennato di sfuggita in corridoio. Devono portarlo a Parigi per l’operazione, non si può fare altrimenti, è il volere degli angeli. Ma come farsi beffe degli occupanti, del gigantesco occhio corazzato che vuole sorvegliare ogni passo? Un breve suono metallico, come se la portiera scoppiasse in una risata dolorosa, strozzata. Come lo scatto di un’arma. L’odore dei tigli stordisce. Ci sono tigli vicino alla clinica? Forse è solo l’acido fenico che il pittore si porta addosso sul camicione stropicciato, l’aroma dell’operazione.

Il pittore mormora tra sé e sé, sembra rivolgersi a qualcuno, sulle sue labbra ronzano parole di supplica, ma i due becchini non lo capiscono, parla troppo piano, e i suoni della sua lingua sono loro sconosciuti.

Venite dalla società di sepoltura... avete portato il sargenes... Chevra Kadisha... bisogna sbattere un uovo nell’acqua... il nuovo cadavere va lavato con la vita... se non è troppo tardi... viene da solo... non dimenticare l’uovo... va messo nell’acqua... l’uovo fiorisce nell’acqua...

I due becchini si guardano con aria interrogativa e lo fanno scivolare sulla barella di metallo nella pancia del carro funebre. È il 6 agosto 1943. È estate e c’è la guerra. È un paese occupato, quello. Sanno cosa accadrebbe se capitassero tra le grinfie degli occupanti. I due becchini, l’anziano robusto e il ragazzo con la tosse, potevano essere membri della Resistenza sotto mentite spoglie, sabotatori che trasportavano la loro attrezzatura dentro il carro funebre. In un attimo raggiungono il terrapieno della ferrovia, eccoli sui fasci delle rotaie, un paio di manovre esperte e i binari volano in cielo.

Devono tenersi alla larga dai posti di controllo sulle grandi strade d’accesso. All’improvviso, mentre già si avviavano verso l’uscita, un medico esile e senza nome uscì da una stanza che dava sul corridoio, abbassò lo sguardo e, pieno d’imbarazzo, mise loro in mano una mappa gialla con sopra l’omino azzurro della Michelin. Lo chiamavano Bibendum, l’omino che cammina sorridente con il torso, le braccia e le gambe fatti di pneumatici. A volte si aggirava tra i sogni del pittore con occhi maligni e minacciosi. Se il carico vivente venisse scoperto anche i becchini diventerebbero cadaveri. I passeggeri di un carro funebre devono essere morti, nient’altro. Nessuno crederebbe alla scusa che il pittore sia morto solo in apparenza e, con loro grande stupore, appena resuscitato. Alcuni punti sono leggermente sottolineati a matita.

E i neri individui con il simbolo gamma? Hanno già iniziato a sciamare a nord, oltre la linea di demarcazione? È dal gennaio del ’43 che le milizie di Darnand sono entrate in azione. Cercano membri della Resistenza e disertori del Service du travail obligatoire. Il lavoro obbligatorio è pur sempre lavoro obbligatorio. I contrabbandieri non hanno rispetto per alcun veicolo, nemmeno per un corvo nero. I loro trucchi dimostrano una spudorata ingegnosità. Ma dove sono i grossi pezzi di lardo, il cognac, il ragù di coniglio in conserva tinto di viola dal vino rosso?

Colombe si alzano in volo al rallentatore, mormorii, tigli all’acido fenico, un odore irrequieto, dolce e tagliente.

Il 31 luglio un’ambulanza lo aveva portato in ospedale. Gli ultimi giorni del mese erano stati terribili, dipingere neanche a pensarci, il dolore alla parte superiore del ventre era diventato troppo penetrante, non gli dava più tregua, tregua che in passato gli aveva concesso pietosamente, e con imprevedibile leggerezza. Sono qui, me ne vado per un attimo, ma poi torno. Abbi pazienza, torno subito, conta su di me. Non credere che me ne starò via a lungo. Non credere più che io scompaia. Non ti lascio più.

Ma-Be, mi senti, sei ancora lì? Non riesco a vederti.

Il pittore ha gli occhi chiusi, avverte la fatica di guardare attraverso le palpebre. Non riesce ad aprirle.

Al mattino giaceva febbricitante sul materasso, si rivoltava come un animale ferito, balbettava parole incomprensibili. Non più il francese che aveva appreso, quello sembrava cancellato; solo brandelli di parole che Marie-Berthe non capiva. Lei lo considerò un brutto segno, si mise a camminare avanti e indietro come una tigre in gabbia.

Il pittore si rigira gemendo sul materasso, da una parte all’altra. Nessuna posizione gli dà sollievo. Il padrone di casa, monsieur Gérard, porta un impacco caldo di farina di senape, lo tiene solennemente davanti a sé come un prete e, ispirandosi alle parole del curato di paese durante la messa domenicale, dice con tono grave: Prenez ce cataplasme. Sua moglie di queste cose se ne intendeva, per ogni occasione aveva l’impacco giusto a portata di mano. Alle orecchie del pittore, che dal suo arrivo a Parigi trent’anni prima si sono abituate a fatica e con esitazione a quella lingua nasale, così diversa dai suoni melodiosi della sua infanzia a Smilovici e dagli ingombranti pezzi di russo tartaro, la parola cataplasme suona solo come “catastrofe”. Senza aprir bocca Marie-Berthe lo prende dalle mani del padrone di casa e lo appoggia sulla pancia del pittore.

Il malato si contorce nel suo letto, intorno al collo ha la piccola pia croce che gli ha messo Ma-Be. In quel mese di luglio lei aveva pregato con ostinazione, da tempo aveva ormai ritrovato la sua cara vecchia fede francese, la rabbia nei confronti della marmaglia di pittori di Montparnasse le era stata d’aiuto. Cristo gli penzola al collo, il Messia è arrivato, che ponga fine lui a questo dolore selvaggio.

Il Signore ti aiuterà, devi solo credergli fermamente, Chaim, continuava a balbettare Marie-Berthe. È morto in croce per te. Sei già redento.

Il pittore non capisce più nulla, il dolore è l’unica cosa che conosce.

Sta’ sdraiato, lascia che l’impacco faccia effetto, ti farà bene.

No, devo... andare all’atelier... devo... non c’è nient’altro... prima che arrivino... lo sai...

Nessuno può fermarlo. Ma-Be e i suoi rimproveri, le sue minacce sono inutili, lui deve farlo. Non vuole che lo accompagni, rifiuta con un gesto brusco. In queste cose è sempre stato solo. Si trascina verso l’atelier, in quella casetta all’ingresso del Parco Grande, lungo la strada che porta a Pouant. Vuole dare un’occhiata anche alla minuscola stanza di monsieur Crochard, il falegname e sindaco di Champigny, anche lì dovrebbero esserci delle tele. Mezzo paralizzato dal dolore, si alza di scatto con un mugolio cagnesco che ormai gli è familiare, la mano premuta sullo stomaco. Resta ancora una cosa da fare, la più importante di tutte.

Ecco i fiammiferi, con gesti rapidi accartoccia un paio di giornali e li getta nel camino, dove in questo caldo giorno di luglio giace ancora la cenere dell’ultima volta che la furia distruttrice si è impossessata di lui. Poi con foga arraffa le tele, le degna appena di un’occhiata furiosa e via, sono già all’inferno. Come se fosse tutta colpa loro, loro la colpa di questa disgrazia che negli ultimi mesi non voleva saperne di finire. Anzi no, dall’inizio della guerra, da quell’inaudito tre settembre 1939, di cui pure avevano avuto un presentimento. All’epoca lui e mademoiselle Garde si trovavano a Civry, un paesino della Borgogna. Vennero a sapere che la Francia era entrata in guerra, e il sindaco vietò loro, due insoliti stranieri dal sospetto accento tedesco e slavo, la partenza “fino a nuovo ordine”. Erano bloccati. Magdeburgo, Smilovici. Luoghi di nascita sospetti.

Il vecchio rituale (afferrare con furia le tele, bruciarle alla cieca) recava a volte un sollievo piccolo, maligno; persino il dolore al ventre, ipocrita com’era, sembrava cessare apposta, oppure si lasciava stordire dal fuoco. Era un fuoco estivo che puzzava di trementina, l’esecuzione di un atto sempre uguale, ripetuto fin dagli anni trascorsi nei Pirenei.

Ogni volta sente la voce del commerciante Zborowski, morto ormai da più di dieci anni, risuonargli inorridita nelle orecchie:

No! Smettila una buona volta! Ti stai uccidendo!

E ogni volta rispondeva con una...



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