Harstad | Che ne è stato di te, Buzz Aldrin? | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, 520 Seiten

Harstad Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?


1. Auflage 2010
ISBN: 978-88-7091-257-9
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 520 Seiten

ISBN: 978-88-7091-257-9
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



In un mondo in cui tutti vorrebbero stare sotto ai riflettori per almeno un quarto d'ora di celebrità, Mattias ha scelto di vivere nell'ombra e apparire il meno possibile: non tutti vogliono essere il numero uno, come Buzz Aldrin, il secondo uomo sulla Luna, che ha svolto la sua missione, ha messo piede sul satellite dopo Neil Armstrong ed è scomparso nella folla: chi si ricorda di lui? Nessuno tranne Mattias: per lui l'astronauta è un idolo, simbolo di tutti coloro che fanno la loro parte senza reclamare attenzione, piccole, indispensabili ruote del grande ingranaggio. E Mattias non chiede altro che coltivare il proprio giardino - letteralmente, dato che lavora in un vivaio avere una vita normale insieme a Helle, la ragazza che ama dal liceo: allora, e solo per farsi vedere da lei, Mattias è salito una volta sul palco e ha cantato con la voce straordinaria che aveva sempre nascosto a tutti. Ha sempre rifiutato gli inviti dell'amico Jørn, che lo voleva a tutti i costi come cantante nella sua band: il ruolo di frontman non fa certo per lui. È l'estate del 1999, l'anno prima che inizi il futuro, il tempo è passato e l'esistenza felicemente anonima di Mattias sembra sempre più un riparo dagli altri e dalla vita. Fino a quando Helle lo lascia, il vivaio chiude, e Mattias si ritrova solo, a fluttuare fuori dalla propria orbita. Jørn sta partendo con la band per un concerto alle isole Faroe, lo vuole con sé almeno come fonico: forse perché non gli resta altro, Mattias accetta, s'imbarca, pronti al decollo...

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2


Stavo intralciando la strada, chissà da quanto tempo. Ero disteso al centro della carreggiata umida, con la faccia premuta sull’asfalto. Pioveva, era notte e non c’era un solo albero nel raggio di miglia, solo colline e rilievi montuosi coperti da un’erbetta corta e verde, quasi grigia nell’oscurità, che vibrava nel vento. Ero affamato, non riuscivo a ricordare quando avevo mangiato l’ultima volta, ma doveva essere almeno ventiquattr’ore prima. Eravamo arrivati, eravamo sbarcati a Tórshavn ma non riuscivo a ricordarmi cosa avessimo fatto, com’ero finito lì, tutto era avvolto in una nebulosa poltiglia in qualche recesso del mio cervello. Avevo la nausea, mi faceva male la testa quando mi tirai su a sedere, sempre in mezzo alla strada. La mano sinistra mi pulsava dal dolore, dita sporche, nocche insanguinate senz’ombra di spiegazione. Avevo picchiato qualcuno? Era successo qualcosa sulla nave? Ricordo che ero arrabbiato: perché? La pioggia. Le gocce che puntavano su di me da quattromila piedi d’altezza e mi colpivano alla nuca, sui capelli, gocciolavano sull’asfalto formando laghetti che lentamente colavano via. Mi alzai, operazione che mi costò un terribile dolore alla schiena, ma mi alzai e rimasi dritto. Ricordavo il vino, i bicchieri, bocche tanto enormi e ridenti che si vedeva l’ugola, ricordavo la traversata. Ricordavo che non avevo bevuto tanto in realtà, ma stavo male lo stesso, c’era un mare spaventoso e l’orchestra bulgara suonava e qualcos’altro, forse semplicemente , quella canzone svedese, anche se era svedese cantato in cirillico. Mi appoggiai contro un segnale sul ciglio della strada, e vidi che c’era scritto 80km/h, troppo veloce per me.

Rimasi così per qualche minuto, senza sapere cosa fare di me stesso. Mi guardai intorno. Sopra di me nuvole basse, nere e pesanti si mescolavano alla foschia che esalava piano dai campi inumidendo tutto al passaggio, mentre il vento soffiava dal mare proprio sotto la strada e gli spruzzi annaffiavano i guardrail, consumavano il metallo e l’asfalto.

Guardai in giù: le mie gambe, le scarpe inzuppate d’acqua. Accanto ai piedi c’era il sacchetto di un negozio di Stavanger che conoscevo appena. Lo presi, lo aprii e ci guardai dentro, trovai la tuta con la magnolia del vivaio, ancora intonsa, ben piegata e brillante. Perché l’avevo con me? Mi misi a passare in rassegna le tasche, in cerca di qualche indizio su quel che avevo potuto combinare nelle ultime ore, ma non trovai molto. Uno scontrino gualcito di City Burger e una ricevuta di un locale nel quale di certo eravamo stati, per una somma piuttosto alta. Un pacchetto di sigarette schiacciato, zuppe anche quelle, non mie, nella tasca posteriore. Attraverso la stoffa sentii il portafogli nella tasca interna, lo tirai fuori e lo esaminai. Non mancava nulla. Mentre lo rimettevo a posto notai che c’era qualcos’altro, un oggetto spesso. Sentii la carta sotto le dita, tirai fuori una busta piccola, marrone, la aprii con attenzione per esaminare il contenuto. E vidi il denaro, un mazzetto di fogli. Quindicimila corone. Erano mie? Buio. Rimisi i soldi nella busta, la ficcai di nuovo in tasca.

Ero appoggiato contro il segnale, pioveva. Avevo quindicimila corone in tasca e neppure un ombrello. E non avevo la minima idea di cosa fosse accaduto, di dove fossero gli altri. La strada sembrava identica e infinita in entrambe le direzioni, perciò cominciai a camminare verso sinistra, così. Non so perché, non avevo in programma di andare in nessun posto particolare, era lo stesso. Forse andavo pure in direzione della città, chi poteva dirlo. Camminavo verso sinistra, controvento, con una mano intorno al sacchetto di plastica e l’altra al collo della giacca, lungo la strada, seguendo il guardrail. Non ricordavo di dover andare da qualche parte, perciò una strada valeva l’altra. Le mie scarpe gorgogliavano a ogni passo e sentivo le dita dei piedi diventare sempre più fredde nelle scarpe leggere, la pelle umida che si gonfiava e cominciava a grattare contro il tessuto ruvido e a lacerarlo.

La mia prospettiva temporale di quei giorni è decisamente confusa, perciò non saprei dire con precisione per quanto tempo seguii quella strada, potrebbe essere una mezz’ora come anche ore. La sensazione era ore. Il paesaggio era più o meno lo stesso ovunque, montagne brulle e pianure, coperte solo da quell’erbetta corta e battute dal vento che ci soffiava sopra da tutte le direzioni. Ad ogni modo credo di aver camminato abbastanza perché intorno a me facesse buio e poi di nuovo chiaro, o forse le nuvole si erano un po’ diradate lasciando sbucare la luna tra uno strato e l’altro. Mi ricordo che diventava sempre più facile distinguere da lontano, in anticipo, i camion che mi venivano incontro con frequenza irregolare. Avrei potuto fare l’autostop. Avrei potuto mettermi in mezzo alla strada, pollice in fuori, fermare un camion e farmi dare un passaggio, sperando che andasse in città. Non lo feci. Non so perché. Continuai solo a camminare, cercando di farmi piccolo e di appoggiarmi contro il vento, mentre sentivo la fronte sempre più gelata per la pioggia che mi frustava la faccia e tenevo gli occhi socchiusi per poter vedere almeno qualcosa in quel tempo orribile.

Credo di aver pensato a Buzz Aldrin, ai primi passi che aveva fatto nel Mare della Tranquillità trent’anni prima, lui non aveva brutto tempo, non aveva proprio nessun tempo, tutto era perfettamente calmo, niente atmosfera, non una goccia d’acqua e le impronte che aveva lasciato nella polvere lunare, nel basalto, sarebbero durate milioni di anni, forse più di tutti noi. Le mie impronte erano lavate via ad ogni passo, e nemmeno tutti gli indiani del mondo sarebbero stati in grado di risalire a me in questo caos.

Camminai così una mezz’ora o forse ore, appoggiato al vento, con le dita indolenzite, un mal di testa martellante e la nausea. Seguivo la strada senza meta né scopo, vidi qua e là una pecora che si era perduta, fuggita da uno di quei piccoli stabbi di pietra tirati su dai contadini per proteggere le bestie dai peggiori acquazzoni, come questo, quando tutti gli uomini e le bestie di buon senso se ne stavano barricati al coperto, e le pecore si fermavano di colpo quando mi vedevano, con la testa piegata di lato, mi seguivano con lo sguardo finché non erano distratte da qualcosa di più interessante o scomparivano alla mia vista nella nebbia, tornavano indietro e si sdraiavano. E allora mi venne quell’idea. Avrei dovuto evitare, ma mi venne. Avevo freddo. E quando sul pendio apparve un’altra pecora, un animale nero, a pelo lungo, attraversai la strada nella sua direzione e cominciai a risalire la collina, mi avvicinai sempre di più e la pecora cominciò lentamente, ma decisamente a indietreggiare man mano che mi avvicinavo. Poi di colpo fece dietrofront e si mise a correre su per la montagna e io credo di esserle corso dietro finché mi ha retto il fiato. Scattai in avanti nella pioggia, diedi il tutto per tutto, correvo nell’erba scivolosa su per la costa ripida pensando che se avessi trovato il resto del gregge avrei potuto pigiarmi in mezzo a loro, nella lana, e cercare di asciugarmi. Ma la pecora era più veloce di me, conosceva la strada e io avevo esaurito le forze, arrancavo e persi la mia busta, inciampai in una pietra e atterrai a peso morto su una mano, e un’esplosione di dolore bruciante mi trafisse le dita, per un attimo vidi tutto nero, poi ritornai in me, disteso nell’erba bagnata con il sangue che mi colava sulla giacca, sul braccio e intorno a me non c’era l’ombra di una pecora. Anzi, non volava una mosca.

Mi rialzai a fatica e recuperai la busta, tornai barcollando sulla strada, muto e contrariato, e proseguii il mio cammino. Smisi di pensare a quel che facevo, inserii il pilota automatico e avanzai con passo pesante per la campagna, e avrei potuto continuare così per giorni, senza nemmeno guardare dove andavo, la testa ciondolante sul petto e le mani abbandonate lungo i fianchi, un piede dietro l’altro, un metro dopo l’altro lungo la doppia linea bianca di mezzeria, tanto l’acqua non poteva bagnarmi più di quanto già non fossi.

Ricordo di essere passato in un tunnel a un certo punto, chissà se presto o tardi, comunque passai in un tunnel tenendomi in equilibrio sullo stretto marciapiede come una ballerina su una corda allentata, respirai resti di vecchio gas di scarico e uscii dall’altra parte, con la vista aperta su un’ampia vallata alla mia destra e davanti a me, sull’altro lato della strada, una fermata dell’autobus. Mi trascinai fin là, mi accasciai sulla panca. Controllai l’orologio. Si era fermato. Se ne stava lì piantato sulle sette e mezzo, difficile dire se fosse anche nelle vicinanze del vero. Posai con calma la busta sotto di me, e mi distesi sulla panca. A posto. Era una panca grande, il che era in sé un brutto segno: alle fermate, più grandi sono le panche e più lunga è l’attesa. Questa panca era grande e su una parete c’era incorniciato un foglio con l’orario completo. La maggior parte del testo era illeggibile, le lettere lavate dall’acqua, ma sembrava che l’autobus per Eysturoy passasse due volte al giorno tranne la domenica, quando non passava affatto. Non sapevo dove fosse Eysturoy e mi venne il timore che potesse essere domenica, ma lo scacciai. Non ero arrivato da tanto e la nave partiva da Bergen il martedì, quindi poteva essere mercoledì o giovedì, alla peggio. O sabato, come giurarci. Ma più...



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