E-Book, Italienisch, 506 Seiten
Goodman Mingus secondo Mingus. Interviste sulla vita e sulla musica
1. Auflage 2014
ISBN: 978-88-7521-621-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 506 Seiten
ISBN: 978-88-7521-621-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
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Charles Mingus (1922-1979) ha rappresentato la più perfetta espressione dell'artista larger than life: esuberante, imperioso fin dalla stazza fisica, carismatico; facile alla rissa e alla risata, perennemente alla ricerca di un ideale di bellezza che inseguiva nella vita di tutti i giorni con la stessa grazia e la stessa rabbia con le quali cavava le note dalle corde del suo contrabbasso. In questo libro il giornalista americano John F. Goodman ha raccolto una serie di interviste inedite a Mingus da lui realizzate fra il 1972 e il 1974, creando un nuovo, affascinante autoritratto dell'uomo e del musicista. Con risposte di volta in volta lapidarie o torrenziali, candide o provocatorie, il grande contrabbassista affronta gli argomenti a lui più cari: la nostalgia per l'epoca delle big band e delle jam session e le perplessità rispetto ai più recenti sviluppi del jazz; il confronto con i critici musicali, da lui temuti quando non detestati; il delicato equilibrio tra la creatività estemporanea e il duro studio, tra l'originalità e la tradizione; le battaglie per l'indipendenza artistica in un ambiente dominato da discografi ci spregiudicati e impresari disonesti; i ricordi affettuosi dei colleghi e dei maestri scomparsi; i rapporti tumultuosi con le donne, passati attraverso numerosi matrimoni e altrettanti divorzi. Divertente, intimo, ricco di aneddoti e riflessioni, Mingus secondo Mingus è un'opportunità imperdibile per scoprire i mille volti di un artista simbolo dell'epoca d'oro del jazz.
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PREFAZIONE
Questo non è un libro Mingus, ma un libro in cui Mingus parla con la sua voce. Sin dal principio, non avevo intenzione di scrivere l’ennesimo saggio di critica o analisi musicale: in sostanza doveva essere un libro di interviste, che gli permettesse di dare libero sfogo alla sua dirompente parlantina e di costruire i suoi assolo verbali punteggiati di attacchi a musicisti e critici non all’altezza, con le sue deliranti incursioni nella paranoia e nella sofferenza. Però ero incerto: qual era la forma più adatta a far sentire la sua voce, e a farla sentire nel modo giusto?
A dispetto di tutto quello che si è scritto sull’artista, di interviste lunghe ne esistono davvero poche. In qualche modo, Mingus e io siamo riusciti a colmare la lacuna.
Per cominciare, permettetemi di darvi un’idea di chi sono e da dove vengo: le mie credenziali, insomma. Sono cresciuto a Chicago, città e periferia, con il privilegio di due genitori che mi hanno trasmesso il loro grande amore per la musica. Mentre imparavo a muovere i primi passi, sapevo già identificare i 78 giri dell’enorme collezione di mio padre a partire da colore e design delle etichette: i Vocalion, i Victor, i Columbia, la musica di Duke e Lunceford, Paul Whiteman, Chick Webb ed Ella (il blu e oro della Decca), quasi tutte le principali big band, Glenn Miller, i Dorsey, qualche piccola formazione, qualche musical, André Kostelanetz (ebbene sì), musica sinfonica e da concerto.
Al liceo, alcuni di noi si dedicavano ad ascoltare e suonare il jazz, cominciando dal dixieland e da piccole formazioni swing. Nei primi anni Cinquanta, eravamo un esempio di quelli che Norman Mailer avrebbe chiamato «negri bianchi»: leggevamo Mezz Mezzrow (un tizio anche lui di Chicago)1, volevamo essere e e spesso il sabato andavamo in città a ubriacarci e sentire alcuni grandi esponenti della vecchia scuola: Baby Dodds, Henry «Red» Allen, veterani locali come George Brunis e Art Hodes, e naturalmente le band di Ellington e Basie quando suonavano al Blue Note. Nel 1954, un amico ci fece entrare alle registrazioni di . Facemmo persino il coro in uno o due pezzi.
Nel 1950, insieme a un’altra coppia, i miei genitori organizzarono un celebre party con la band di Armstrong dell’epoca, una formazione all-star con Jack Teagarden, Barney Bigard, Earl Hines, Arvell Shaw, Cozy Cole e Velma Middleton. Si parlò per anni di quella festa, che suscita ancora oggi ricordi molto vividi: Louis e Hines che improvvisano al pianoforte; la famosa custodia del trombone di Jack T, con lo spazio per la camicia pulita e la bottiglia di gin; i miei amici del liceo che sgusciano tra gli sbirri e vanno a sedersi sul prato. Seguirono altre solennità musicali, come il trio di Oscar Peterson all’Ambassador Hotel di Chicago e la pianista Barbara Carroll nel soggiorno di casa nostra.
Mio padre, un George Wein mancato, promuoveva feste danzanti nei country club con le grandi band di Duke Ellington, Les Brown e Count Basie, dove ballavamo sulla terrazza all’aspro suono dei sax che swingavano a pochi metri da noi. Mia madre rimase abbonata alla Chicago Symphony per tutta l’era di Fritz Reiner e prima ancora, quando l’orchestra cominciava a guadagnarsi la sua fama. Io avevo ascoltato e studiato il repertorio «classico» che costituiva l’anima di quell’orchestra, ma assistere dal vivo ai concerti nell’acustica della Orchestra Hall significava godersi le indimenticabili esplorazioni di solisti come Rubinstein, Heifetz e Myra Hess.
Un pomeriggio del 1952, durante il mio primo anno al Dartmouth College, scoprii il bebop e il nuovo jazz ascoltando i suoni di Dizzy Gillespie, Charlie Parker e compagni su una radio di Boston. L’impatto fu sbalorditivo. In qualche modo afferrai ciò che stavano facendo, e la mia vita musicale cambiò per sempre. Volevo suonare il pianoforte come Bud Powell.
Nei fine settimana, i viaggi a New York (e poi a Chicago, dove frequentai la scuola di specializzazione) mi avvicinarono alla musica di Miles, Monk, Mingus, Bud, Bird (l’ho sentito una sola volta al Metropole, non suonò bene) e di tanti altri grandi musicisti di un’epoca d’oro del jazz. Nel 1965 mi trasferii a New York per insegnare inglese alla New York University e al City College. Diventai anche critico musicale, inizialmente per il , un piccolo ma importante mensile di sinistra con una splendida sezione dedicata all’arte. Quindi, per nove anni, scrissi recensioni di album e concerti per , garantendomi l’accesso a gran parte della scena musicale di New York: rock, classica, jazz... E qui cominciamo ad avvicinarci a Mingus.
Prima di New York, nel 1962 (se non ricordo male), un giorno ero nella cabina d’ascolto di un negozio di dischi a Madison, nel Wisconsin, che ascoltavo , appena uscito. Ridevo e mi gustavo «Eat That Chicken», «Hog Callin’ Blues» eccetera. Dopo averlo trascurato per anni, avevo finalmente imparato a cogliere il chiassoso humour e lo straordinario genio del binomio Mingus-Roland Kirk. Non è mai esistito un album come , né un duo come quello composto da Mingus e Kirk. Ho avuto la fortuna di conoscere entrambi, e la loro musica mi ha cambiato la vita.
Dieci anni dopo non abitavo più a New York, ma continuavo a scrivere per . Girava voce di un imminente concerto di Mingus, e io convinsi Sheldon Wax, direttore editoriale della rivista e jazzomane, ad affidarmi la copertura dell’evento, magari con uno speciale sull’artista, che era appena uscito da un lungo e triste periodo di improduttività, durante il quale concedeva interviste solo a una ristretta cerchia di amici e conoscenti. Insomma, i presupposti per una storia interessante c’erano tutti.
Il primo dei due concerti intitolati ebbe luogo il 4 febbraio 1972 a New York. Riporto un estratto della mia recensione: forse un tantino iperelaborata, ma all’epoca suscitò grande interesse nella comunità musicale newyorkese.
Dopo tanto battage (vedi l’articolo di Nat Hentoff sul ) e tante aspettative (Mingus non faceva concerti da dieci anni), si diceva che avremmo assistito a un grande ritorno in scena o a un’altra pietra miliare di una carriera già proteiforme.
Gran parte dei 2800 posti della Lincoln Center’s Philharmonic Hall erano occupati da un pubblico decisamente più giovane del previsto e di chiara estrazione alto-: ragazze di una raffinatezza esotica, maschi di calcolata ineleganza, santi neri e peccatrici. Erano venuti tutti a sentire un ensemble di diciotto elementi tra i quali Gene Ammons, Bobby Jones, Lee Konitz, Gerry Mulligan e Milt Hinton: ed era solo l’antipasto. Nei panni del presentatore-intrattenitore, un magistrale Bill Cosby. Con la sua aria da bibliotecario, Teo Macero continuava a far cadere lo spartito ma non smetteva di agitare la bacchetta, talvolta assistito da Mingus. Più avanti nel programma, Dizzy Gillespie, James Moody e Randy Weston hanno partecipato brevemente a una lunga jam session.
[...] Più prova aperta che concerto, la serata ha avuto i suoi punti di forza nei momenti in cui la band ha abbandonato le rigorose complessità delle prime composizioni di Mingus o i requisiti strutturali di alcune delle ultime: un classico assolo blues di Gene Ammons al tenore sostenuto da Mingus al termine della prima parte del concerto; un paio di brani di Honey Gordon, una specie di combinazione tra Joya Sherrill (vocalist di Duke Ellington negli anni Quaranta) ed Ella Fitzgerald; un pezzo scritto per Roy Eldridge e meravigliosamente eseguito dal diciottenne Jon Faddis alla tromba; più alcuni standard di Mingus, come ad esempio «E’s Flat Ah’s Flat Too».
Le altre perle della serata sono venute dal nuovo album di Mingus per la Columbia, il primo da otto anni, . Se dobbiamo fidarci di quanto ascoltato l’altra sera, Charles non esagera quando lo definisce «l’album migliore che abbia mai fatto». Malgrado un’incredibile serie di battute d’arresto negli ultimi anni e un concerto a tratti deludente, uno dei più grandi jazzisti di tutti i tempi è tornato e ha ripreso a fare musica originale e vibrante.2
A quel concerto e a , che per Mingus segnarono un nuovo inizio, devo lo spunto iniziale per questo libro. La prima volta che lo incontrai di persona, nel 1972, aveva finalmente smesso di impasticcarsi, era uscito dall’ombra e aveva ricominciato a mangiare a quattro palmenti, a coprire la gente di insulti e a parlare. Dio, quanto parlava. Di jazzisti ne avevo conosciuti parecchi, ma di chiacchieroni così non ne avevo mai visti.
Durante gli incontri successivi, ebbi modo di conoscere la famiglia allargata di Mingus – Charles, Susan Graham Ungaro (non ancora sua moglie), l’arrangiatore Sy Johnson, i musicisti fissi della sua band ristretta (Bobby Jones, Charles McPherson e altri) – molti dei quali diranno la loro in queste pagine. Non riuscii invece a entrare in contatto con Dannie Richmond: se c’era una persona con cui avrei dovuto parlare, quello era lui.
Negli anni Ottanta smisi di fare il giornalista musicale. Tra gli altri motivi, per l’impossibilità di risolvere il dilemma critico: limitarmi a scrivere per una cerchia di lettori ferrati in discorsi tecnici di vario genere annoiandoli con farneticazioni musicologiche, oppure mettere su carta le mie impressioni? Nessuno dei due approcci, da solo, è in grado di rendere giustizia alla realtà della musica. A livello più profondo, il...




