Fregona | Italiani kaputt - La strage degli operai | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 160 Seiten, Format (B × H): 135 mm x 210 mm

Fregona Italiani kaputt - La strage degli operai

Storia di un eccidio a guerra finita
1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-6839-870-5
Verlag: Athesia-Tappeiner Verlag
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Storia di un eccidio a guerra finita

E-Book, Italienisch, 160 Seiten, Format (B × H): 135 mm x 210 mm

ISBN: 978-88-6839-870-5
Verlag: Athesia-Tappeiner Verlag
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Bruno Bovo e Andrea Cavattoni sono sopravvissuti con un groviglio di pallottole in corpo. Vittorio Luise si è salvato perché l'orologio a cipolla sul panciotto ha deviato il proiettile. Toni Peretto ha diviso pane e salame prima di essere ucciso. Walter Saudo ha provato a far ragionare i tedeschi prima di essere falciato dalla raffica. Ottorino Bovo ha raccolto morti e feriti. Carolina Zenoni ha visto uccidere il suo ragazzo con un colpo di pistola alla testa... A ottant'anni da quei fatti, Luca Fregona racconta con taglio narrativo la strage del 3 maggio 1945 davanti al muro dello stabilimento Lancia di Bolzano (oggi in via Volta): diciotto operai rastrellati per ritorsione dai tedeschi in rotta verso la Germania dopo alcuni scontri con i partigiani. Presi nelle fabbriche della Zona industriale, condotti davanti al muro di cinta della fabbrica, falciati da due scariche di mitragliatore sparate da un autoblindo di paracadutisti. Dieci morirono sul colpo o per le ferite. Gli otto sopravvissuti riportarono ferite di diversa gravità, e un trauma che li ha accompagnati per il resto della vita.

Luca Fregona, giornalista, caporedattore del quotidiano Alto Adige, è autore dei libri "Soldati di sventura" e "Laggiù dove si muore" (Athesia). Con "Laggiù dove si muore", nel 2024, è stato finalista del prestigioso Premio Estense, che dal 1965 premia l'eccellenza del giornalismo italiano.
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1. SCARPE


Dopo la guerra a nessuno piaceva ascoltare questa storia, così, dopo un po’, mi sono stufato e sono stato zitto.

Bruno Bovo

Bolzano, giovedì 3 maggio 1946, ore cinque del mattino circa, via Milano

Quella mattina il cielo era terso, pulito dalle nuvole. Un cielo limpido, azzurro. Forte. Carico. L’aria fresca, quasi gelida, in montagna aveva nevicato. Mi sono alzato con la testa leggera. Pensavo all’estate, alla mia ragazza, alla guerra finita, agli americani alle porte. Pensavo a un paio di scarpe nuove.

A est, la luce dell’alba entra di traverso. Rosa, poi arancione, poi un blu acceso. Il sole mi acceca. Mi infilo in bagno, mi rado veloce, scappo.

In corridoio incrocio il mio vecchio.

«Distribuiscono le scarpe, papà».

Ha chiuso gli scuri delle finestre. Tutti nel palazzo hanno chiuso gli scuri. I capi scala hanno detto di non affacciarsi per nessun motivo e di tirare dentro il tricolore.

Appena vedono uno spiraglio, i tedeschi mitragliano.

«Le strade sono piene di paracadutisti della Göring, affamati e furiosi. Quelli uccidono anche i bambini. Fai attenzione Bruno, a Montecassino hanno fatto un macello».

Mi afferra il braccio. Non vuole che vada.

Lo capisco: domenica scorsa un fritz ha sparato nella schiena a Bepi, un operaio della Lancia della palazzina C. Aveva il figlio piccolo in braccio, lo stava portando al sicuro, in casa, dopo l’allarme aereo. Saliva dal rifugio in cantina. Il tedesco l’ha visto da sotto, dalla piazza. Lo ha visto salire attraverso il finestrone del giroscale. Quel bastardo nazista ha puntato il Mauser, ha preso la mira e… PUM! Un colpo dritto tra le scapole. Bepi si è afflosciato sul pianerottolo. Non parlava. Non respirava. Morto secco. Il bimbo, René, grazie a Dio, ha fatto un balzo e non è rimasto sotto.

Quindi: sì, lo capisco, mio padre.

Ma: Bolzano è una città di rovine. I crucchi in rotta fanno paura, certo, ma peggio ne fa la miseria.

Ho fame, ho bisogno di un paio di scarpe vere. Si è sparsa la voce che al Calzaturificio Rossi le regalano, le scarpe. Cristo, crepassi ora, ci vado. Il Calzaturificio Rossi è in Zona industriale, a un chilometro e mezzo dalla Sida, la mia fabbrica. Oggi da noi non si lavora, ma alcuni operai amici miei sono già lì a difendere lo stabilimento. Che ai fritz non venga in mente di sabotare le macchine, di rubarci la roba o far saltare tutto. Prendo le scarpe al “Rossi”, e poi ci faccio un salto anch’io. Il direttore Liverani mi ha dato il permesso di usare materiali e attrezzi per costruire la camera da letto a mio fratello che si sposa. Brava persona, Liverani, duro senza esagerare. Scommetto che alla fabbrica ci sono già gli anziani. Saudo e il Capo Peretto. Walter Saudo ha lavorato tanto tempo in Germania, abita nella scala di mezzo del mio caseggiato. Toni Peretto è un falegname eccezionale, da lui c’è solo da imparare. Non è geloso del suo mestiere, gli piace insegnare, trasmettere l’arte. Dice che il falegname pensa con le mani. Anch’io me la cavo: nell’aprile del ’43 sono arrivato nono su novantaquattro ai Littoriali maschili dei mestieri a Bologna.

Saudo ha sessant’anni suonati. Peretto più di quaranta, è del ’99. Hanno combattuto nella Prima guerra mondiale. Fanti di trincea. Se oggi arrivano i mangiapatate, be’, loro sanno cosa fare. E poi c’è Cavattoni, il custode, un secondo padre. Sta in portineria, controlla ogni movimento. Ci perquisisce all’entrata e all’uscita. Perché alla fabbrica non si deve portare via neanche uno spillo. Cavattoni si farebbe ammazzare per la fabbrica. Per la fabbrica e per l’Italia. È nella Resistenza. Conosceva bene Manlio Longon, il direttore della Magnesio che la Gestapo ha impiccato a un sifone al Corpo d’Armata. È amico dei sette compagni traditi da un Giuda, che i tedeschi hanno caricato sull’ultimo vagone per la Germania, destinazione Mauthausen. Era febbraio.

Io ho la tessera del Partito Comunista, me l’ha fatta Felice Tireni nel ’44. Lui alla Sida è il Partito, dice che è solo grazie «a quel grand’uomo di Stalin e all’Armata rossa», che adesso «i cani fascisti» sono in ginocchio. Mi ha messo dentro una cellula partigiana, ma non ho partecipato a nessuna azione. Adesso voglio solo che finisca, così me ne vado in Argentina con il piroscafo. Nelle Americhe si fa fortuna. Hanno bisogno di falegnami, muratori, artigiani. Magari metto su una ditta mia. Non se ne parla di stare tutta la vita sotto padrone.

Mi infilo la giacca. Scendo le scale di corsa.

Se arrivo tardi, addio scarpe.

La portineria è deserta. C’è solo Giulia, la figlia più grande di Saudo. Sbircia fuori.

«Sparano alle casette. Sta succedendo qualcosa di grosso. Papà è già alla Sida. Lui è il più anziano, deve esserci. Ma te, Bruno? Te, mica sarai così pazzo?».

Parla senza guardarmi, gli occhi puntati sulla strada.

«Al Rossi distribuiscono le scarpe».

«Attento Bovo, i tedeschi stanno mettendo a fuoco mezza città. Mio padre ha detto di scendere in cantina e chiuderci nel rifugio…».

«Tranquilla, faccio veloce. Vado e torno».

Corro: piazza Littorio, via Torino, svolto su via Roma verso Ponte Littorio. Caduto Mussolini hanno cambiato i nomi alle strade. Ma noi continuiamo a chiamare vie e ponti alla vecchia maniera. Non perché siamo fascisti, ma perché il cervello fa fatica a star dietro alla storia.

Posto di blocco dei partigiani. Gino, un ragazzo che conosco, fa alt con la mano. Il fucile ad armacollo, la cinghia gli taglia il petto di traverso. Ha i calzoni corti color cachi su gambe abbronzate, il bracciale tricolore con la scritta CLN sopra il gomito destro, una camicia sbottonata che fa a pugni con la sua faccia da bambino. Distribuiscono armi e munizioni. Pistole tedesche Walther P38, bombe a mano tedesche, le schiacciapatate con il manico lungo, moschetti italiani Carcano.

«Dobbiamo fargliela pagare ai crucchi», dice.

Mi rompe i coglioni.

«Te, Bovo! Devi andare in Zona a difendere le fabbriche!».

Suona come un ordine. Lo capisco. La sua è una famiglia di socialisti. Vengono dalla Lomellina. I nonni erano braccianti vessati dagli agrari e dalle camicie nere.

«Dobbiamo dargliele ai crucchi».

«Ma Gino, dio buono, sono dappertutto. C’è un blindato a duecento metri…».

«Se rubano nelle fabbriche, gli spariamo. Calmi e tranquilli dove si può collaborare a tenere l’ordine, ma se rubano o ingaggiano battaglia…».

«Gli spariamo, ho capito. Va bene, va bene, ma senza un paio di buone scarpe, sarà dura riuscire a fargliela ai nazi. Prima vado al Rossi, poi vediamo…».

Scarpe. Parola magica. Si ferma questo ragazzo magro magro, dritto come un’alice sottolio. Una cofana di capelli pece sparata verso il cielo, alta una spanna. Una giacca talmente larga che ci affoga dentro. Sessanta chili scarsi su un metro e settanta. La mia fotocopia.

«Dove danno le scarpe?».

«Te chi sei?».

«Duilio Gobbato, diciotto anni, idraulico».

«Al calzaturificio Rossi, vicino Ponte Resia. Dicono che ci sono centinaia e centinaia di scarpe da prendere. Le operaie arrivavano a sfornarne duemila al giorno. Vieni con me, che ci guardiamo le spalle».

Gino si innervosisce.

«Bravi, muovetevi: prendete fucili e pistole e difendete la Zona».

«’Scolta, la guerra è finita. Farsi ammazzare ora è da fessi».

«Questi nazisti in ritirata sono cani rognosi. Hanno stuprato, ammazzato, fatto strage. Non possono tornarsene a casa con noi che gli apparecchiamo la tavola…».

Il ragionamento fila, arriva però un momento dove a vendicarti ci lasci le mani e la lingua. I fritz non li devi provocare, con tutto il veleno che hanno contro di noi. Specialmente qui in Alto Adige, con i polizei, i collaborazionisti della Sod, che dal ’43 gli danno una mano a scavarci la fossa. A noi e agli ebrei. Lasciamoli passare e buona notte. La città è in ginocchio. La gente vive come i cavernicoli nelle grotte e tra le macerie. «Piantiamola qui, scrolliamoci di dosso l’odore marcio della guerra».

Non ascolta. Mi infila altre munizioni nelle tasche. E manciate di proiettili nella giacca enorme di Duilio. Persino nelle mutande glieli ficca. Ci mettiamo anche noi la fascetta tricolore al braccio.

«Portate tutto agli operai che presidiano gli stabilimenti, fermatevi alla Ceccherini, lasciate tutto ai compagni che trovate là. Questo almeno lo farai, no, Bovo?».

«Lo faccio, ma te vedi di non prenderti nove grammi di piombo nella pancia. I crucchi hanno fretta di passare. Non ci pensano due volte a staccarti la testa, e nessuno andrà a cercarli in tuo nome».

Proseguiamo verso ponte Roma, che prima del ’43 si chiamava Littorio. Porta dritto alla Zona. Il ponte, le case dove abitiamo, le piazze, le strade della Bolzano operaia esistono perché ci sono le fabbriche. Le fabbriche comandano. Decidono vita e morte. Le ha tirate su il duce in una manciata di anni dal ’35 al...


Fregona, Luca
Luca Fregona, giornalista, caporedattore del quotidiano Alto Adige, è autore dei libri "Soldati di sventura" e "Laggiù dove si muore" (Athesia). Con "Laggiù dove si muore", nel 2024, è stato finalista del prestigioso Premio Estense, che dal 1965 premia l'eccellenza del giornalismo italiano.



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