Ellis | Che ansia! | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 249 Seiten

Reihe: Capire con il cuore

Ellis Che ansia!

Come controllarla prima che lei controlli te
1. Auflage 2017
ISBN: 978-88-590-1474-4
Verlag: Edizioni Centro Studi Erickson
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Come controllarla prima che lei controlli te

E-Book, Italienisch, 249 Seiten

Reihe: Capire con il cuore

ISBN: 978-88-590-1474-4
Verlag: Edizioni Centro Studi Erickson
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



DAL PADRE DELLA TERAPIA COMPORTAMENTALE-RAZIONALE-EMOTIVA, LA SOLUZIONE PER GESTIRE L'ANSIA Controllare l'ansia prima che prenda il sopravvento e che sia lei a controllare te? È possibile, grazie ai preziosi suggerimenti di Albert Ellis. Partendo dal presupposto che il male che causa le nostre ansie è da ricercarsi esclusivamente nelle aspettative irrealistiche che abbiamo su noi stessi, questo libro presenta un programma per imparare a tenere sotto controllo gli stati ansiosi e a sfruttare positivamente l'energia che possiamo trarne. La base è fornita dalla celebre terapia comportamentale-razionale-emotiva (REBT), di cui Albert Ellis è il padre. In queste pagine il famoso psicologo propone un percorso di autoaiuto di comprovata efficacia: attraverso la presentazione di numerosi casi seguiti direttamente dall'autore (esempi di ansia da prestazione, insicurezza, disfunzioni sessuali, ansia sociale), esercizi, suggerimenti di facile applicazione e trucchi da sfruttare tutti i giorni, il lettore imparerà finalmente ad abbassare il livello di ansia nella vita sociale e privata, ritrovando serenità e successo. La traduzione dell'opera è stata realizzata grazie al contributo del SEPS: Segretariato Europeo per le Pubblicazioni Scientifiche

Nato a Pittsburgh e cresciuto a New York, conseguì il diploma al City College di New York e il PhD in psicologia clinica alla Columbia Universty. Dopo essere stato Associate e quindi Distinguished Professor in numerose Università, fu particolarmente attivo come psicologo clinico e come psicoanalista fondando un originale approccio psicoterapeutico, la RET (Rational-Emotive Therapy) negli anni Cinquanta. Da allora, oltre a dirigere l'Istituto RET, è stato membro di importanti associazioni scientifiche e ha collaborato alle più prestigiose riviste di psicologia. Ha scritto molti libri alcuni dei quali hanno superato il milione di copie.
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Capitolo primo


Perché sono convinto che puoi controllare l’ansia prima che l’ansia controlli te


Fino all’età di diciannove anni sono stato una persona estremamente ansiosa. Anzi, credo che quella di farmi prendere dall’ansia fosse una tendenza innata in me. Anche mia madre era così: pur essendo una persona generalmente allegra, si faceva prendere dall’ansia per le piccole cose, ad esempio il denaro. Durante la mia infanzia e giovinezza, economicamente lei non si trovò mai in stato di bisogno. Ci fu un periodo in cui mio padre, che era un bravo venditore e promotore finanziario, aveva avuto letteralmente per le mani milioni di dollari... e negli anni Venti erano davvero molti soldi. Eppure per lei le spese erano sempre una preoccupazione, e quando mio padre lasciava a un cameriere una mancia di cinquanta dollari, di nascosto lei se li riprendeva e li sostituiva con una mancia decisamente più contenuta. Depositava i risparmi in un conto separato, sul quale aveva accumulato migliaia di dollari. Eppure si preoccupava sempre che potessero non bastare.

Nel frattempo mio padre perse il suo primo milione sul mercato azionario, ma era sulla buona strada per guadagnarne un secondo, e finanziariamente la famiglia stava senz’altro bene, eppure mia madre non cessava di preoccuparsi per i soldi — oltre che per varie altre cose di poco conto — e continuava a risparmiare e risparmiare. Non aveva del tutto torto, visto che nel 1929 mio padre perse il suo secondo milione e non riuscì a passarle tutti i soldi che normalmente le dava per le spese. Ma superammo la Grande depressione senza problemi, perché io, mio fratello e mia sorella iniziammo a lavorare e a contribuire al bilancio familiare. Ciononostante, mia madre si preoccupava incessantemente, finché morì all’età di novantatré anni con ancora tutti i suoi risparmi.

Probabilmente penserai che sia stata lei a trasmettermi la tendenza a preoccuparmi, ma non credo che sia un’affermazione corretta. Anche mio fratello, che era più giovane di me di diciannove mesi, è stato educato nel mio stesso ambiente, e al contrario di me era di una noncuranza quasi patologica. Non disdegnava i rischi e faceva ogni sorta di cose «pericolose», apparentemente senza mai preoccuparsi dei risultati. Se tutto andava bene, tanto meglio, e se anche qualcosa andava storto non se ne faceva mai una colpa. Passava semplicemente ad altre iniziative e altri rischi, sia nel lavoro che nella vita sociale. E in effetti ebbe molto successo, proprio perché non si lasciava intimorire quasi da nulla.

Per me era l’opposto! Avevo timore di qualunque tipo di imprevisto. Da bambino, e poi da adolescente, ero decisamente timido, esitante e conformista, ed era rarissimo che mi assumessi dei rischi. In particolare, avevo una paura folle di parlare in pubblico: era una vera e propria fobia. Ero piuttosto brillante e talentuoso e venivo interpellato spesso davanti alla classe, magari quando veniva sollevata una domanda difficile e l’insegnante sapeva che io avrei saputo rispondere. Eppure la maggior parte delle volte mi trattenevo, e lo facevo volontariamente, e in particolare mi tiravo indietro quando c’era da aprire bocca in pubblico.

Ti farò un esempio tipico. Ero molto bravo nell’ortografia, probabilmente il più bravo della classe, ma evitavo di partecipare alle gare di ortografia perché avevo paura di sbagliare (anche se non succedeva praticamente mai) e di sentirmi ridicolizzato. Quando l’insegnante mi obbligava a partecipare, battevo quasi sempre tutti gli altri bambini e alla fine vincevo, ma nel frattempo mi sentivo estremamente ansioso, e non mi godevo affatto la gara. L’unica cosa che mi piaceva era vincere, ma era un piacere brevissimo.

Un altro esempio. Di tanto in tanto ci facevano imparare a memoria una poesiola, che dovevamo recitare davanti alla classe il giorno dopo. Mi prendeva l’ansia di poter iniziare a farfugliare e balbettare durante l’esposizione, anche se in realtà avevo una memoria ottima. L’idea di recitare la poesia in pubblico mi terrorizzava. Così, la mattina del giorno in cui avrei dovuto recitare la poesia davanti alla classe mi facevo venire un mal di testa lancinante e mettevo il termometro vicino al calorifero per convincere mia madre che avevo la febbre, e lei mi lasciava a casa. Perché mai andare a scuola? Per recitare male la poesia e far vedere ai compagni e all’insegnante quanto ero ansioso? Giammai!

Una volta, quando avevo circa undici anni, vinsi una medaglia alla scuola domenicale, e all’ora dell’assemblea mi chiamarono sul palco per consegnarmela: non dovevo fare altro che farmi dare la medaglia e ringraziare il presidente della scuola. Andai, presi la medaglia e ringraziai il presidente, ma quando tornai a sedermi un mio amico mi disse: «Perché stai piangendo?». Ero talmente ansioso di apparire in pubblico che i miei occhi lacrimavano copiosamente, e sembrava che stessi piangendo.

Come se non bastasse, avevo un’estrema ansia sociale: quando conoscevo persone nuove, quando parlavo con figure autoritarie e soprattutto quando incontravo nuove ragazze. Le donne erano il mio interesse principale fin dall’età di cinque anni e mezzo, quando avevo perso completamente la testa per un’affascinante vicina. Dopo che lei scomparve dalla mia vita, io continuai a innamorarmi con passione, praticamente ogni anno, di quella che di volta in volta era la ragazza più carina della classe. Sì, con passione: era un vero attaccamento ossessivo-compulsivo. Ma per quanto io adorassi queste ragazze, e per quanto ininterrottamente sognassi l’intimità con loro — davvero ininterrottamente, per ore e ore — non rivolgevo mai loro la parola, e nemmeno provai mai ad avvicinarmi. Timidamente, paurosamente, me ne stavo a distanza, e mi limitavo a guardarle anelante senza nessun contatto verbale. Avevo il terrore mortale che se mi fossi avvicinato e avessi cercato di fare amicizia, loro avrebbero notato i miei difetti, mi avrebbero respinto all’istante e mi avrebbero fatto sentire insopportabilmente misero. Forse, se fossi davvero stato rifiutato, non sarei esattamente sprofondato sottoterra ma — per come mi immaginavo la scena — poco ci mancava!

Anche in adolescenza, fino all’età di diciannove anni, non feci mai delle vere avances a nessuna delle donne da cui ero attratto. Con una frequenza di circa duecento giorni all’anno, mi recavo al Giardino botanico del Bronx, un luogo molto bello vicino a casa mia, e mi sedevo su una panchina o sull’erba per leggere uno dei miei tanti libri e per osservare le donne attraenti (di ogni età) e corteggiarle. Ma non mi avvicinavo mai a loro, e non dicevo neanche una parola. La situazione tipica era che mi sedevo su una panchina di pietra sul lungofiume, e una ragazza o una donna si sedeva su un’altra panchina, a circa tre metri da me. Io immediatamente la guardavo (a quell’età mi interessavano tutte le donne: sì, più o meno cento su cento) e a volte lei restituiva lo sguardo. Io continuavo a lanciarle occhiate di nascosto, con il chiaro intento di corteggiarla, e spesso lei ricambiava le attenzioni. Senza dubbio alcune di quelle donne erano interessate, e presumibilmente sarebbero state ricettive se mi fossi avvicinato e avessi parlato con loro.

E invece no! Mi tiravo sempre indietro. Mi giustificavo verso me stesso con un milione di scuse: era troppo alta o troppo bassa, troppo vecchia o troppo giovane, troppo intelligente o troppo stupida. Razionalizzavo in ogni modo possibile. Insomma, non parlai mai neanche a una di loro, nemmeno a quelle che si mostravano interessate o presumibilmente ricettive. Infine, quando finalmente l’oggetto della mia passione si alzava per andarsene, o quando ero io a dover andar via, maledicevo la mia stupidità per non essermi avvicinato, per non aver corso il rischio. Mi rimproveravo severamente per essermi tirato indietro, e mi ripromettevo di provarci — di provarci davvero — la prossima volta. Ma non lo feci mai.

Come ho superato l’ansia di parlare in pubblico


Poi, all’età di diciannove anni, presi la decisione di superare le mie ansie. Per prima cosa, decisi di liberarmi della paura di parlare in pubblico. A quell’epoca, frequentavo attivamente un’organizzazione politica, un gruppo liberale in cui ero addirittura il capo della sezione giovanile. Non era che una piccola associazione, e quasi tutti i ragazzi erano miei amici, quindi non mi facevo troppi problemi a parlare davanti a otto-dieci persone alla volta. Non la consideravo come un’esibizione in pubblico. Il problema era che teoricamente avrei dovuto anche parlare con altre organizzazioni e gruppi, per reclamizzare il mio gruppo e cercare di coinvolgere altre persone. Tra l’altro, dato che ero il capo della sezione giovanile, era mio compito assumere il ruolo di promotore della mia organizzazione. Ma avevo troppa paura per farlo, così rifiutai diversi inviti volti a rivestire questo ruolo: inviti che principalmente mi giungevano dalla sezione degli adulti, New America, da cui dipendeva la sezione giovanile Young America. Come al solito, mi tiravo indietro.

La pressione di dover tenere dei discorsi pubblici per Young America non cessò, e alla fine decisi di accettare e liberarmi una volta per tutte di questa fobia del parlare in pubblico. In precedenza avevo letto molti testi di filosofia e psicologia, e fra i miei obiettivi c’era quello di scrivere, un giorno, un libro sulla psicologia della felicità umana, che mi stava particolarmente a cuore (a causa della mia ansia).

Dunque mi ero già fatto un’idea, in base alle conoscenze dell’epoca (1932), su come affrontare le ansie e le fobie. Avevo letto le parole di alcuni grandi filosofi — come Confucio e Gautama Buddha...



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