E-Book, Italienisch, 156 Seiten
Reihe: Figure
Han Vita contemplativa
1. Auflage 2023
ISBN: 979-12-5480-068-3
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
o dell'inazione
E-Book, Italienisch, 156 Seiten
Reihe: Figure
ISBN: 979-12-5480-068-3
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Il motore potente e implacabile della società contemporanea è il principio di prestazione. Oggi l'inazione, la contemplazione, l'ascolto sono considerati forme passive, debolezze, carenze: non sembrano avere alcun valore in un sistema che concepisce la vita esclusivamente in termini di lavoro e produzione. Eppure, secondo Byung-Chul Han l'inazione è una delle attitudini più preziose dell'esistenza: nella contemplazione, infatti, l'essere umano vive davvero - al di là della mera sopravvivenza, in cui ogni agire è mosso da stimoli e mirato all'appagamento dei propri bisogni, alla risoluzione di problemi determinati, al raggiungimento di obiettivi spesso eterodiretti. Solo il silenzio permette di tendere l'orecchio al mondo, e solo l'ascolto può condurre all'esperienza vera, alla comprensione profonda dell'essere. L'inazione, dunque, non è né negazione né semplice assenza d'azione, ma va intesa come ciò che 'dà forma all'ambito dell'humanum', rendendo genuinamente umano l'agire. In questo libro lucido e ispirato Han celebra le infinite potenzialità, l'incanto e la ricchezza del non agire e, in uno stimolante confronto con Vita activa di Hannah Arendt, progetta un nuovo modo di vivere: la vita contemplativa che la natura e la nostra società sull'orlo del collasso oggi chiedono a gran voce. Perché 'il futuro dell'umanità', scrive il filosofo, 'non dipende dal potere di chi agisce, bensì dal rilancio della capacità contemplativa'.
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Dall’agire all’essere
Angelus novus ci questa
Walter Benjamin1
Hannah Arendt intende il XX secolo come un’epoca dell’agire. In effetti, persino il nostro rapporto con la natura non è caratterizzato dall’osservazione stupefatta, bensì solo dall’agire. Tramite la dimensione interpersonale, l’uomo agisce fin dentro la natura sottomettendola interamente al proprio arbitrio. Così facendo, scatena processi che senza tale interferenza non emergerebbero mai, e che conducono a perdite totali di controllo:
È come se avessimo trasferito nella natura la nostra stessa imprevedibilità, ovvero il fatto che nessun essere umano ha chiare davanti agli occhi le conseguenze delle proprie azioni, e con essa avessimo trasportato in un ambito diversissimo proprio l’antica legge di natura sulla cui assoluta validità volevamo fare affidamento, in quanto siamo noi gli imprevedibili e gli inaffidabili per antonomasia, e questo ambito è quello delle leggi che regolano l’umano agire, le quali a loro volta non hanno mai una validità universale né possono mai essere assolutamente affidabili2.
L’antropocene è il risultato della totale sottomissione della natura all’agire umano. Essa smarrisce così qualsiasi autonomia e dignità, diventa una componente, un’appendice della storia umana. Il potere naturale di dettar legge viene sottomesso all’arbitrio dell’uomo, cioè all’imprevedibilità delle nostre azioni. Noi la Storia agendo. E ora la natura dissolvendola completamente in rapporti prodotti dal nostro agire. L’antropocene marca il momento storico in cui la natura viene assorbita e sfruttata in toto dall’agire umano.
Cosa si può fare dinanzi alle catastrofiche conseguenze, sempre più evidenti, di questa ingerenza attiva nella natura? Arendt ammette con franchezza di non avere risposte. Tramite le sue riflessioni ha solo voluto incoraggiarci a “indagare sull’essenza e le possibilità dell’azione che mai prima di allora si era mostrata con tale evidenza nella sua grandezza e rischiosità”. Arendt avrebbe inoltre voluto stimolare una “meditazione” [],
[…] il cui risultato finale, probabilmente ancora molto lontano, sarebbe una filosofia della politica commisurata alla nostra epoca e alle nostre esperienze3.
Quale “filosofia della politica” instillerebbe una “meditazione” volta ad analizzare scientemente l’intero problema dell’agire umano? Una filosofia critica dell’agire? In , Arendt illustra le azioni umane soprattutto nella loro grandezza e dignità. È l’agire nella sua forma enfatica a creare la Storia. Arendt vede la pericolosità delle azioni umane solo nell’imprevedibilità delle loro conseguenze. Anche in seguito, ella non ritiene mai che l’assolutizzazione dell’agire umano possa essere responsabile delle catastrofi che già a suo tempo si stavano prefigurando. In quanto lontano risultato di una meditazione profonda, la filosofia dovrebbe invece considerare proprio la capacità umana di .
“Agire” è il verbo della Storia. L’ di Benjamin è alle prese con le conseguenze esiziali delle azioni umane. Ai suoi occhi, la montagna di detriti della Storia arriva fino in cielo. Egli non riesce però a spianarla, poiché la tempesta del futuro, chiamata “progresso”, lo porta via con sé. Gli occhi e la bocca spalancati rivelano impotenza e raccapriccio: la storia umana è un’apocalisse senza fine. Si tratta, per l’esattezza, di un’, dove a essere catastrofica è la :
Il concetto di progresso va fondato nell’idea della catastrofe. Che “tutto continui così” la catastrofe. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato […]. L’inferno non è qualcosa che ci attenda, ma è questa vita qui4.
Catastrofico non è allora il sopraggiungere di un evento inatteso, ma la continuità dell’avanti-così, la continua ripetizione dell’Eguale. In tal modo, il Nuovissimo si rivela essere l’Eguale:
Si tratta del fatto […] che il volto del mondo, il suo capo macroscopico, proprio in ciò che è più nuovo non cambia mai, che questo “nuovo” in tutti i suoi pezzi rimane sempre lo stesso. Ciò costituisce l’eternità dell’inferno5.
Ne segue che la salvezza consiste in una radicale . Solo un sarebbe in grado di porre un freno all’agire umano che tende imperterrito all’apocalisse.
Alcuni anni prima dell’uscita di , Heidegger tenne una lezione dal titolo “Scienza e meditazione”. Al contrario dell’agire che si spinge innanzi, la meditazione ci riporta là dove . Essa ci rivela quindi un esser qui [] che precorre, anzi pre-indugia [] qualsiasi fare, qualsiasi azione. Insita nella meditazione vi è una dimensione dell’inattività che si abbandona a ciò che :
Seguire una via che una cosa () ha presa si dice, nella nostra lingua, sinnan, sinnen […]. Essa è il tranquillo abbandono () a ciò che è degno di essere domandato. Attraverso la meditazione così intensa, noi perveniamo propriamente là dove, senza ancora esperirlo e senza ancora vederlo chiaramente, già da molto soggiorniamo. Nella meditazione noi andiamo verso un luogo a partire dal quale soltanto si apre originariamente lo spazio entro cui ogni nostro fare e non fare di volta in volta si muove6.
La meditazione è la capacità di : essa implica lo star fermi quale , . Nei , Heidegger scrive: “Che succede se il presagio della quieta potenza della meditazione inerte scompare?”7 Il presagio non è un sapere deficitario, anzi ci rivela l’, il che si sottrae al sapere propositivo. Solo tramite il presagio abbiamo accesso al luogo in cui l’essere umano si trattiene da sempre:
Il presagio […] non riguarda, come il comune presagio pensato alla maniera del calcolo, solo il futuro e il tempo imminente, ma misura e comprende l’intera temporalità: il gioco di spazio-tempo del [qui]8.
Il presagio non è il “il primo gradino della scala del sapere”: esso consente, semmai, l’accesso a quel “padiglione”9 in cui ha sede, quindi luogo, tutto ciò che si può sapere. Il pensiero heideggeriano gravita instancabilmente attorno al primordiale che non si lascia raggiungere mediante alcun sapere propositivo.
La “meditazione inattiva” si dedica alla che si sottrae all’azione. I suoi passi “non portano avanti, ma a ritroso, là, cioè, dove già siamo”10. Essi ci “conducono […] soltanto dove già siamo”11. Nella sua radicale immanenza, il di cui si parla ci è perché possiamo ignorarlo: esso è appunto l’“eccesso di vicinanza”, superiore persino all’oggetto che ci è accanto. Chi è sempre in azione inevitabilmente salta a piè pari questo livello, che si rivela solo all’indugiare inattivo e contemplativo. Heidegger snocciola un intero vocabolario dell’inazione allo scopo di dar voce al prepropositivo. Lo si coglie anche nella sua descrizione dell’attesa: “Il rimanere in attesa è una facoltà che supera qualsiasi forza di agire. Chi riesce a ritrovarsi nel saper stare in attesa oltrepassa qualsiasi attività produttiva e qualsiasi successo”12. Solo nell’attesa priva di intenzioni, nell’indugio che attende, l’essere umano diventa consapevole del luogo in cui si trova: “Nell’attesa, l’essenza dell’uomo viene raccolta...