E-Book, Italienisch, 156 Seiten
Reihe: Figure
Gros Perché la guerra?
1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-5480-092-8
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 156 Seiten
Reihe: Figure
ISBN: 979-12-5480-092-8
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
La guerra sarebbe 'morta a Hiroshima' quasi ottant'anni fa, per usare l'espressione di un generale francese. Nel senso che non la si poteva più concepire, dopo la colossale distruzione della Seconda Guerra Mondiale. Sembrava un punto terminale, sancito dall'equilibrio perverso della Guerra Fredda in bilico sull'apocalisse nucleare e dalla creazione dell'onu nel 1945, il cui scopo principale era impedire nuovi, catastrofici conflitti internazionali. Eppure, come Frédéric Gros osserva esplorando sia il concetto di guerra, sia la sua origine, i suoi stili, le sue pratiche storiche e l'immaginario che li attraversa, la guerra non si è mai fermata, né accenna a farlo. Come mostrano, con un'evidenza tragica e lampante, l'attuale conflitto in Ucraina (il ritorno della guerra vera, si è detto superficialmente) e la massiccia offensiva israeliana nella Striscia di Gaza dopo l'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Guerra classica, guerra 'regolata' o deregolamentata, 'giusta da entrambe le parti' o per 'giusta causa', guerra totale, globale, di 'caotizzazione' o per procura: mentre le forme dei conflitti si trasformano e le distinzioni tipologiche si susseguono, resta ineludibile una domanda 'di fronte alla quale la filosofia indietreggia': perché la guerra? Chiamando a raccolta grandi filosofi politici, da Platone a Machiavelli, da Hobbes a Marx, senza dimenticare le intuizioni di Freud e le analisi di Schmitt, Gros cerca di rispondere a quest'interrogativo, legato ad altre questioni decisive: cos'è una guerra 'giusta'? Quali sono le forze morali coinvolte in un conflitto, e qual è l''ingiuria' che rende lecita la violenza armata? È lo Stato che fa la guerra o è la guerra che fa lo Stato? Fino alla domanda ultima, e insieme più stringente: per quale pace, la guerra?
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Eroismo e barbarie
Gian Giacomo Trivulzio diceva: “Per fare la guerra con successo, tre cose sono assolutamente necessarie: primo, il denaro, secondo il denaro, e terzo il denaro”. Bisogna leggere questa frase nel suo contesto: Trivulzio era un imprenditore militare del Rinascimento, un che riuniva e finanziava degli eserciti di mercenari per poi proporli sul mercato al miglior offerente.
Effettivamente il costo della guerra è sempre impressionante, spesso di molto superiore al profitto economico che ne possono trarre gli aggressori. Lo abbiamo riscontrato per l’ennesima volta nella primavera del 2022 con gli annunci di Europa e Stati Uniti sui miliardi “sbloccati” per fornire materiali militari alle forze ucraine. La guerra dipende così tanto dal denaro che la vittoria potrebbe anche essere automaticamente assegnata a chi sia disposto a investire più risorse per vincerla.
Eppure esistono diversi controesempi rispetto a questa presunta “evidenza”: per citarne uno, la schiacciante superiorità materiale degli americani non ha impedito la loro rovinosa sconfitta in Vietnam. Esperti militari e attori coinvolti non hanno mai smesso di denunciare i limiti di una lettura che considera come solo parametro della vittoria la mole dell’esercito, senza prendere in considerazione quelle che un tempo venivano chiamate le “forze morali”: ovvero l’impegno etico, l’energia spirituale, il investito nella battaglia (per attaccare o difendersi, reagire o distruggere), insomma la qualità morale della volontà militare.
Questa osservazione può sembrare eccentrica visto che la guerra è divenuta per noi sinonimo di barbarie e selvaggia atrocità. Ma la lettura dei testi ci obbliga a riconoscere che l’esperienza della guerra è stata, da Maratona alla Normandia, una formidabile matrice di virtù. Significante sovrano della moralità occidentale, la virtù ( in greco, in latino) non a caso rimanda etimologicamente al coraggio del soldato, alla sua determinazione. Dalla medesima radice linguistica derivano il morale e il soldato . La guerra è infatti saturata di figure etiche: dal prode cavaliere fino al cittadino che si arruola in difesa della libertà, pronto a morire per la patria. Una guerra idealizzata, sublimata? Quel che è certo è che per fare della guerra un’esperienza morale bisogna presupporre modalità di combattimento nelle quali non prevale la competenza tecnica, ma il coinvolgimento esistenziale.
Paradossalmente, nel corso dei secoli la guerra è stata pensata sia come laboratorio di virtù che come ritorno alla bestialità primitiva, riemersione di pulsioni primordiali. Il guerriero può dar prova sia di coraggio eroico che di inumanità selvaggia. Paradosso, ambivalenza, contraddizione, la guerra dal punto di vista morale è bipolare. È un momento di esaltazione di distruzione della morale, una fonte da cui sgorga l’etica il suo negativo. Sicuramente è possibile, e talvolta legittimo, risolvere questa contraddizione assegnando ognuno dei belligeranti a uno dei poli estremi di questa dualità, come si è continuamente fatto a proposito del conflitto ucraino: da una parte i russi, barbari e inebriati di sangue, dall’altra gli ucraini, eroici e tenaci. Questa polarizzazione sembra corrispondere all’opposizione tra forze d’aggressione composte da mercenari e forze di difesa composte da cittadine e cittadini che si battono per il loro territorio e la loro autonomia. Ma la domanda che dovremmo porci per capire l’enigma della guerra è un’altra: e se questo antagonismo fosse presente in ognuno di noi?
Torneremo sulla parte maledetta della volontà bellicosa nel capitolo “Perché la guerra?”, quando si tratterà di concentrarsi sulle sue motivazioni psicologiche: crudeltà impossibile da sradicare, pulsione di morte, aggressività atavica… Nell’attesa, possiamo concentrarci sulla parte più luminosa della questione, enumerando alcune evidenze etiche che da sempre appartengono alla guerra, anche se sono state oscurate dalla tecnicizzazione crescente dei mezzi militari. D’altronde, l’apparizione delle armi da fuoco – che permettono di dare la morte a debita distanza e a sorpresa, come gli antichi arcieri che non a caso hanno sempre avuto cattiva reputazione – aveva fin da subito sollevato il problema. Almeno nelle “guerre tra cristiani”, l’arco e la balestra erano stati proibiti dal secondo Concilio Lateranense, nel 1139, nel tentativo di condannare questa morte a tradimento, che non discende da un confronto e . Da questo punto di vista, la Prima Guerra Mondiale è stata un punto di non ritorno: era ormai chiaro a tutti che la guerra non poteva più costituire un’esperienza morale. Il coraggio, il valore, il senso dell’onore non potevano manifestarsi a fronte delle mitragliatrici e delle bombe. La battaglia era stata sostituita da un gioco crudele che consisteva nel correre fuori dalle trincee e farsi abbattere come i bersagli di un gioco da fiera. I numeri dell’offensiva della Somme, tra luglio e novembre 1916, sono spaventosi e insopportabili: solo nella prima giornata, il 1° luglio, si contarono decine di migliaia di morti. Un milione di feriti e di morti più tardi, gli Alleati avevano guadagnato solo dieci chilometri. La guerra era divenuta, con i fucili e gli obici, quella grande macelleria informe, anonima, che, lontano da ogni fantasticheria eroica, ci ha restituito il cinismo disilluso di Céline.
Ma torniamo prima di quel punto di rottura, per capire quello che per secoli aveva permesso di fare della guerra la matrice dei valori morali, e il cui ricordo ci ha fatto poi dire, di fronte all’invasione dell’Ucraina: “Questa volta è guerra”. Se quest’evidenza si è impressa con intensità sugli schermi e nelle coscienze è stato perché in questo conflitto si è disegnato, con spaventosa nettezza, il profilo della morte. Stava accadendo qualcosa di incredibilmente , nulla a che vedere con metafore, analogie, immagini. Si parlava di rovine e di cadaveri. Nel Medioevo, per dire “fare la guerra” si inventò l’espressione “mettere il proprio corpo in avventura di morte”.
Ma non è questa presenza della morte in quanto tale a definire la guerra. Dopotutto, i cadaveri ci sono anche nei regolamenti di conti tra bande rivali o nelle azioni dei criminali psicopatici. La morte in guerra ha una configurazione speciale, quella di uno , potremmo dire “ritualizzato”. Due entità, due eserciti si affrontano seguendo specifiche regole di combattimento, secondo temporalità e spazialità definite. In guerra, ognuno minaccia la vita dell’altro nella misura in cui espone la propria. La “vera” guerra esige questa reciprocità nel rischio mortale. Di conseguenza, sono comprensibili la condanna e la qualifica di “crimini di guerra” rivolte alle forme di uccisione di civili innocenti, o anche di soldati nemici disarmati. Sono crimini di guerra i bombardamenti di edifici privati e i massacri immotivati. Inutile osservare che da questo punto di vista si potrebbero considerare dei crimini di guerra anche i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, lasciando da parte il contesto (la guerra totale) e l’obiettivo strategico preciso (evitare le pesanti perdite ingenerate da un’invasione di terra e mettere fine alla guerra mondiale).
La forma più compiutamente realizzata di reciprocità nello scambio di morte si intravede nella versione totalmente idealizzata, diremmo quasi leggendaria, che si manifesta nell’epica: i combattimenti tra cavalieri – dai versi di Omero fino alla saga di , passando per il ciclo della Tavola Rotonda. Sono duelli faccia a faccia, fatti di scontri tra forze contrastanti. Tutto si svolge in piena luce, lealmente, preferibilmente in qualche radura, o comunque in uno spazio . Si rispetta l’avversario, tentando di conseguire una vittoria e non di annientarlo, di sovrastarlo invece di distruggerlo. Non c’è spazio per il disprezzo: il suo valore determina il mio. Il combattimento si nutre della volontà di superarsi a vicenda, in modo da trarre dalla resistenza dell’altro un’energia supplementare. Presuppone quindi un’energia positiva, un ardore indubbio, una vitalità, un cuor di leone1.
Qui il rischio, spesso denunciato, è che si scateni in modo caotico un turbine di forze incontrollabile, una follia assassina sempre in agguato: è la tragedia di Aiace in Sofocle, è il mito del cavaliere impazzito. Contro questo caos si erge una barriera fatta di narrazioni: nella pugna i cavalieri e i guerrieri arcaici vengono distolti dal furore in ragione della loro memoria futura, aspirando a diventare protagonisti di racconti eroici, scolpendo il profilo della loro “bella morte” come unica vera vittoria.
Battersi, dunque, consiste nel mettere il proprio coraggio al servizio di un’azione valorosa, raccogliere nel fuoco della battaglia quel che serve ad accrescere le proprie energie. Questa esaltazione dinamica della guerra è molto antica e si ritroverà costante nei secoli: dalla guerra “fresca e gioiosa” che mette “una lacrima...