Genna | Italia De Profundis | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 383 Seiten

Genna Italia De Profundis


1. Auflage 2011
ISBN: 978-88-7521-384-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 383 Seiten

ISBN: 978-88-7521-384-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Giuseppe Genna porta qui agli estremi l'operazione chirurgica su se stesso e l'Italia. Convoca i lettori in una sorta di Stonehenge fatta di storie. Si formano sotto i nostri occhi episodi di un'autobiografia impazzita, rivelazioni plausibilmente autentiche di quanto il personaggio 'Giuseppe Genna' ha vissuto: il drammatico ritrovamento del cadavere del padre, in un'atmosfera lynchiana, una tardiva autoiniziazione all'eroina, l'esplosione dell'iracondia in una forma che guarda alla scrittura di Burroughs e l'intervento attivo e criminale nell'eutanasia di un caso simile a quello di Piergiorgio Welby. Fino all'avventura surreale in una estate solitaria presso un villaggio turistico in Sicilia, dove le tessere di questo racconto scomposto trovano una soluzione che è esilarante fino all'inabissamento finale. Fiction reale o realtà finzionale, questo libro pretende e concede un atto d'amore assoluto, formulato come appello al lettore, affinché sia cancellato l'autore e si ascolti l'inquietante risata con cui Genna stesso e l'Italia vengono seppelliti.

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2. LA FINE È ALL’INIZIO


Immaginate che...

Il capodanno. Si entra nel 2006. È questa la premessa maggiore all’estate scomposta e cadaverica 2007.

Immaginate il padre che da tre anni si trascina nel tumore. La sua fatica e la mia vocazione all’amore, la sua anche, entrambe mute e cristallizzate, due Orfei che si sono voltati e hanno perduto Euridice per sempre, per sempre.

Chemioterapie. PET. TAC.

Oncologi al cui livello onomastico essere adeguati, per convincerli a mentire, e io stesso a mentire al padre che tanto ha capito tutto.

Tre anni di vescicole metastatiche, dopo l’intervento all’intestino, e parole strascicate e mutismi depressivi per l’uomo che espulse lo spermatozoo vincente, quello che si aggiudicò la gara angosciosa e iperolimpica, penetrando l’ovulo di mia madre, affinché si legasse alla carne il filo di coscienza Giuseppe Genna.

Il padre che, eiettando lo spermatozoo vincente, aveva già perduto la grazia e l’amore dell’utero in cui andava a rifugiarsi: lo penetrava per rattrappirsi.

Il padre abbandonato, che progressivamente per trentotto anni si abbandona.

Il padre dice, la sera del 31 dicembre 2005, alle ore 19.48: «Non me ne frega un cazzo del capodanno. Vado a letto ora. Ho già preparato il letto, qua già rompono coi botti, ma io dormo. Va tutto benissimo...» Aveva chiamato lui. Mio padre non chiama mai.

Il padre che chiama da una vita senza eiettare l’urlo d’amore. E, privo di urlo, è soccorso mutamente dal figlio che non sa fare altro che urlare.

Il figlio che eredita la perdita di Euridice.

Immaginate che non sia vero...

È l’1 gennaio 2006. Per tutto il giorno ho telefonato al padre muto: muto ogni telefono, il fisso grigio della SIP con il disco di plastica rotante, e il cellulare che lo imbarazza per l’imperizia a contatto con la tecnologia.

I capelli radi e morbidi per la chemio.

Chiamo e non risponde.

Aspetto il taxi all’angolo tra la mia piccola via e il viale della circonvallazione esterna. L’asfalto è ricoperto di filamenti color vomito e corpi esplosi di cilindri cartonati, raudi e petardi, i resti patetici della sera inutile del 31. La sensazione è che un tempo il giorno dopo la fine d’anno era inutile e destinato alla spazzatura della memoria (non ricordo un primo gennaio che sia uno, dei trentasei che ho vissuto); ora mi sembra inutile anche la notte che precede questo giorno anonimo, i ritrovi sempre più frenetici e forzosi. Sagre d’ipocrisia: è così.

Fumo, come fuma mio padre. A lui rubai, tredicenne, la prima sigaretta. Solo, fumo più pesante. La città è deserta. Il cielo è violaceo, livido, rotto a strappi.

Può essere uscito con gli amici. Una serata dopo che gli altri si sono sfogati ieri notte...

Ultimamente non aveva amici. Pochi coetanei al bar latteria che, per un cambio di gestione (lo storico proprietario era morto improvvisamente di infarto) e per l’uscita dalle patrie galere del boss italiano degli stupefacenti in zona, si era trasformato in un crocicchio di tossici, gente che entrava e usciva da San Vittore il carcere, pusher di piccolissimo taglio. Avevano chiesto a mio papà, un pomeriggio, se si rollava una canna.

Dove termina il comunismo prussiano che mio padre aveva professato nella sua esistenza mutilata, rigorosa, interrotta.

E comunque stava fuori casa, stava lì tra i tossici, «Per evitare la solitudine e la stanchezza della chemio», diceva, condivideva ore con questa marmaglia antropoide, scimmie postatomiche rispetto ai mondi vissuti da mio padre e dai suoi reali amici, tutti marcescenti. E ci usciva la sera, anche, andavano, lui e i tossici, a mangiare il «porceddu» in un qualche ristorante che non era nemmeno sardo, ed era il primo a tornarsene a casa, gli piaceva mangiare, una settimana prima, a Natale, gli avevo regalato un paté da centocinquanta euro.

«No, non è uscito con nessuno».

Il taxi in via Greppi, davanti al portone di mio padre: la casa buia dove sono cresciuto tra quadri di pittori comunisti teosofi. L’appartamento dove il fantasma di mio zio Gino, partigiano e forse anticipatore delle bande armate, mi ossessionava nel lungo corridoio.

Citofonare premendo a lungo il tasto del nuovo apparecchio a videocamera, lui solitamente apre dopo avere visto chi è, sgranato, nel piccolo monitor in bianco e nero. Non apre nessuno. Non ho le chiavi. Citofono ai portinai, anche se sono quasi le otto di sera di un giorno festivo.

Il portinaio è sardo ed è un colosso anche se alto un metro e sessanta, portentoso nella muscolatura. Sua moglie ci ha visto crescere. Spiego la situazione, chiedo se hanno un duplicato delle chiavi, e l’hanno. Lei si volta verso il marito, che mi guarda come fosse un agnellino impaurito. «Vai su ad aiutare» dice lei, e lui si alza, muto, il volto pallido, sappiamo tutti come questa storia finisce, sappiamo tutti cosa inizia, il portinaio si solleva, spaventato, le braccia enormi che fuoriescono da un’incredibile canotta.

Saliamo in silenzio verso il secondo piano.

Eccola, la porta tremenda, di legno verniciato.

La targhetta mai cambiata, neanche dopo il divorzio, con il nome suo e di mia madre.

Premo il campanello, il trillo pesantissimo. Nessuna risposta dall’interno.

Apro la porta tremenda, che è seguita da una porta secondaria in legno leggero, una porta a maniglia con il vetro smerigliato e apro la maniglia e la porta è chiusa e dal vetro vedo che, in fondo, una luce è accesa. È dentro.

Sfondo la porta, il tunnel del corridoio è buio, sul fondo la luce è fioca, corro, la porta a vetri smerigliati della stanza dove dorme, la stanza con la luce accesa e io urlo a ogni passo nel corridoio buio degli spettri «Papà!»

Quando apro la porta a vetro smerigliato della stanza dove dorme, lui non c’è. Resto allibito.

Sono allibito. Non c’è. Mi chiedo: «Dove è andato?»

Il letto è in ordine, preparato per entrare e dormirci, un largo lembo piegato ordinatamente della coperta, le lenzuola intatte e lui non c’è.

Finché dal bordo opposto, a un metro dal suo comodino, non vedo qualcosa...

Qualcosa...

Piccolo, curvo, levigato, blu, livido: è il suo tallone.

Entro nella stanza, ed eccolo: steso per terra, in pigiama, è morto, è morto di infarto fulminante, i piedi sono blu e neri, le mani sono blu e nere, la guancia destra è appoggiata sul parquet e la faccia è quella di mio padre che dorme, non di mio padre che soffre, aderisce quasi totalmente al parquet, con il suo pigiama da bambino, tranne il braccio sinistro, sollevato e chiuso nel pugno blu e nero, rigido, appoggiato alla struttura di legno che copre la rete per il materasso, e la gamba scivolata per reazione e sollevata sulla parete, dove è appoggiato il calcagno lividissimo che ho visto. È rigor mortis. È morto ieri sera, prima di andare a dormire. Pochi minuti dopo avermi sentito al telefono. Ventiquattr’ore da solo, morto, le chiamate che facevo, il trillo a vuoto del telefono fisso che squilla mentre lui, che è solo, è steso lì e sta irrigidendo. Annuso, non c’è odore di cadavere, nonostante la prossimità al calorifero. La faccia è distesa. Non oso toccarlo: io dovrei avere un sacro terrore dei cadaveri.

Eccolo lì. La crisalide svuotata di mio padre.

Telefono all’ambulanza. Torno a controllare il cadavere. Di cui dovrei avere paura e non ne ho. Mi curvo verso la sua faccia, non lo tocco, quel gomito alzato a novanta gradi è raccapricciante, povero papà che sei morto da solo. La luce è fioca, è sporca, e io penso al Libro tibetano dei morti e a quello che ho letto sulle esperienze di coma o prossime alla morte: l’anima va in alto, nell’angolo a nord ovest rispetto alla testa, e allora guardo quell’angolo, l’incrocio delle tre pareti, la calce levigata male, e sorrido e con l’indice sulle labbra chiuse indico al vuoto di fare silenzio, perché tutto va bene.

È raccapricciante. È il rigor mortis, non ci si è abituati. Mi chiedo se la guancia che preme sul parquet è gonfia e nera per il depositarsi dei liquidi colliquativi.

E arrivano quelli della guardia medica, sembrano pompieri, le tute arancioni, i loro corpi eretti e quello orizzontale di mio padre che ora è soltanto il corpo, vedono e constatano e hanno pudore di dirmi che è in rigor mortis, che è morto da un giorno. Come se avessi qualche colpa, come se l’avessi trascurato.

Mi fanno uscire dalla stanza e poi rientrare ed è sul letto, supino. La faccia è rilassata, le guance sono normali, sembra che dorma, a parte quel blu, quel neromarrone degli arti terminali, e il braccio col pugno chiuso piegato a novanta gradi, che adesso è verticale nel letto. È paradossale, sta compiendo un gesto, sembra che compia un gesto ed è un...



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