E-Book, Italienisch, 87 Seiten
Garboli Un uomo pieno di gioia
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-3389-285-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 87 Seiten
ISBN: 978-88-3389-285-6
Verlag: minimum fax
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Per Emanuele Trevi queste pagine costituiscono il primo capolavoro di «uno dei piu? grandi narratori del suo tempo, un impareggiabile collezionista di anime in pena». Apparvero per la prima volta nel 1982, sotto forma di introduzione ai Diari di Delfini, e nel 1989 Cesare Garboli le raccolse nei suoi Scritti servili. Ora vengono qui riproposte autonomamente, con una precisa speranza: che siano lette o rilette non piu? come un saggio di critica letteraria, ma come un racconto borgesiano. Per quello che sono, in fondo: l'addio a un amico. Quando si conoscono, sul lungomare di Viareggio, sono precoci entrambi: Garboli e? un adolescente di diciassette anni, Delfini uno scrittore «postumo» e dichiaratamente fallito di trentanove. A legarli sara? la letteratura. Ma piu? che uno scrittore, Delfini e? un personaggio di romanzo che aspetta di essere scritto. Garboli ce lo racconta «squinternato, balordo, puerile», un tipo che «non fa che scambiarsi con un altro e non ama, di se?, che il proprio contrario», eppure giocoso e allegrissimo. Ce lo mostra nello spicchio di luce di un caffe?, davanti al banco, mentre cena da solo o mette in scena lo sperpero del suo talento, e infine ammalato in un letto, a leggere Stendhal, a Modena, la sua citta? natale, con la vita alle spalle. Uno scrittore di quaderni smarriti, ma a cui sempre il sorriso «scucchiaiava la faccia, tagliandola da un orecchio all'altro». Un uomo pieno di gioia e? la storia di un irripetibile apprendistato alla vita, che e? sempre la piu? difficile tra tutte le filologie.
Autoren/Hrsg.
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«Diverso da tutti».
Il Delfini di Garboli
Non è escluso, ma è come qualcuno che non può più entrare da nessuna parte.
Maurice Blanchot,
Non c’è nulla di più noioso, forse, delle scritture private di un narcisista patologico; eppure esistono, anche se la specie è rara, dei narcisisti irresistibili. Forse è la loro innocenza a farceli amare, a contagiarci della stessa fanciullesca meraviglia che loro provano per se stessi. La prosa di Antonio Delfini, e in particolare quella dei diari, è un esempio supremo di questo incantesimo psicologico. Se ne accorsero in molti nel 1982, quando Einaudi pubblicò nei Supercoralli (la stessa collana del di Carlo Emilio Gadda) il corposo volume dei dello scrittore modenese. Lo curavano Giovanna Delfini e Natalia Ginzburg, mentre la prefazione fu affidata a Cesare Garboli, che di Delfini era stato uno degli amici più intimi. Non sarà stato un bestseller, ma il libro nel suo complesso – gli avvincenti diari e lo splendido ritratto iniziale di Garboli – fu riconosciuto come un classico del Novecento, un libro irrinunciabile, sorprendente, sottilmente contagioso. In copertina, si vedeva una splendida di Henri Matisse: immagine misteriosamente appropriata a quello scartafaccio di quattrocento pagine cresciuto nel tempo senza un piano preciso, come un’erbaccia dall’odore selvatico e inebriante. Nel 1948, Delfini aveva anche pensato (una delle tante svolte momentanee nel labirinto infinito dei suoi progetti) di pubblicarne quella che è rimasta la parte più cospicua, con il titolo . «Sarà un libro pesante. Caotico! Forse nessun editore vorrà pubblicarlo». In realtà lo scrittore modenese aveva iniziato a scrivere un diario due anni prima, nel 1927, quasi imponendosi il compito per combattere l’ignavia e la pigrizia, quando aveva appena compiuto vent’anni. Basta cominciare a leggere le prime pagine per rimanere presi al laccio da quel ragazzo viziato, timidissimo fuori di casa e insolente con la madre e la sorella, che ogni sera si impegna con se stesso ad alzarsi presto, e non esce dal letto prima delle dieci, per non combinare poi nulla tutto il giorno, né a Modena né a Viareggio. Il segreto di questi diari forse consiste nel fatto che il candore e la malizia vi collaborano a ogni riga, in proporzioni variabili e imprevedibili, mentre lo stesso impaccio linguistico dell’autodidatta diventa un paradossale motivo di efficacia. Le carte raccolte dalle curatrici sono tante ed eterogenee, e il libro di quattrocento fitte pagine attraversa le epoche della vita di Delfini fino al 1961 – due anni prima della morte prematura a cinquantasei anni. E quindi questi diari nel loro complesso sono anche il grafico dell’evoluzione stilistica di un grande scrittore, verso quell’apice che è la stupenda introduzione alla seconda edizione del , composta a Roma nel 1956. Ma c’è qualcosa che non cambia dalla prima all’ultima pagina, un tono che rimane riconoscibile nel pulviscolo delle occasioni, come accade nei diari di Stendhal. La vita porta e toglie molto, illude e delude, ma l’affermazione della propria singolarità (di uomo, di scrittore, di italiano) prevale sempre su tutti i necessari mutamenti. E insieme a questa, si diventa familiari, di pagina in pagina, con la ferita abissale di Delfini, quel sentimento di una mancanza originaria che nessuna parola potrà mai colmare. Quello che apparve nel 1982, insomma, non è un documento, ma il capolavoro postumo di un maestro della prosa del Novecento, involontario quanto si vuole, ma destinato a sedimentare in modi imprevedibili nella memoria dei lettori. È difficile immaginare una ristampa dei diari di Delfini (e i tempi sarebbero ormai maturi) priva delle pagine introduttive di Garboli, tanto il senso degli uni e delle altre forma un blocco compatto. È il racconto di Garboli, semmai, a possedere una sua maggiore autonomia. L’autore stesso ne fece un capitolo – sicuramente il più bello – degli , la raccolta del 1989 (pubblicata sempre da Einaudi), aggiungendovi qualche nota e divagazione. Dopo tanto tempo, la famosa «prefazione», come la volle chiamare Garboli con un certo understatement, non mi sembra aver perso nulla della sua bellezza. Ci siamo permessi di dotarla di un titolo meno anodino, ricavandolo dal finale («Era un uomo pieno di gioia»), che è un vero colpo da maestro e inaugura la stagione più importante dell’arte di Garboli, quella vissuta tra i cinquanta e settant’anni.
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Cesare Garboli non è stato certo un talento precoce. Intendiamoci: imparò a scrivere bene presto, facendosi le ossa come tanti suoi coetanei su giornali e riviste. E leggendo i suoi scritti giovanili, per esempio quelli raccolti nella (il primo libro, uscito da Mondadori nel 1969), o le recensioni teatrali, ci si rende conto che Garboli aveva sempre saputo cosa cercare. Alla fine dell’«Avvertenza» alla , stampata in corsivo, si legge quello che può suonare come un metodo a cui rimanere fedele e un programma buono per un’intera vita. «Quello che eterneggia mi è poco congeniale. Più volentieri, entro nell’ordine d’idee che nulla è più sacro di ciò che non è stato ancora redento dallo stile, non ancora raggiunto dall’intelligenza». Garboli quando scrive queste parole aveva appena superato i quarant’anni. Ci vedo una citazione esplicita di Proust, l’inizio del : «Ogni giorno attribuisco minor valore all’intelligenza». Ma una cosa è designare l’oggetto del proprio desiderio – ciò che nell’umano è «sacro», preesistente allo stile e all’intelligenza – un’altra è darne un’immagine credibile, andando fino in fondo. E quello di Garboli fu un vero , per rubare la definizione a Thomas Pynchon, perché la parola , di per sé, vale come qualunque altra parola e rapidamente perde il suo significato se rimane un’enunciazione, quello che conta è trovare una forma capace di rendere evidente ciò che la parola indica. Bisogna aggiungere che in Garboli il processo creativo e le forme e le epoche della vita (amori, amicizie, viaggi, abitazioni...) si sono sempre condizionati reciprocamente. La sua gioventù era trascorsa in quella che sembra una continua e sfibrante rissa fra contrari: socialità e misantropia, realismo e lirismo. Scoccati i cinquant’anni, nel 1978, lo stesso giorno in cui fu ritrovato il cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault, abbandonò Roma e si ritirò nella casa di famiglia, a Vado di Camaiore, all’ombra delle ripide pareti delle Alpi Apuane. Un luogo fatato e labirintico, dove il tempo era lasciato libero di mostrare tutti i suoi segni. Fu in quelle condizioni di deliberato isolamento che Garboli allargò la sua tela, l’adeguò finalmente alla sua idea del «sacro», facendo divampare quella semplice scintilla verbale. È così che nacque la straordinaria galleria di ritratti (non trovo una definizione migliore) in cui consiste la sua opera matura. E il primo fu quello di Antonio Delfini. Garboli lo aveva conosciuto sul lungomare di Viareggio negli anni Quaranta: lui aveva diciassette anni, l’autore della e del ne aveva venti di più (non si capì mai se era nato nel 1907 o nel 1908). Ma accade nella vita che la cosa che sembra più stabile del mondo, ovvero la differenza di età tra le persone (avrò sempre due anni in più di moglie, mio cugino avrà sempre dieci meno più di me...), in realtà è del tutto effimera, perché la morte produce delle straordinarie collisioni, inverte addirittura le distanze. A un certo punto del suo racconto Garboli riferisce che Delfini, per un motivo burocratico, aveva dovuto riesumare la salma del padre, morto molto giovane, poco prima della sua nascita. E così aveva visto, a cinquant’anni, suo padre com’era a trenta (un episodio simile lo racconta splendidamente Mario Tobino in uno dei suoi romanzi migliori, ). L’aneddoto sembra a prima vista caduto lì senza una grande necessità narrativa, ma deve essersi imposto alla mente di Garboli perché anche quella che stava facendo lui era una riesumazione. I morti suscitano meraviglia e una sorta di estraneità perché non procedono più assieme a noi dal passato al futuro, e li ritroviamo sempre fissi nel loro ultimo presente. Garboli, nell’estate del 1981, quando compone il suo racconto, sta parlando di un coetaneo, non più di un uomo molto più avanti di lui nel cammino della vita. Ora anche lui che scrive, il sopravvissuto, sta navigando nelle acque torbide e insicure tra i cinquanta e i sessant’anni. Quanto al giovane amico di Delfini che è stato un tempo, Garboli dice di provare «rimorso» per lui. Ma è anche vero che ora conosce di Delfini qualcosa che prima non poteva sapere, e questa amara chiaroveggenza che il passare del tempo ha portato con sé è uno dei motivi profondi della bellezza del racconto.
***
Come si sarà potuto intuire, il ritratto di Delfini è qualcosa di più e qualcosa di meno di un saggio di critica letteraria. Il Delfini di Garboli è la perfetta incarnazione di ciò che aveva definito «sacro». Ma accusare Garboli di privilegiare l’«uomo» sull’«opera» significa solo agitare delle astrazioni insignificanti. Quello che è vero, è che a Garboli della letteratura, intesa come fatto astrattamente estetico e catena di produzione di testi,...