Karvelis | Il detenuto zero | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 160 Seiten

Reihe: Intrecci

Karvelis Il detenuto zero


1. Auflage 2019
ISBN: 978-88-6243-456-0
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 160 Seiten

Reihe: Intrecci

ISBN: 978-88-6243-456-0
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



'Sai bene che non ha importanza quale sia la verità...' America, 2009. Tre giovani geni matematici, immigrati di seconda generazione, vengono assunti per elaborare i sistemi di controllo di un nuovo carcere superprotetto, a cui è stato dato il nome di Isolamento. I ragazzi ben presto cominciano a porsi problemi etici sul lavoro che sono chiamati a svolgere. Ma quando cercano di contattare alcuni giornalisti diventano facili prede di strategie politiche antiterroristiche e di oscure trame. Arrestati e rinchiusi nel carcere che hanno contribuito a progettare, ne sono i primi ospiti. Dopo pochi giorni di detenzione però, sfruttando le loro doti, riescono a evadere. La responsabilità della fuga è attribuita a due ufficiali, di cui assume la difesa una donna, avvocato di grande intuito e talento. Ha inizio un processo in cui i massimi esperti di matematica sono chiamati a esporre le loro teorie... Un romanzo avvincente, che impegna la logica e le capacità matematiche del lettore, e tocca temi di assoluta attualità..

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IL PROFESSOR BLACKHEAD E UN ENIGMA


Il portiere all’ingresso degli uffici della George Washington University salutò con cordialità il quarantacinquenne alto, snello e sorridente, vestito in modo semplice ma curato, che era entrato nell’edificio con una cartella di pelle.

– Buongiorno, dottor Blackhead! Era da un po’ che non la vedevo di sabato all’università.

– Buongiorno Will, oggi ho due appuntamenti. Come va?

– Bene, grazie – disse il simpatico vecchietto aprendo la porta dell’ascensore.

Il professore lo ringraziò con una pacca amichevole sulla spalla e salì nel suo ufficio. Lasciò la cartella sul tavolino, appese giacca e sciarpa all’attaccapanni nero e preparò la caffettiera. Sistemò le carte e i libri sulla scrivania, si riempì una tazza di caffè caldo e guardò l’orologio. Mancavano una decina di minuti al primo appuntamento. Dal giorno precedente, quando aveva appreso lo scopo di quell’incontro, non riusciva a toglierselo dalla testa nemmeno per un attimo.

Aveva una sensibilità particolare per le questioni sociali. Negli ultimi anni si era occupato attivamente di libertà individuali, diritti dei cittadini e tutela della privacy. Non poteva ignorare quindi una richiesta di consulenza e di aiuto, soprattutto se il suo ruolo di docente universitario glielo imponeva. E poi nutriva una particolare simpatia verso quei tre studenti che si erano distinti per i risultati ottenuti e per i loro interessi. Sin dal giorno prima si stava ponendo una domanda con cui molte volte anche in passato si era dovuto confrontare, ma alla quale non era ancora riuscito a dare una risposta. Fino a che punto la pur legittima paura di eventuali conseguenze giustifica l’inazione e l’indifferenza di fronte a certe questioni? Dove va collocato il confine tra il dovere di partecipazione alla cosa pubblica e la necessità di tutelare sé stessi e i propri cari? Rispondere era ancora più complicato se si trattava di comportamenti altrui e delle loro conseguenze.

Il professor John Blackhead non incarnava il tipico progressista liberal americano. Di solito si arrivava a queste posizioni perché influenzati o dalla famiglia o dall’ambiente frequentato negli anni giovanili e studenteschi. Nel caso di Blackhead, però, tale percorso aveva avuto tutt’altro punto di partenza e tutt’altra evoluzione.

Il padre era stato sottufficiale di carriera nell’Aeronautica, ma lo ricordava appena perché era morto molto giovane, una delle ultime vittime della guerra in Vietnam, e la sua scomparsa aveva segnato profondamente l’animo del piccolo John e le difficoltà che la famiglia dovette affrontare in seguito, a causa della salute cagionevole della madre, lo avevano portato a chiudersi in sé stesso. Questo, come anche i frequenti cambi di residenza per i trasferimenti del padre, non gli aveva permesso di crearsi amicizie e legami durante gli anni della scuola.

Si era distinto come ottimo studente, con una particolare inclinazione per la matematica, che non passava di certo inosservata ai suoi insegnanti. Trascorreva il tempo a leggere e a risolvere esercizi, senza limitarsi ai compiti assegnati. Alle medie gli piaceva soprattutto risolvere enigmi logici e matematici, dimostrava una grande abilità non solo nel venirne a capo ma anche nel crearne di suoi.

Un episodio fortuito, accaduto quando era in seconda media, aveva giocato un ruolo determinante nel suo rapporto con la matematica. Durante la ricreazione era andato in sala insegnanti per consegnare un compito al professore di fisica, con un giorno di ritardo a causa di un’indisposizione che lo aveva costretto ad assentarsi. Gli capitò così di ascoltare il professore mentre rivolgeva una domanda trabocchetto all’insegnante di matematica. Gli stava chiedendo: “Dimmi, Jack, quanti sono i numeri primi il cui immediato successivo è un quadrato perfetto?” Il piccolo John consegnò il compito, uscì nel cortile e si mise a pensare alla domanda che aveva sentito. Quando dopo dieci minuti rientrò in classe per l’ora di matematica, chiese con timidezza il permesso di parlare e disse al professore: “Posso rispondere alla domanda che le ha fatto il signor Sherman in sala insegnanti?” Il professore di matematica si mostrò sorpreso, ma interessato. Lo invitò ad avvicinarsi alla lavagna per esporre il problema e sviluppare la soluzione in maniera dettagliata, in modo che anche il resto della classe potesse seguire. John si alzò e illustrò con sicurezza il suo ragionamento: “Se indico con p i numeri primi i cui successivi sono un quadrato perfetto, allora otterrò il rapporto p+1=a2, dove a è un numero naturale. Quindi si avrà che a2-1=p. Ma grazie alla nota identità per le sottrazioni di numeri al quadrato ed essendo 1=12, allora avremo che a2-1=(a+1)(a-1)=p. Considerando che p è un numero primo, significa che non ha altri divisori oltre l’unità e sé stesso, e quindi può essere scomposto come prodotto di questi due soli fattori, vale a dire p=p×1 solo. Ovviamente ogni numero primo è p>1 e altrettanto ovviamente abbiamo anche (a+1)>(a-1), quindi l’equazione p=p×1 sarà uguale a (a+1)=p e (a-1)=1. Da quest’ultima uguaglianza consegue che a=2 solo e soltanto; così p non può avere altro valore diverso da quello che otteniamo dalla penultima uguaglianza, ossia p=a+1=2+1=3. Quindi uno e uno soltanto è il numero primo il cui successivo è un quadrato perfetto: il 3. E infatti 3+1=4=22.”

Il professore rimase molto colpito, si limitò a qualche misurato complimento, ma da quel momento cominciò a tenerlo d’occhio e a seguirlo con attenzione. Lo incoraggiava, gli portava riviste e giornali selezionati con cura e lo incitava a partecipare a varie competizioni, dove il ragazzo si distingueva sempre per le sue eccellenti prestazioni.

La matematica divenne quindi il “mondo” di John Blackhead, dove si sentiva al sicuro e a proprio agio. L’adolescente introverso e sensibile trovava in questo suo rifugio la fiducia in sé stesso che gli mancava altrove, soprattutto nei rapporti con le ragazze.

Come era naturale, decise di studiare matematica. Ottenne la borsa di studio per la Princeton University, ma dovette anche trovarsi qualche lavoretto occasionale per affrontare le spese. La pensione del padre non bastava a sostenere due affitti, del resto la madre non era in grado di lavorare e non voleva lasciare Washington, dove avevano vissuto negli ultimi anni. Malgrado tutto, però, lui era contento e aveva trovato un suo equilibrio. Credeva fermamente che la matematica fosse una scienza completa e perfetta, anche se esigeva talento e duro lavoro. Vi si era dedicato in piena coscienza. Non si preoccupava dell’esistenza di quesiti matematici irrisolti. Era convinto che per molti di essi esistesse una soluzione, e scoprirla fosse solo una questione di tempo. Per gli altri, la matematica stessa aveva dimostrato che non c’erano soluzioni e quindi la questione era chiusa. Per esempio, non aveva senso occuparsi della quadratura del cerchio con riga e compasso. Ciò avrebbe richiesto la costruzione della radice del numero trascendente p, di cui era stata dimostrata l’irrealizzabilità. Pertanto questo problema, nella geometria euclidea, si era semplicemente rivelato irrisolvibile.

Era arrivato con successo a metà del suo percorso di studi e aveva già cominciato a riflettere sulla specializzazione con cui proseguire. Dava per scontato di poter intraprendere una carriera accademica, gli si addiceva e gli piaceva. Poi successe qualcosa che lo colpì quasi quanto la morte del padre. Grazie alle lezioni di logica matematica, si confrontò con il lavoro di Kurt Gödel. Fino ad allora lo conosceva solo di nome e per l’aspetto bizzarro che aveva nella fotografia appesa a una parete della biblioteca dell’università, da cui lo guardava attraverso le grosse lenti da miope con espressione sinistra. Capì presto che il famoso teorema di incompletezza significava la fine di ogni certezza circa la perfezione del suo “mondo”. Dimostrava che non c’era alcuna possibilità di risolvere tutti i problemi posti da un qualsiasi sistema assiomatico, in modo coerente con gli assiomi stessi. Era una novità rivoluzionaria, l’impossibilità di una soluzione era un difetto intrinseco del sistema e non il risultato di una dimostrazione matematica dell’inesistenza di una soluzione. Per il giovane Blackhead fu uno shock fortissimo, voleva quasi smettere di studiare i lavori di Gödel e dei suoi collaboratori. Ma sapeva che si sarebbe trattato di una scappatoia e che comunque non avrebbe trovato pace. Cominciò ad approfondire questo ambito scientifico con l’abituale approccio metodico e solerte. Si interessò alle sue origini e al graduale sviluppo, ma anche alle sue implicazioni filosofiche. In pochi mesi fece un primo percorso completo, dagli antichi filosofi greci con i loro paradossi logici fino ai grandi matematici degli inizi del XX secolo. Ebbe modo di conoscere l’opera, ma soprattutto la personalità, di Bertrand Russell.

Ben presto scoprì di avere diversi punti in comune con il grande matematico e filosofo. Prese a studiarne con attenzione il lavoro scientifico, ma anche la biografia. Notò che, nonostante i diversi retroterra familiari, la loro sensibilità emotiva si era sviluppata in maniera simile. I genitori di Russell, in epoca vittoriana, erano noti liberal progressisti e provenivano da una famiglia distinta e agiata, con un’importante posizione sociale. Dapprima Russell divenne...



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