E-Book, Italienisch, 192 Seiten
Reihe: Figure
Han Perché oggi non è possibile una rivoluzione?
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-7452-975-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Saggi brevi e interviste
E-Book, Italienisch, 192 Seiten
Reihe: Figure
ISBN: 978-88-7452-975-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
'Mi spiace, ma i fatti sono questi,' risponde Han quando, in un'intervista uscita su Zeit Wissen, gli fanno notare che le sue riflessioni non sono molto incoraggianti. 'Scrivo quel che vedo. I miei libri possono ferire poiché mostro cose che la gente non vuol vedere. Ma non sono io, non è la mia analisi a essere spietata, bensì il mondo in cui viviamo, con la sua follia e la sua assurdità'. Questo volume raccoglie gli interventi più significativi di uno dei massimi critici dell'assurdo mondo contemporaneo. Han ci restituisce un affresco lucido e dissacrante dell'epoca neoliberista e dei suoi paradossi, dai 'ragazzi che si fanno fotografare mentre saltellano all'impazzata' al burnout, dai migranti alle sculture levigate di Jeff Koons, da Big Data al coronavirus e alle misure di contenimento della pandemia, in una società già di per sé 'organizzata in chiave immunologica' e sull'orlo del collasso. Nel presente la coazione a produrre assume sempre più esplicitamente le forme dell'autosfruttamento e soprattutto dell'autodistruzione, giacché noi per primi 'sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta' e le conseguenze devastanti del capitalismo giunto al suo culmine richiamano in modo preoccupante il concetto freudiano di pulsione di morte. Perché oggi non è possibile una rivoluzione è una perfetta introduzione al pensiero radicale di Byung-Chul Han, e dunque è anche un invito, aperto e appassionato, a invertire la rotta.
Weitere Infos & Material
Perché oggi non è possibile una rivoluzione
Quando qualche tempo fa c’è stato un dibattito tra me e Antonio Negri presso la Berliner Schaubühne, si sono scontrati due approcci critici al capitalismo. Negri spera ardentemente nella possibilità di una resistenza globale contro l’“Impero” del sistema di dominio neoliberista. Lui si è presentato come un comunista rivoluzionario, e ha descritto me come un professore scettico. Negri ha evocato con enfasi la “moltitudine”, la massa interconnessa dedita alla protesta e alla rivoluzione, che secondo lui sarebbe capace di far crollare l’Impero. A me tale posizione da comunista rivoluzionario è parsa invece troppo ingenua e lontana dalla realtà. Così ho cercato di spiegare a Negri perché, oggi, una rivoluzione non è possibile.
Come mai il sistema di dominio neoliberista è così stabile? Come mai ci sono così pochi fenomeni di resistenza? E come mai questi si traducono tutti, ben presto, in un nulla di fatto? Come mai oggi non è più possibile una rivoluzione nonostante la forbice tra i poveri e i ricchi diventi sempre più grande? Per spiegarlo bisogna capire con esattezza come funzionano, oggigiorno, il potere e il dominio.
Se si vuole instaurare un nuovo sistema di dominio bisogna sconfiggere ogni resistenza. Ciò vale anche per il sistema neoliberista. Per introdurre un nuovo sistema di dominio è indispensabile un potere capace di imporsi, spesso accompagnato dalla violenza. Questo potere che impone, però, non è identico al potere che stabilizza internamente il sistema. È noto come Margaret Thatcher, pioniera del neoliberismo, trattasse i sindacati quali “nemici interni”, avversandoli con forza. Ma un intervento che voglia imporre con la forza l’agenda neoliberista non incarna quel potere capace di preservare il sistema.
Il potere stabilizzante della società disciplinare e di quella industriale era repressivo. Gli operai delle fabbriche venivano sfruttati senza pietà dai padroni e lo sfruttamento brutale condusse a proteste e resistenze. Allora sì che era possibile una rivoluzione capace di rovesciare i rapporti di produzione vigenti. In quel sistema repressivo erano visibili sia l’oppressione, sia gli oppressori. Esisteva una controparte concreta, un avversario visibile cui opporre resistenza.
Il sistema di dominio neoliberista è strutturato in maniera profondamente diversa. Il potere stabilizzante non è più repressivo, bensì seduttivo, e non è più così visibile come sotto il regime disciplinare. Non c’è una controparte evidente, non c’è un nemico che opprime la libertà e contro cui sarebbe possibile opporre resistenza.
Il neoliberismo ha modellato, a partire dall’operaio oppresso, un libero imprenditore – un imprenditore di se stesso. Oggi, ciascuno è un operaio che si sfrutta da solo, un dipendente di se stesso. Ciascuno è al contempo servo e padrone, per cui la lotta di classe si è trasformata in una lotta interiore. Chi oggi fallisce si dà la colpa e si vergogna: individuiamo il problema in noi stessi, piuttosto che nella società.
Il potere disciplinare che con grande dispendio di energie costringe le persone in un corsetto di comandamenti e divieti è, a ben vedere, inefficiente. Molto più efficace, invece, la tecnica di potere che fa sì che le persone si sottomettano volontariamente. Tale efficacia si fonda sul fatto che il potere qui non funziona mediante divieti e restrizioni, bensì facendo leva sul piacere e sulla soddisfazione dei desideri. Anziché renderle remissive, cerca di rendere le persone dipendenti. Tale logica di efficienza neoliberista vale anche per la sorveglianza. Negli anni Ottanta ci sono state forti proteste contro il censimento, persino gli studenti sono scesi in piazza.
Dall’ottica odierna, le informazioni tipiche di un censimento – come il mestiere, il livello di studio o la distanza dal posto di lavoro – sembrano quasi ridicole. Quelli erano anni in cui si credeva di dover opporre resistenza allo Stato inteso come autorità repressiva che puntava a strappare informazioni ai cittadini contro il loro volere. Oggi ci denudiamo volontariamente. È proprio questo senso di libertà a rendere impossibile la protesta. Al contrario dell’epoca dei censimenti, oggi protestiamo pochissimo contro la sorveglianza. Questo denudamento, questo volontario passarsi ai raggi X, segue la medesima logica di efficacia dell’autosfruttamento. Protestare contro cosa? Contro se stessi? L’artista concettuale americana Jenny Holzer ha messo in risalto questa situazione paradossale in uno dei suoi “truismi”: “Protect me from what I want”.
È importante distinguere tra potere che s’impone e potere che preserva. Il potere che salvaguarda il sistema assume oggi una forma affabile, “smart”, rendendosi invisibile e inattaccabile. Il soggetto sottomesso non sa nemmeno di esserlo, e anzi crede di essere libero. Questa tecnica di dominio neutralizza la resistenza in maniera efficacissima. Le forme di dominio che sottomettono e attaccano la libertà, al contrario, non sono stabili. Il regime neoliberista è stabile proprio perché si immunizza contro qualsiasi resistenza e usa la libertà invece di opprimerla. L’oppressione della libertà suscita ben presto resistenza. Lo sfruttamento della libertà no.
La Corea del Sud è uscita paralizzata e sotto shock dalla crisi economica asiatica, dopodiché è arrivato il Fondo Monetario Internazionale a erogare prestiti ai coreani. In cambio, il governo ha dovuto imporre un’agenda neoliberista in barba alle proteste. Il potere repressivo è il potere che s’impone e che spesso ricorre alla violenza. Ma esso si distingue da quello che consolida il sistema e che nel regime neoliberista si spaccia persino per libertà. Per Naomi Klein, lo stato di shock sociale che segue a catastrofi quali la crisi economica in Corea del Sud o in Grecia rappresenta una ghiotta occasione per imporre con la forza una radicale riprogrammazione della società. Oggi in Corea del Sud non si registrano quasi forme di resistenza, anzi dilagano conformismo e consenso uniti a depressione e burnout. La Corea del Sud ha il più alto tasso di suicidi al mondo: si fa violenza a se stessi invece di cercare il cambiamento nella società. L’aggressione verso l’esterno, capace di provocare una rivoluzione, cede il passo all’aggressione verso se stessi.
Nell’epoca odierna non esiste una moltitudine collaborativa e interconnessa in grado di elevarsi a protesta globale, a massa dedita alla rivoluzione. È, piuttosto, la solitudine a caratterizzare l’attuale regime produttivo di isolati imprenditori di se stessi. A suo tempo, gli imprenditori erano in concorrenza gli uni con gli altri, mentre all’interno dell’azienda era possibile la solidarietà. Oggi la concorrenza è ovunque, anche all’interno della medesima ditta. La concorrenza universale aumenta senza dubbio la produttività a livelli spaventosi, ma distrugge la solidarietà e il senso di comunità, giacché non può nascere una massa dedita alla rivoluzione mettendo insieme individui esausti, depressi e isolati.
Non si può spiegare il neoliberismo in chiave marxista. In esso non si trova nemmeno la celebre “alienazione” causata dal lavoro. Oggigiorno ci buttiamo con euforia nel lavoro, fino al burnout – e infatti il primo stadio della sindrome da burnout è proprio l’euforia. Burnout e rivoluzione si escludono a vicenda, quindi è erroneo credere che la moltitudine possa scalzare l’impero parassitario, instaurando al suo posto una società comunista.
Come siamo messi oggi col comunismo? In ogni dove si evocano e condivisione. La sharing economy dovrebbe sostituire l’economia della proprietà: “Sharing is caring”1, recita la massima dei nel di Dave Eggers, e la pavimentazione che porta al quartier generale dell’azienda che dà il titolo al romanzo è costellata di slogan quali “Socializza” o “Partecipa”2. In realtà il motto principe dovrebbe essere “sharing is killing”. Anche WunderCar, il sito che organizza passaggi in auto e che trasforma ciascuno di noi in un tassista, promuove un’idea di comunità. È tuttavia fallace credere che la sharing economy, come sostiene Jeremy Rifkin nel saggio , segni la fine del capitalismo annunciando una società globale organizzata in modo comunitario nella quale la condivisione ha più peso del possesso. Al contrario: la sharing economy conduce a una commercializzazione totale della vita.
Il passaggio dal possesso all’“accesso”, tanto celebrato da Rifkin, non ci libera dal capitalismo. Chi non ha soldi, non ha nemmeno accesso allo sharing. Anche nell’era dell’accesso continuiamo a vivere in un panottico esclusivo, che taglia fuori chi è senza soldi. Airbnb, il mercato immobiliare comunitario che trasforma qualsiasi abitazione in un hotel, arriva a sfruttare economicamente persino l’ospitalità. L’ideologia della o del collaborativo porta a una capitalizzazione totale della comunità. Non è più possibile un’affabilità senza secondi...