E-Book, Italienisch, 352 Seiten
Reihe: Asia
Jingfang Pechino pieghevole
1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-6783-292-7
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 352 Seiten
Reihe: Asia
ISBN: 978-88-6783-292-7
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Pechino è divisa in tre spazi e le ventiquattr'ore di ogni giorno sono state accuratamente organizzate per salvaguardare il tempo e l'aria che respira l'élite, composta da cinque degli ottanta milioni di persone che abitano la metropoli. Tutti gli altri, incastrati nella rigida stratificazione urbana, si spartiscono quello che rimane. Lao Dao è nato nella città pieghevole e lavora in discarica come suo padre. Vive nel sottosuolo, ma per consegnare una lettera in cambio di denaro si intrufolerà negli spazi della classe media e di quella alta, scoprendo l'esistenza di mondi diversi dal suo. Catastrofe ecologica, tecnologie di sorveglianza e disuguaglianze sociali stravolgono il tempo e lo spazio in Pechino pieghevole, l'emblematico racconto che dà il titolo a questa raccolta folgorante, un caso letterario che si inserisce nell'«ultra-irrealismo» (chaohuan), il nuovo genere letterario ispirato dalla realtà allucinata della Cina odierna. Negli undici racconti, Hao esplora la fragilità umana alle prese con gli spettri del cambiamento e del possibile, l'intelligenza artificiale e l'automazione, costruendo una narrazione pervasa di sensibilità per quest'epoca di incertezza, solitudine e disorientamento. Se la science fiction è il realismo dei nostri tempi, Hao Jingfang rivela angolazioni inattese ed estreme da cui osservare il mondo futuro in cui già viviamo. VINCITORE DEL PREMIO HUGO L'ultra-irrealismo di Hao Jingfang ci restituisce un futuro cinese sempre più simile al nostro. - Simone Pieranni L'opera cinese di fantascienza che svela il presente in cui viviamo. - New York Times Dopo questa lettura la realtà non è più la stessa. Teoria scientifica e riflessione politica si uniscono in uno sguardo tagliente sul conflitto di classe e il mondo che abitiamo. - Uncanny Magazine
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L’arpa tra cielo e terra
1.
La piazza sul calar della sera. Un concerto noioso.
Nuvole d’oro sfilacciate striavano il cielo silenzioso. Era splendido. Gli ultimi raggi del tramonto piovevano sul Nido d’uccello dividendo la gigantesca struttura in acciaio in due metà, una in ombra, l’altra in pieno sole. Il lato ovest illuminato, il lato est completamente al buio. Quel forte contrasto metteva in risalto l’antichità del colosso arrugginito. Sembrava un vero nido di rami sull’orlo di un precipizio. Circondato da quella folla immane di gente scampata alla catastrofe, il vecchio stadio assumeva un’aria triste, in piena e totale sintonia con il primo malinconico movimento della marcia funebre. Il concerto non decollava. Giunti al centoventunesimo spettacolo, noi musicisti suonavamo senza trasporto davanti a un pubblico distratto. Ciascuno aveva un peso sul cuore. Il nuovo programma e la grandiosità della Sinfonia n. 2 di Mahler non bastavano a mantenere viva l’attenzione degli spettatori e, anzi, la ripetizione del tema aveva un effetto ipnotico. Quando ci fu il primo scoppio, qualcuno dell’uditorio stava addirittura dormendo.
Nessuno era preparato a un attacco. Io, sul palco, com’era mia abitudine, osservavo le persone in platea. I bambini volevano scendere dalle ginocchia delle madri e andare a giocare, ma quelle non li mollavano, trattenendoli per le spalle o stretti tra le braccia. Loro stavano lì sedute senza ascoltare, con lo sguardo che vagava qua e là e le rughe di fatica sulla fronte nascoste dal foulard. Era naturale che fosse così. Non era stata una buona idea suonare la ; oltre a non essere di facile comprensione, la maestosità dell’opera e il clima scuro non erano proprio adatti alle circostanze. A parte il direttore, eravamo tutti assenti, me compreso. Circa a metà del quinto movimento, alcuni colpi di cannone risuonarono in lontananza confondendosi con la musica.
Bum! Bum! Il rombo si amalgamava a quella melodia cupa creando un forte impatto emotivo. Sopra il palco e in platea fummo rapiti da quell’effetto sonoro, finché qualcuno non realizzò l’accaduto.
Un uomo scattò in piedi urlando e indicando lontano. Anche la gente si alzò sconvolta per guardare alle sue spalle in direzione del Parco Olimpico, dove si intravedeva un incendio. Ci fu un attimo di esitazione, le persone erano ammutolite, si cercavano con gli occhi, al massimo si afferravano per un braccio. Guardavano le fiamme all’orizzonte, ma nessuno fuggiva. L’atmosfera sembrava calma. Il concerto proseguiva. L’unica voce era quella della soprano, e questo amplificava l’impressione dell’immenso silenzio che ci circondava.
Poi il rumore. L’onda d’urto dell’esplosione si trascinò dietro una vampata di calore di pari vigore, che spingeva e comprimeva l’aria fresca della sera con un sibilo. La velocità di propagazione era minore rispetto al punto di origine, ma era pur sempre di grande intensità. La detonazione sorda in lontananza era arrivata come un grido di dolore trattenuto e l’incertezza che portava con sé alimentava ancora di più il terrore. Le persone cominciarono a fuggire. Urla, panico, caos. Benché non ci fossero avvisaglie di un attacco imminente, la gente si riversava verso nord senza preoccuparsi di niente e nessuno. Tutti si spingevano, si spintonavano, erano come un fiume in piena e travolgevano chi era caduto o chi non si era ancora alzato dalla sedia. Le donne che poco prima avevano in braccio i figli ora li proteggevano sotto le loro ali, come tante chiocce con i propri pulcini. Li tiravano a sé con la mano sinistra e con la destra li riparavano, i bambini incespicavano non riuscendo a stare al passo, ma loro davano prova di una forza mostruosa, animalesca, facendosi largo tra la folla. Si susseguivano grida acute da perforare i timpani.
Noi avevamo continuato a suonare, ma nonostante l’impegno l’esecuzione era stata del tutto stravolta dall’attacco. I violini non sentivano i clarinetti, i timpani entravano nel punto sbagliato, qualcuno del pubblico aveva urtato i contrabbassi facendoli rimbombare come se andassero in mille pezzi. Si era diffuso il panico anche tra i musicisti. Gli strumenti a corda stridevano senza essere pizzicati. Il direttore faceva del proprio meglio per mantenere la calma. Ma i suoi sforzi non furono sufficienti a condurci al paradiso della .
Interrompemmo la rappresentazione sullo sfondo rosso e arancio dell’incendio. Il sole che tramontava tingeva l’orizzonte, che prima virò all’oro per poi stemperarsi nell’indaco. Noi eravamo rimasti sul palco, non ci eravamo dati alla fuga come gli altri. Attendevamo che anche l’ultimo strumento fosse ritirato. Nessuno parlava, eravamo in completo silenzio, e non sentivamo nemmeno le urla e i pianti attorno.
Mentre la folla defluiva, il palco sembrava una nave in avaria. Seduti tra gli strumenti osservavamo quelli che scappavano, era come se per loro fossimo invisibili. In base alle esperienze vissute in precedenza non era stato un attacco così violento. Le sfumature di colore in cielo si attenuarono rapidamente, il che significava che l’incendio si stava spegnendo. Era probabile che fosse tutto finito, eppure c’era ancora un fuggifuggi generale, in ogni angolo della piazza la gente correva in un flusso continuo per accalcarsi dentro il Nido d’uccello, come alla ricerca di un rifugio che li riparasse dai ricordi scatenati dalla paura.
Poco dopo venimmo a sapere che era stata distrutta una roccaforte segreta della marina: come sempre avevano fatto un lavoro pulito, chirurgico, evitando morti non necessarie. L’incendio non si era esteso oltre il Parco Olimpico. Eravamo al sicuro, ma a vedere le facce paralizzate dal terrore delle persone, nessuno avrebbe mai potuto dire che quella fuga era immotivata.
Il concerto era finito, il pubblico si era dileguato, sul palco si sentiva qualche rumore sparso.
Gli aggressori non si fecero vedere. Soltanto al calare del buio avvistai l’ombra degli aerei: quattro caccia con ali a delta solcarono il blu opaco del cielo. Fu un attimo, un baluginio delle ali, poi scomparvero in un punto non visibile della stratosfera.
Il terzo anno dopo l’inizio della guerra, gli spettacoli erano divenuti un obbligo per noi. A un certo punto la popolazione si era accorta che i metalieni lasciavano intatti le città storiche e i siti di interesse artistico. Se all’inizio era una semplice supposizione, dopo attente verifiche trovò conferma. Chi abitava in campagna o in insediamenti urbani minori aveva cominciato a riversarsi nelle città più antiche, in cerca di protezione. Paradossalmente le compagnie artistiche assunsero un ruolo difensivo, offrendo rappresentazioni quotidiane, dal momento che i teatri non subivano incursioni. Questo era il fine delle nostre esibizioni.
Nessuno sapeva da quale pianeta provenissero i metalieni. Comprendevano le nostre lingue, ma non consentivano che fosse decifrata la loro. Nemmeno si era a conoscenza di che genere di esseri fossero. L’invasione era iniziata tre anni prima. Negli scontri non c’era partita, i terrestri ne uscivano sempre sconfitti. La resistenza teneva duro, ma le speranze di vittoria si assottigliavano sempre più. La diserzione era una piaga, più aumentavano le defezioni, più i soldati erano tentati di abbandonare le truppe. Ogni tanto in tv si vedevano immagini degli extraterrestri: erano più alti degli esseri umani, tra i due e i tre metri, con una struttura esterna aerodinamica in ferro e acciaio e volti inespressivi di una freddezza glaciale.
Terrore, risentimento, sospetto. L’ansia diffusa scatenava un proliferare di voci su ogni azione compiuta dai metalieni: avevano rapito un musicista; avevano saccheggiato gli archivi del museo storico; fotografavano, studiavano e preservavano siti storici e monumenti; massacravano gli eserciti della resistenza senza pietà, però si dimostravano magnanimi con scienziati, artisti e storici. Veniva così a dipingersi un ritratto coerente e sfaccettato di entità tanto crudeli quanto tolleranti. Era impossibile dedurre se la loro fosse una dittatura o un’aristocrazia. Si erano insediati sulla Luna e non si mostravano mai, come la faccia nascosta del satellite. Non c’era altra scelta che fare supposizioni, conseguenza delle quali era stata la misteriosa elevazione degli artisti al rango di supereroi. Non era chiaro nemmeno a noi quale protezione potessimo offrire. Avevamo un ruolo passivo, ma di enorme responsabilità, e determinante, anche se presupponeva uno svuotamento del vero senso dell’arte.
In capo a tre anni gli esseri umani avevano dimenticato cosa fosse la passione per sostituirla con il pragmatismo. Non lottavano strenuamente, cercavano il compromesso. A fatica ci adeguammo per sopravvivere, ipotizzando che dedicarsi alle scienze e all’arte fosse l’unica via d’uscita. Se avessimo accettato di vivere sotto il cielo dominato dai metalieni, forse ce la saremmo potuta cavare. Bisognava arrendersi, desistere, intonando canti e intrecciando danze sotto il loro cielo.
Ma c’è sempre chi non si rassegna e insegue le proprie illusioni.
Il mio maestro, Lin, voleva far esplodere la Luna.
«Maestro! Maestro!»
Nanà aveva finito di suonare lo spartito. Interruppe il filo dei miei pensieri riportandomi alla realtà. Tornai in me.
«Come l’ho eseguito?» chiese con...




