Fitzgerald | Tenera è la notte | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 473 Seiten

Fitzgerald Tenera è la notte


1. Auflage 2013
ISBN: 978-88-7521-497-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 473 Seiten

ISBN: 978-88-7521-497-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
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Tenera è la notte, pubblicato nel 1934, è l'ultimo grande romanzo di Fitzgerald e quello che tra tutti gli altri rappresenta «il romanzo della sua vita». Protagonista è Dick Diver, esponente di spicco di un jet set composto da espatriati americani, che si spostano dalla villeggiatura invernale a Saint Moritz a quella estiva sulla Costa Azzurra. Dick è diviso fra la straziante storia d'amore con la moglie Nicole - bella e ricchissima ma affetta da gravi disturbi mentali - e la passione per l'innocenza di Rosemary, giovane promessa di Hollywood. Il risultato è il ritratto di un'epoca romantica che volge ineluttabilmente al tramonto; un libro struggente sul desiderio di vivere e sulla sconfitta delle proprie aspirazioni. Oggi Tenera è la notte torna in una nuova traduzione di Vincenzo Latronico, autore dei romanzi Ginnastica e rivoluzionee La cospirazione delle colombe, completato da una prefazione storico-critica dell'americanista Sara Antonelli e una postfazione del traduttore.

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1.


Sull’amabile costa della Riviera francese, a metà strada circa fra Marsiglia e il confine italiano, si trova un albergo grande, imponente e color rosa. Un palmizio s’inchina a rinfrescarne la facciata arrossata, mentre di fronte a esso si stende una spiaggia stretta e luminosa. Negli ultimi tempi è divenuto il ritrovo estivo di gente importante, alla moda; dieci anni fa restava praticamente deserto non appena la clientela inglese si spostava a nord, ad aprile. Ora gli si sono raggruppati attorno diversi bungalow, ma al principio di questa storia solo le cupole di una dozzina di vecchie ville marcivano come ninfee nella fitta pineta che separava l’Hôtel des Étrangers di Gausse da Cannes, otto chilometri più in là.

L’albergo e la sua stuoia di spiaggia bruna e lucente erano una cosa sola. Di prima mattina l’immagine distante di Cannes, il rosa e crema delle vecchie fortificazioni, le Alpi purpuree che cingevano l’Italia si proiettavano nell’acqua e giacevano tremolanti fra le increspature e gli anelli affiorati dalle secche trasparenti per effetto delle piante marine. Prima delle otto in spiaggia scendeva sempre un uomo con l’accappatoio blu, che, dopo vistose abluzioni preliminari di acqua fredda e molti sospiri e grugniti, sguazzava in mare per un minuto. Quando se ne andava, spiaggia e baia restavano placide per un’ora. I mercantili strisciavano all’orizzonte verso ovest; i factotum dell’albergo gridavano nel cortile; la rugiada svaporava sui pini. Tempo un’ora e i clacson delle automobili prendevano a risuonare fra i tornanti della strada che seguiva il basso massiccio dei Maures, che divide il litorale dalla Provenza vera e propria.

A un paio di chilometri dalla costa, dove i pini cedono il passo ai pioppi polverosi, si trova una fermata ferroviaria isolata da cui, un mattino di giugno del 1925, una carrozza condusse una donna e sua figlia all’albergo di Gausse. Il volto della madre mostrava una grazia appena sbiadita, che di lì a poco sarebbe stata carezzata da un reticolo di venuzze; la sua espressione era al contempo tranquilla e gradevolmente attenta. Ma chiunque la stesse osservando passava subito alla figlia, che aveva incantevoli palmi rosati e le guance illuminate di una luce magnifica, come il rossore entusiasta di un bimbo rinfrescato dal bagno serale. La sua fronte elegante risaliva dolcemente sino all’attaccatura dei capelli, che la incorniciavano come uno stemma araldico, in un’esplosione di tirabaci, ricci e ghirigori oro e biondo cenere. Gli occhi erano accesi, grandi, chiari, umidi e brillanti, il colore sulle gote era vero e affiorava in superficie dal muscolo giovane e vigoroso del suo cuore. Il suo corpo aleggiava con delicatezza sull’ultimo confine dell’infanzia: aveva quasi diciott’anni, era quasi completa, ma ancora imperlata di rugiada.

Non appena mare e cielo apparvero sotto di loro in una sottile linea rovente la madre disse:

«Qualcosa mi dice che questo posto non ci piacerà».

«Comunque sia, voglio andare a casa», rispose la ragazza.

Avevano un tono allegro, ma erano chiaramente senza destinazione, e annoiate da ciò – anche perché una destinazione qualunque non sarebbe andata davvero bene. Volevano emozioni forti, non per il bisogno di stimolare i nervi logorati, piuttosto con l’avidità del primo della classe che si è meritato una vacanza.

«Restiamo tre giorni e poi torniamo a casa. Scriverò subito di trovarci i biglietti per il traghetto».

In albergo, la ragazza prenotò in un francese idiomatico ma piuttosto piatto, come una cosa imparata a memoria. Quando si furono sistemate al pianterreno, attraversò la luce abbagliante della portafinestra e azzardò qualche passo sulla veranda di pietra che seguiva il perimetro dell’albergo. Camminava come una ballerina, senza pesare sulle anche ma quasi sostenuta dalle reni. Una volta fuori, il sole rovente la ridusse a un’ombra minuscola e lei si ritrasse: c’era troppa luce per riuscire a vederci. A cinquanta metri di distanza il Mediterraneo cedeva il suo colore attimo dopo attimo alla canicola brutale; al di là del parapetto, una Buick sbiadita arrostiva sul vialetto dell’albergo.

In effetti, quella spiaggia era l’unico tratto di costa che fremeva di attività. Tre balie inglesi erano sedute a sferruzzare su maglioni e calzini i lenti motivi dell’Inghilterra vittoriana, i motivi degli anni Quaranta, Sessanta, Ottanta, al ritmo di pettegolezzi strutturati come incantesimi; più vicino al mare, una dozzina di bagnanti si riparavano sotto ombrelloni a righe, mentre la loro dozzina di figli inseguivano nelle secche dei pesci per nulla impauriti, o giacevano al sole nudi e scintillanti di olio di cocco.

Non appena Rosemary mise piede in spiaggia un ragazzino sui dodici anni la superò correndo e si gettò in mare esultando a gran voce. Avvertendo l’impatto degli sguardi di volti sconosciuti, lei si sfilò l’accappatoio e lo seguì. Galleggiò a faccia in giù per qualche metro ma capendo che il fondale era basso si alzò in piedi e arrancò, trascinando le gambe sottili contro la resistenza dell’acqua come fossero pesi. Quando fu immersa più o meno fino al petto si voltò a guardare verso riva: un uomo calvo, con monocolo e calzoncini, la osservava con attenzione, sporgendo il petto villoso e tirando in dentro un ombelico sgradevole. Appena Rosemary ricambiò lo sguardo, l’uomo si tolse il monocolo, che andò a nascondersi fra i baffi faceti che gli spuntavano dal torace, e si versò un bicchiere di qualcosa dalla bottiglia che aveva in mano.

Rosemary adagiò il volto a filo d’acqua e raggiunse la piattaforma nuotando un crawl corto e discontinuo a quattro tempi. L’acqua le saliva incontro trascinandola teneramente verso il basso, lontano dalla calura, le filtrava fra i capelli, le correva lungo gli angoli del corpo. Si girò e rigirò nel mare, abbracciandolo e crogiolandosi. Quando arrivò alla piattaforma era senza fiato, ma una donna abbronzata dai denti bianchissimi le gettò uno sguardo condiscendente, e Rosemary, conscia all’improvviso della cruda bianchezza del proprio corpo, si voltò sulla schiena e si lasciò ricondurre a riva. L’uomo peloso con la bottiglia in mano le rivolse la parola mentre usciva dall’acqua.

«Sa, ci sono gli squali, più in là, oltre la piattaforma». La sua nazionalità era indeterminata, ma il suo inglese aveva la lenta cadenza di Oxford. «Ieri hanno divorato due marinai inglesi di stanza a Golfe-Juan».

«Santo cielo!», esclamò Rosemary.

«Si avvicinano in cerca dei rifiuti dei militari».

Con uno sguardo vitreo le indicò che le aveva parlato solo per avvertirla; indietreggiò di due passettini e si versò un altro bicchiere.

Con una consapevolezza di sé non del tutto sgradita, poiché nella conversazione era stata fatta oggetto di un certo interesse, Rosemary cercò un posto dove sedersi. Naturalmente ogni famiglia possedeva la striscia di sabbia immediatamente di fronte al proprio ombrellone; c’erano inoltre parecchie visite e conversazioni incrociate: l’atmosfera di una comunità in cui sarebbe stato presuntuoso intromettersi. Più su, dove la spiaggia era punteggiata di sassolini e alghe secche, sedeva un gruppo dalle carni dello stesso candore delle sue. Si riparavano sotto dei parasole invece che con gli ombrelloni da mare, ed erano ovviamente meno indigeni del luogo. Fra la gente scura e quella chiara, Rosemary trovò uno spazio e distese l’accappatoio sulla sabbia.

Da quella posizione, prima avvertì le loro voci e quindi sentì i loro piedi sfiorarle il corpo, le loro forme frapporsi tra lei e il sole. Il fiato nervoso e tiepido di un cane invadente le aleggiò sul collo; si accorse di avere la pelle leggermente abbrustolita dal caldo, mentre ascoltava il - tenue, spossato, del risucchio delle onde. Di lì a poco il suo orecchio riuscì a distinguere le singole voci, e venne a sapere che qualcuno, sprezzantemente definito «quel tizio, North», aveva rapito un cameriere in un bar di Cannes, quella notte, al fine di segarlo in due. A promuovere la storia era una donna dai capelli bianchi in abito lungo da sera, di certo una reliquia della serata precedente, poiché un diadema ancora le si aggrappava alla fronte e un’orchidea scoraggiata le spirava sulla spalla. Rosemary, sviluppando una vaga antipatia nei confronti di lei e dei suoi amici, si voltò.

A poca distanza, ma dal lato opposto, una giovane donna, sdraiata sotto una tettoia di ombrelloni, compilava una lista di cose da un libro squadernato sulla sabbia. Aveva le bretelle del costume abbassate, e la sua schiena di un arancio bruno-rossastro risplendeva al sole, coronata da un filo di perle color crema. Il viso era duro e bello e compassionevole. I suoi occhi incrociarono quelli di Rosemary, ma senza vederla. Ancora oltre c’era un bell’uomo con un berretto da equitazione e un costume a righe rosse; poi la donna che Rosemary aveva visto sulla piattaforma, e che aveva ricambiato il suo sguardo; e un uomo dal viso triste e dalla chioma dorata e leonina, in costume blu, senza cappello, che parlava tutto serio con un giovane dai tratti indubbiamente mediterranei, in costume nero, mentre entrambi raccoglievano pezzettini di alghe nella sabbia. Pensò che erano perlopiù americani, ma qualcosa li rendeva diversi dagli americani che aveva incontrato ultimamente.

Dopo un po’ si rese conto che l’uomo col berretto stava offrendo una piccola messinscena al resto del gruppo: si aggirava con passo solenne imbracciando un rastrello, mostrandosi intento a raccogliere la ghiaia mentre mimava una parodia incomprensibile...



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