E-Book, Italienisch, 192 Seiten
Ikstena Il latte della madre
1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-6243-323-5
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 192 Seiten
ISBN: 978-88-6243-323-5
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Lettonia, ottobre 1944: dopo un'occupazione durata più di tre anni le truppe hitleriane si ritirano e l'Armata Rossa entra a Riga. Questo romanzo a due voci inizia da qui. A dipanare la storia una madre e una figlia nei cinquant'anni che seguono la Seconda guerra mondiale, il loro rapporto intenso e tormentato, segnato dalla depressione materna e dal tentativo di arrestarne la tendenza autodistruttiva. A loro si aggiunge una terza figura femminile, la nonna, che vive nel racconto delle altre due, una narrazione che si snoda tra Riga, Leningrado e la campagna lettone parlandoci di memoria collettiva ed emancipazione femminile. Simbolo dell'epoca e dell'oppressione che grava sul destino di ognuno è il latte che, negato dalla madre alla propria figlia nei suoi primi giorni di vita, non è più linfa vitale ma un liquido amaro, disgustoso. Solo col tempo il latte riuscirà ad avere un sapore più dolce...
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*
Iniziò la solita routine dell’ambulatorio. L’estate calda aveva sortito il suo effetto. Continuavano ad arrivare, soprattutto per liberarsi dei feti. Ringraziai l’esilio che mi aveva tolto la possibilità di farlo. Mi limitavo a constatare la gravidanza. E non cercavo di raccontare quello che avevo visto con i miei occhi, il piccolo feto che tenta di sfuggire allo strumento che lo elimina dall’utero della madre. E sono due donne a farlo – entrambe in piena consapevolezza. E spesso gli uomini non sanno o non vogliono saperne niente, perché è una faccenda di donne, è il loro mondo femminile.
Il mondo femminile, dove la vita e la morte sono sempre pesate come sul bilancino di un farmacista che bisogna tenere in equilibrio, e non si sa mai da quale parte s’inclinerà.
Cercavo di essere felice per loro quando propendevano per la vita e mi portavano i bambini dalle guance paffute. Li avevano messi al mondo in una tana all’interno della grande gabbia dov’eravamo destinati a vivere. Dove avremmo dovuto vivere fino alla fine. Dove noi, i senzadio, vivevamo. Dove ci aveva posto Lei che dona la vita, ignorando l’inferno e il verme maligno.
Pensavo così spesso alla donna che aveva recitato le preghiere, l’avevo pensata così spesso che alla fine arrivò.
Il suo seno destro, come avevo previsto, era stato amputato. Ma era molto determinata e piena di vitalità. Il medico in città aveva detto che per il momento non c’era motivo di agitarsi. La formazione maligna era stata eliminata e non ce n’era più traccia in nessuna parte del corpo.
Le dissi che ero andata diverse volte alla chiesa, ma era vuota.
Be’, non ci andava nessuno oltre a lei. Ma adesso ci sarebbe tornata, anzi l’avrebbe fatto più spesso. Doveva ringraziare Lei che dona la vita, perché il male era stato fermato. Perché Lei che aveva messo al mondo il Salvatore l’aveva salvata.
Mi lasciò un’immaginetta, quella stessa icona accanto alla quale l’avevo vista in preghiera. La Madre di Dio, un’aureola di luce intorno alla testa e un bambino in braccio. E una sottile candela di cera. Mi disse di accenderla quando mi sentivo triste.
Stava già andando via quando si girò e chiese com’ero riuscita a vedere la sua malattia.
Soltanto esperienza, dissi. Esperienza medica.
No, no, disse. Io mi sono accorta che lei è capace di vedere più lontano.
Salutò e andò via.
Aprii la finestra per cambiare un po’ l’aria. Il vento di settembre faceva turbinare le foglie gialle portandole nella stanza e scompigliando le carte sulla scrivania. L’immaginetta con la Madre di Dio era caduta a faccia in giù. Pohoža na Vas, simile a voi, c’era scritto.
*
L’anno scolastico iniziò come al solito: sui campi di barbabietole e carote. Le piogge d’autunno non cessavano, noi sedevamo fradici sulle cassette, tagliando e strappando cime di barbabietole e carote. I mucchi nei campi sembravano interminabili. Giurai a me stessa che avrei fatto di tutto per non dover mai più sedere fradicia su una cassetta a strappare cime di barbabietola con guanti freddi e sporchi di terra. Non in cambio di pasti gratis, non per soldi. L’anno dopo sarei entrata nell’Unione della gioventù comunista, poi sarebbe arrivata l’estate e mi sarei trasferita un’altra volta in città per frequentare le scuole superiori. Una nuova fase della vita sarebbe cominciata.
I lavori nei campi del kolchoz sembravano non avere fine. Le lezioni iniziarono solo a metà ottobre. Impiegammo almeno una settimana a prendere il ritmo scolastico, dopo essere passati dai campi bagnati alle classi luminose e calde. E dopo aver indossato le uniformi scolastiche al posto di giacche, maglioni e stivali di gomma. Pranzavamo di nuovo alla mensa e non più nei campi, dove venivano portati grossi pentoloni di cibo in umido, pane e tè caldo, dove ci distribuivano cucchiai e ciotole di alluminio e noi mangiavamo avidamente, seduti sulle montagne di barbabietole e carote.
Meno male che non dovrai più faticare come una schiava, disse una sera mia madre. A scuola in città sarà tutto diverso.
Colsi nella sua voce il dolore al pensiero della separazione. Il dolore che per tutti quegli anni avevo conosciuto in ogni fibra del corpo. Il tempo dell’esilio ci aveva avvicinate.
Col gruppo teatrale della scuola mettemmo in scena le Favole sui fiori di Anna Sakse. A me toccò la parte del gelsomino. Una sera recitai insieme a mia madre la parte finale della favola. Lei era l’artista a cui appartenevano i colori e che voleva essere pregato, io il gelsomino che non sapeva piegarsi.
È una bella storia, disse mia madre. La vita spesso ci piega.
Io però ero entrata ormai nella parte del gelsomino. Non mi piegherò e non pregherò nessuno. Nemmeno se mi imbratteranno la faccia di pittura. O sto dritta o mi spezzo. Riuscii a recitare molto bene la mia parte. In un costume bianco fatto con un vecchio lenzuolo, sui gradini del piccolo palcoscenico dell’aula di canto della scuola rimasi ferma anche quando l’artista mi cosparse di giallo. Uno schizzo di colore mi colpì proprio in faccia. Nella sala risuonarono le risate. Io però me ne stavo immobile come un palo, guardando quelli che ridevano, fin quando tacquero e nel silenzio si sentì la voce del narratore: prova a piegarla – si spezzerà.
Molto presto la vita ci strappò dal mondo delle favole calandoci nella spettrale realtà. Il 10 novembre morì Leonid Il’ic Brežnev. Tutti pensavano che fosse immortale, eppure morì. Nella palestra della scuola, dove avevano luogo gli eventi solenni, fu esposta una grande immagine di Brežnev parata a lutto. Una sola domanda era sospesa nell’aria: cosa succederà adesso? Eravamo convinti che sarebbe scoppiata una guerra.
Per i funerali di Brežnev ci diedero un giorno di vacanza, ma con l’obbligo di guardare la cerimonia a casa, alla televisione.
A mia madre tutto questo sembrava una perfetta idiozia. Aveva comprato un paio di bottiglie di vino e le bevve nella sua stanza.
Terrorizzata all’idea che la guerra sarebbe certo scoppiata da un momento all’altro mi misi nella prima stanza, accesi il televisore marca Slavutic e guardai l’esercito e gli uomini di stato raccolti davanti alle mura del Cremlino. Risuonò una marcia funebre. Il momento più terribile fu quando la bara fu gettata con fragore nella fossa. Nessuno lo vide, ma a giudicare dal rumore doveva essere scivolato fuori dalla bara, rotolato su di sé e caduto di faccia nella buca. Era spaventoso immaginarlo. E adesso cosa sarebbe successo?
Dopo i funerali di Brežnev, a scuola nessuno era in vena di parlare. Brutti presentimenti aleggiavano nell’aria. Forse sarebbe scoppiata addirittura una guerra atomica, e sarebbe successo come a Hiroshima e Nagasaki, saremmo morti tutti e insieme a noi anche i fiumi, gli alberi, i prati, gli animali e i boschi.
Mia madre beveva tutte le sere. Tre giorni dopo i funerali di Brežnev, il 18 novembre, accese le candele nella sua stanza. Prese dei fiori e li sistemò sul tavolo: tre file di astri, due rosse e in mezzo una bianca. Non capivo cosa significasse. Le sue pupille erano dilatate e nere, parlava e si comportava in modo strano. Avevo paura di rimanere insieme a lei nella stanza, però aprivo ogni tanto la porta per controllare che fosse tutto a posto.
Forse avverrà un miracolo, forse adesso avverrà un miracolo, mormorava.
Mamma, riprenditi, ma quale miracolo, e la scossi per le spalle. Non ci sarà nessun miracolo adesso, ma la guerra. Mamma, ci sarà la guerra, forse addirittura una guerra atomica, e moriremo tutti. Gridavo quasi, e piangevo. Avevo paura della guerra, e anche di mia madre.
Lunga vita alla Lettonia! Vuotò la seconda bottiglia di vino, ormai era completamente ubriaca.
La misi a letto, la coprii e ispezionai disperatamente la sua stanza e la borsa. Buttai nel cestino tutte le pillole e misi da parte la bottiglia vuota.
Per tutta la notte rimasi accanto al suo letto, sentendole ogni tanto la fronte e il polso che in certi momenti galoppava forsennato, in altri era debolissimo.
Il suo respiro pesante era interrotto a volte da fiumi di parole. Farfugliava nel sonno indotto dal vino e dalle pillole. Parlava del miracolo che sarebbe avvenuto e della libertà che sarebbe arrivata, della bandiera che avrebbe sventolato con le sue tre fasce orizzontali: rossa, bianca e rossa. Di Dio che avrebbe dato la sua benedizione, della Lettonia che sarebbe vissuta in eterno. Poi riprendeva a respirare pesantemente. E gridava: si spezza, si spezza, si spezza. Poi un altro respiro profondo.
Mi distesi stringendomi a lei, tremavo. Se i battiti del polso avessero rallentato ancora sarei corsa dai vicini e avrei chiamato un’ambulanza.
Ma a poco a poco il respiro si fece più calmo e regolare. Le asciugai la fronte madida di sudore. Le candele sul tavolo si spensero. Il loro odore si mescolava a quello dei fiori. Aprii la finestra, l’aria tranquilla di novembre riempì la stanza.
*
La guerra non scoppiò. Un po’ per volta, lentamente, la quotidianità mi stava soffocando. Molto presto sarei rimasta sola con quella routine. Dopo l’autunno sarebbe venuto l’inverno, dopo l’inverno la primavera, dopo la primavera l’estate, e poi mia figlia sarebbe andata via. La mongolfiera della vita, già a corto d’aria, si sarebbe sgonfiata ancora un po’. Il mio percorso all’interno della gabbia si sarebbe ridotto ulteriormente, sarebbe stato sempre più breve e stretto. Come quello di un cane bastonato – da casa all’ambulatorio, dall’ambulatorio a casa. Niente cambierà mai,...




