E-Book, Italienisch, Band 2, 162 Seiten
Reihe: Iconografie
Jäger Iperpolitica
1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-8056-321-1
Verlag: Nero editions
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Politicizzazione senza politica
E-Book, Italienisch, Band 2, 162 Seiten
Reihe: Iconografie
ISBN: 978-88-8056-321-1
Verlag: Nero editions
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Anton Jäger (1994) è uno storico belga specializzato in storia del pensiero economico, populismi e crisi della democrazia. PhD a Cambridge, post-doc a Leuven, è oggi lettore a Oxford e contributor del New York Times, del New Statesman e di New Left Review.
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INTRODUZIONE
Iperpolitica
Le fotografie hanno una tonalità brillante, quasi fluorescente. Il tema che le collega è «l’amore». In un ritratto intitolato Love (hands in the hair), una donna con i capelli rossastri e gli occhi chiusi è stretta da due mani protese dall’esterno dell’inquadratura. In Love (hands praying), una donna con gli occhi chiusi incrocia le mani in mezzo a una folla di persone in festa. Come in un rituale laico, sembra meditare nell’anonimato di un nightclub. Le persone nelle fotografie ballano al ritmo di una musica ispirata ai rumori emessi dai macchinari industriali di Detroit e di Manchester, le due città in cui è nata la techno.
Nel 1989, l’anno in cui queste foto sono state scattate, però, quei macchinari non erano più operativi. La maggior parte di essi era stata ridimensionata o delocalizzata in Cina, e le due città gemelle della techno si erano deindustrializzate. Viaggiando in una megalopoli cinese alcuni anni prima, la fotografa tedesca Hilla Becher aveva notato una copia riassemblata di un’acciaieria che aveva già fotografato una volta in Europa.1 I giovani fotografati da Wolfgang Tillmans nella sua serie sulla vita notturna intitolata «Love» ballano per scordarsi dell’industria, della politica e della storia stessa.
Wolfgang Tillmans, Love, 1989. Courtesy Galerie Buchholz.
Vale la pena notare l’anno e il luogo in cui le foto di Tillmans sono state scattate. Documentano una Londra thatcheriana e una Berlino in cui il muro sta crollando. A Est, il socialismo reale è vicino al collasso. È il trionfo di un capitalismo veramente globale. La deindustrializzazione dell’Occidente sta accelerando. Nello stesso anno in cui il filosofo statunitense Francis Fukuyama pubblicava il suo famoso saggio sulla «fine della Storia» sul National Interest, la macchina fotografica di Tillmans diventava testimone di un esercizio di amnesia collettiva: un tentativo di scacciare gli spettri ideologici dell’ultimo secolo ed entrare silenziosamente in un’utopia privata. Si apriva l’era della «post-politica», in cui le strade del pubblico e del privato si erano separate e la stessa pratica politica entrava in un profondo declino. Come ha ricordato Tillmans stesso in un’intervista:
Ecco come poteva essere il vivere insieme: stare insieme in pace e godere con i propri sensi. Mi sembrava una cosa molto tangibile e intrinsecamente politica […] All’improvviso tutti sentivano che c’era questa utopia molto reale, e che si poteva vivere davvero questo sogno utopico.2
La testimonianza del fotografo cattura uno stato d’animo visibile in tutto il mondo sviluppato. In Iraq, le guerre di massa del XX secolo stavano lasciando progressivamente il posto a operazioni specialistiche architettate da avvocati e tecnocrati, che non richiedevano più il coinvolgimento sul campo. Il razzismo sembrava un problema da risolvere in tribunale, come evidenziato dalle Commissioni per la Verità e la Riconciliazione istituite nel Sudafrica post-apartheid. Ora del 1994, l’ex leader del Partito comunista italiano Achille Occhetto era volato a Wall Street, a dichiarare che le sue banche erano «il tempio della democrazia» e le sedi cittadine della NATO «il centro della civiltà». In una prefazione del 1992 al suo vecchio libro La società dello spettacolo (1966) il filosofo francese Guy Debord diagnosticò un mondo «ufficialmente unificato» in «un solo blocco» nell’«organizzazione consensuale del mercato globale».3 La situazione politica, faceva notare uno storico americano parlando degli anni Novanta, «sembrava così soddisfacente che il paese poteva occuparsi della pressante questione se la presunta stimolazione orale dei genitali del presidente da parte di una stagista della Casa Bianca costituisse o meno “un atto sessuale”».4
Ai margini di tutto ciò, Tillmans cercava di ritagliarsi uno spazio per crescere professionalmente, libero finalmente dai pesanti imperativi della politica di massa del XX secolo.
*
Alla fine degli anni Dieci del Duemila, tuttavia, il mondo di Tillmans sembra già diverso in modo preoccupante. Comincia a fotografare le proteste di Black Lives Matter. Va nei campi profughi. La sua pagina Instagram si riempie di bandiere europee e frammenti di discorsi di protesta. I suoi lavori oggi hanno una patina grigiastra, cromata, che contrasta in modo netto con i colori eterogenei che vediamo nelle foto del 1989.
Tillmans si impegna persino nella politica tradizionale, creando una serie di manifesti per la campagna Remain del 2016, contro l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. «Nessun uomo è un’isola. Nessun paese per conto proprio», «Ciò che è perso è perso per sempre», «È una questione di appartenenza. Noi siamo la famiglia europea». Gli slogan sono scritti su immagini eteree scattate dallo stesso Tillmans: immagini del cielo visto dal finestrino di un aereo. Da lontano sembrano riproduzioni digitali di un dipinto di Caspar David Friedrich. Rispetto al 1989, il paesaggio è chiaramente cambiato: Trump è stato eletto presidente nello stesso anno in cui la Gran Bretagna è uscita dall’Unione Europea; quattro anni dopo, le proteste di Black Lives Matter hanno dato vita alle più grandi manifestazioni di piazza nella storia americana. I paesaggi aperti che Tillmans aveva visto dal finestrino di un aereo nel 1989 stanno subendo una frammentazione, e in tutto il continente vengono innalzati muri. Da bambino era stato per la prima volta in Gran Bretagna negli anni Ottanta; i suoi poster per la campagna Remain volevano salvare quel mondo sommerso del 1989. «Come al solito, ovviamente, non è durata», ricorda.
Possiamo perdonare a Tillmans i suoi riferimenti romantici. Il fotografo aveva una prepotente nostalgia per l’epoca post-storica: quarant’anni di utopia artistica si stavano disgregando, e lui rispondeva con riferimenti agli stessi anni Novanta. Immagini di empatia, unità, amore. La sua era «arte dopo il liberalismo», per dirla con le parole di un critico.5 In questo senso si dimostrava anche il figlio perfetto dell’epoca post-rivoluzionaria. Come aveva fatto notare il filosofo francese Jean Baudrillard nel 1994, cinque anni dopo le feste fotografate da Tillmans, «i diritti umani, la dissidenza, l’antirazzismo, SOS-questo, SOS-quello» erano «ideologie morbide, facili, post coitum historicum, ideologie da dopo-orgia per una generazione leggera che non ha conosciuto né ideologie dure né filosofie radicali». Il contrasto con il sovraccarico politico del XX secolo era notevole. Secondo Baudrillard, la generazione di Tillmans aveva
riscoperto l’altruismo, la convivialità, la carità internazionale e il cuore tenero dell’individuo. Effusioni emotive, solidarietà, emotività cosmopolita, pathos multimediale: tutti valori soft duramente condannati dall’epoca nietzscheana, marxista, freudiana… Una nuova generazione, quella dei figli viziati della crisi, mentre la precedente era quella dei figli maledetti della storia.6
Nei ritratti di Tillmans delle proteste di Black Lives Matter e degli scioperi scolastici per il clima, Baudrillard avrebbe riconosciuto la stessa propensione all’emotività, un desiderio di quello che è stato definito il «reincantamento del quotidiano».7
Baudrillard aveva anche predetto che l’incontro di Tillmans con i «figli viziati della crisi» non sarebbe durato, proprio come la «fine della storia» di Fukuyama. «Forse la fine della storia», aveva concluso alla fine degli anni Novanta, «è stata solo un effetto dell’astuzia della storia, che consiste nell’averci nascosto la sua fine, nell’essere finita senza che ce ne accorgessimo».8 Un giorno, sosteneva, la «fine della storia» avrebbe raggiunto lei stessa una fine, e la post-storia sarebbe tornata alla storia. Allo stesso tempo, la post-politica si sarebbe trasformata di nuovo in politica.
In un certo senso, Baudrillard aveva senza dubbio ragione. Dopo la crisi finanziaria del 2008, nel mondo occidentale una forma di politica è ritornata, ed è visibile in fenomeni che vanno da Trump a Black Lives Matter e Extinction Rebellion – una politica che ha costretto l’artista a confrontarsi con «la fragilità del consenso politico da cui dipende la sua utopia personale».9
Eppure questa nuova era politica non ha visto una rinascita integrale della politica di massa da cui si erano finalmente liberate le feste fotografate da Tillmans nel 1989. È politica, certo, ma una politica che, in maniera ugualmente imperfetta, sostituisce e completa la post-politica degli anni Novanta, rimettendo insieme il pubblico e il privato in termini diversi da quelli a noi familiari dell’epoca classica della democrazia. Come descrivere questa nuova era?
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Fare analisi in tempo reale è sempre pericoloso. Come una macchina fotografica ad alta velocità, la storia contemporanea rischia di cadere vittima della fluidità e dell’indeterminatezza della situazione che cerca di immortalare, incastrata tra il dettaglio impressionistico e la grande astrazione. Sembra anche difficile...




