E-Book, Italienisch, 269 Seiten
Fisher Schermi, sogni e spettri
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-3389-262-7
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Cinema e televisione. K-punk/2
E-Book, Italienisch, 269 Seiten
ISBN: 978-88-3389-262-7
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Schermi, sogni e spettri, il secondo dei volumi che minimum fax dedica agli scritti di Mark Fisher apparsi sul suo leggendario blog k-punk e su diversi giornali e riviste, comprende le sue riflessioni sul cinema e la televisione. Fisher è uno spettatore appassionato e curioso, senza pregiudizi ma con un occhio radicale, che analizza con uguale impegno e passione i film che hanno inciso in profondità sull'immaginario contemporaneo (Avatar, I figli degli uomini, V per Vendetta, Hunger Games, Batman) e le serie tv più innovative e inquietanti (Breaking Bad, The Leftovers, Westworld), ma anche il reality, documentari, talk show politici. A interventi d'occasione, ma mai occasionali nel giudizio e nella scrittura, si affiancano scritti su classici come la leggendaria serie inglese Il prigioniero, Shining o la saga di Guerre Stellari (che, precisa Fisher, si «svenduta» fin dall'inizio). Fisher affronta così maestri del passato e contemporanei, da Kubrick a Chris Marker, da Cronenberg a Nolan, e li inserisce in un fitto dialogo intellettuale con Marx, Freud, Lacan, Foucault, ?i?ek e scrittori come Philip K. Dick e Richard Matheson, tra inedite interpretazioni del passato e profetiche visioni sul futuro. La critica cinematografica è sempre anche critica dell'ideologia, e con l'originalità di pensiero e sguardo che lo contraddistingue in ogni suo intervento, Fisher prosegue anche qui il suo lungo confronto con il presente troppo reale del «realismo capitalista» e con gli spettri dell'utopia e della distopia.
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BASTA UN POCO DI ZUCCHERO8
L’aspetto più triste dell’accondiscendenza e dell’autocompiacimento degli ultimi lavori di Dennis Potter ( e ) è che hanno fatto nascere dubbi su ciò che l’autore aveva realizzato in precedenza. Era davvero il grande drammaturgo che avevamo sempre creduto?
In effetti si può dire che del 1986 abbia segnato il culmine nella carriera di Potter, seguito da un lento e doloroso declino. E non è eccessivo affermare che la produzione successiva al 1986 è stata caratterizzata dalla reiterazione di formule () o da un vacuo sperimentalismo tortuoso e introspettivo (, il film ). Alla sua morte, nel 1994, Potter era ormai celebrato da tutti quelli che contavano e la sua fama di personaggio controverso era stata completamente dimenticata (o perdonata?). La famosa intervista/agiografia di Melvyn Bragg lo aveva trasfigurato in un inattaccabile santo morfinomane. Tutte queste solennità hanno avuto l’effetto di devitalizzare l’opera di Potter, avviluppandola prima del tempo nelle ragnatele della rispettabilità e della riverenza.
Be’, ho avuto l’occasione di rivedere di recente , il capolavoro realizzato da Potter nel 1976. (L’opera uscirà a breve in dvd in un cofanetto imperdibile che comprende anche , e .) Oggi che il dramma televisivo appare ormai completamente aziendalizzato, disciplinato dalle commissioni e omologato al ribasso, Potter emerge più che mai come un’anomalia. Nel 2004 è quasi impossibile identificare i drammi televisivi in base a chi li ha scritti, perché sono di regola pensati come espressione degli attori e non degli autori. L’opera di Potter, al contrario, portava anche nei casi peggiori una firma inconfondibile contrassegnata da una VISIONE unica. (La tendenza di Potter a riprendere meccanicamente quegli elementi è stata una delle debolezze degli ultimi lavori.) È difficile immaginare come il suo personale catalogo di ossessioni e tecniche (il giocoso antinaturalismo, le irrequiete disquisizioni su sessualità, politica e religione, l’affettuosa esplorazione dell’appeal della musica pop e dei generi pulp, l’esemplificazione/analisi della misoginia) avrebbero potuto superare lo scoglio dei controllori della cultura del nuovo millennio (che oggi saranno magari anche più tolleranti riguardo alla rappresentazione del sesso, ma sotto ogni altro aspetto mostrano un atteggiamento più censorio dei loro colleghi degli anni Settanta). Come sottolineava un articolo pubblicato dall’ dopo l’uscita della versione cinematografica americana di , è probabile che l’influenza di Potter si sia manifestata in modo più marcato nella tv americana che in quella britannica: per esempio in drammi espressionisti come , e persino nelle deliranti fughe dal naturalismo di serie come .
Sia come sia, il suo si è effettivamente scontrato con le suscettibilità ufficiali degli anni Settanta. Filmato nel marzo 1976, il lavoro doveva essere trasmesso ad aprile nell’ambito del programma , ma fu ritirato all’ultimo momento dai dirigenti della BBC intimoriti dal suo carattere «nauseante». Restò negli archivi per oltre un decennio, poi, sull’onda del successo di , fu alla fine trasmesso nel 1987. Nel 1982 Richard Loncraine ne realizzò una mediocre versione cinematografica interpretata da Sting.9
presenta un giovane Michael Kitchen nei panni del demonio. Il dramma riecheggia i precedenti di Potter, in cui un visitatore sconosciuto irrompe sconvolgendo l’ordine delle cose. Martin, il personaggio interpretato da Kitchen, si insinua nella vita e nella casa di due coniugi leggendo le loro menti come un ipnotizzatore da circo.
La visione del male di Potter è agli antipodi delle tetraggini da bava alla bocca o degli istrionismi alla Al Pacino cui ci hanno abituato tanti cliché cinematografici. Il diavolo di Kitchen è un uomo educatissimo, gentile fino alla nausea e devoto oltre misura. «Devoto» è un termine che Potter usava con particolare disprezzo, contrapponendo la bigotta alterigia del termine a quella che era secondo lui l’autentica sensibilità religiosa.
Il dramma si apre con due citazioni. La prima proviene da di Kierkegaard: «C’è infinitamente più bene in un demoniaco che in esseri volgari». La seconda è tratta da : «Basta un poco di zucchero e la pillola va giù». Secondo Kierkegaard il maggiore pericolo per la cristianità non è rappresentato dal dubbio, ma da quelle false certezze propagate da filosofi ampollosi come Hegel. La Fede di Kierkegaard è indistinguibile da un’ansia tormentosa. Il paradosso della Fede consiste per lui nel fatto che, se Dio rivelasse completamente se stesso, la Fede diventerebbe inutile. La Fede di Kierkegaard non è una forma di conoscenza, al contrario. I modelli del filosofo danese sono Abramo nel giorno in cui Dio gli chiede di sacrificare il figlio Isacco e i discepoli di Gesù: tormentati dal dubbio, svincolati da qualsiasi ancoraggio etico della società, costretti a puntare tutta la loro esistenza su enormi incertezze.
Martin è un doppio aberrante di Johnny Rotten, l’icona più iconica del 1976, la demoniaca valvola di sfogo della banalità e della mediocrità. Il nietzscheanesimo di Rotten («») nascondeva un nucleo incandescente di rettitudine, mentre il fascino esteriore di Martin dissimula malignità. Però tanto Rotten quanto Martin in fondo rivelano la profonda complicità esistente tra «bene» e «male», la loro reciproca interdipendenza. Sia Martin che Rotten sono essenzialmente dei liberatori, distruttori di fragili status quo, portatori di squilibrio e agenti del caos. Il punk incanalava il suo massimo disgusto contro il banale e il mediocre, contro la morte esistenziale della . La decadenza sarebbe stata mondata dalla rabbia ( l’apoplettico Colin Blakeley in , la versione della vita di Cristo realizzata da Potter nel 1969).
si apre con Martin che abborda per strada il personaggio di Mr. Bates, interpretato da Denholm Elliott. Grazie alla conversazione Martin scopre rapidamente che Bates ha una figlia, Pattie, che soffre di un danno neurologico apparentemente incurabile dopo essere stata investita da un’auto due anni prima. Fingendo un’ammirazione segreta per Pattie, Martin si insinua nell’abitazione dei Bates. L’edificio in cui vivono è una fortezza di periferia in cui si nascondono muta angoscia, frustrazione, tradimenti innominabili. Si percepisce quasi l’odore della casa, saturo del tanfo stantio di stanze mai arieggiate, del cibo in pappa somministrato col cucchiaino a Pattie e della disperazione. L’arrivo di Martin è all’inizio accolto con sospetto e circospezione dal signor Bates, ma risulta ben accetto all’ingenua signora Bates (Patricia Lawrence), una donna disperata in cerca di vie d’uscita dalla routine opprimente che la tiene prigioniera. Mentre il signor Bates ha rinunciato a ogni speranza, sua moglie culla ancora il sogno di una miracolosa guarigione della figlia.
La recitazione di Kitchen è superba, ma l’attenzione finisce per concentrarsi soprattutto sull’attore che impersona Bates. Elliott riesce nell’impresa di suscitare una dolorosa simpatia nei confronti dello sgradevole e sgarbato signor Bates, sostenitore del National Front. La scena in cui Bates allieta Martin e sua moglie con una barzelletta sugli irlandesi che non fa ridere nessuno è davvero straziante. Elliott rende la tipica espressione di Bates con una smorfia che è un misto di irritazione, rabbia soffocata, sconcerto. È l’espressione di tutta una classe sociale, di una generazione incredula di fronte al fatto che il mondo non le appartiene più, ammesso che le sia mai appartenuto. La patologia politica di Bates affonda le radici in una perplessa e malintesa nostalgia, in un desiderio confuso e inarticolato che il mondo torni com’era. Un po’ quello che succederà vent’anni dopo all’appassionato medio di britpop.
Potter raggiunge qui il vertice della sua sottigliezza, rivelando la contiguità tra le proposte politiche rispettabili e di «buon senso» alla e i programmi dell’estrema destra. L’autore individua il nucleo dell’anglofascismo degli anni Settanta tra i prati perfettamente rasati e le siepi di ligustro dei sobborghi metropolitani. Martin riesce a conquistarsi la simpatia di Bates concordando con lui sul fatto che «dobbiamo liberarci dei neri». «È bello poter tenere una conversazione così profonda», dichiara entusiasta Bates mentre stappa una bottiglia di whisky. Poi l’allegra descrizione di Martin su ciò che succederà se «quelli non se ne vanno» («Li andremo a prendere e li rinchiuderemo nei campi») fa impallidire Bates. Sua moglie non è troppo convinta. «A volte sei troppo buono, sai?»
è sconcertante e moralmente opaco. Risulta sconvolgente per ragioni del tutto diverse da quelle del conservatorismo culturale e politico. L’epilogo vede lo scioccante stupro di Pattie da parte di Martin produrre un’inattesa guarigione, che a sua volta conduce a un’altra scioccante rivelazione (di cui non dirò nulla per non guastare la sorpresa di chi...