Kohn | Come pensano le foreste | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 448 Seiten

Reihe: saggi | terra

Kohn Come pensano le foreste

Per un'antropologia oltre l'umano
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-7452-905-6
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Per un'antropologia oltre l'umano

E-Book, Italienisch, 448 Seiten

Reihe: saggi | terra

ISBN: 978-88-7452-905-6
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



'Una vera e propria rifondazione dell'antropologia. Sorprendente, è già un classico'Le Monde 'Questo libro ha trasformato i miei sogni e rimodellato le mie abitudini interpretative'Donna Haraway 'Un'opera d'arte. Una strada alternativa immensamente rinvigorente per l'antropologia e la filosofia'Bruno Latour Le foreste pensano? E perché, nella foresta di Ávila, i cani sognano? In questo libro sorprendente, Eduardo Kohn sfida i fondamenti stessi dell'antropologia, mettendo in discussione i presupposti di base su cosa significa essere umani, e per questo distinti da tutte le altre forme di vita. Dopo quattro anni di lavoro sul campo tra i Runa dell'Alta Amazzonia, in Ecuador, il ricercatore attinge alla ricca etnografia e biologia dell'immensa e minacciata foresta 'pensante' per esplorare come i popoli amazzonici interagiscono con le numerose creature che abitano uno degli ecosistemi piú complessi al mondo. Se focalizziamo l'osservazione antropologica sulle modalità in cui gli umani entrano in relazione con gli altri esseri viventi, il tradizionale punto di vista occidentale dell'analisi, che ha l'effetto di separarci dal resto del mondo, collassa. Tuttavia, la novità maggiore del saggio sta nell'evidenziare che questo collasso può rappresentare un'opportunità: approfondendo come le nostre vite e quelle degli altri viventi siano inestricabilmente interconnesse nella grande rete della foresta, davanti a noi si dischiudono nuovi strumenti concettuali e nuove visioni ispirate alla catena delle interrelazioni e al linguaggio con cui il resto del mondo parla e ci parla. In questo lavoro rivoluzionario, Kohn conduce dunque l'antropologia verso una direzione inedita ed entusiasmante, offrendo un modo piú ampio e aperto di pensare a un pianeta radicalmente condiviso.

Kohn Come pensano le foreste jetzt bestellen!

Weitere Infos & Material


Prefazione all’edizione italiana

di Emanuele Coccia


L’antropologia è stata nel secolo scorso un esercizio di resistenza sistematica a ogni pretesa di trasparenza dell’io. All’evidenza per cui basterebbe guardare dentro di sé per conoscersi, essa ha opposto la necessità di conoscere gli altri prima di iniziare qualsiasi forma di confessione. Alla rivendicazione dell’identità e delle culture di potersi spiegare da sé attraverso un racconto o un mito riconosciuto come proprio e autentico, l’antropologia ha sempre opposto la ripetuta constatazione che ogni mito è la trasformazione dialettica di un altro mito a cui si rapporta storicamente e logicamente e che ogni cultura quindi può essere spiegata e capita solo attraverso la comparazione con un altro mito appartenente ad altre culture.

Non c’è nessuna forma di autoctonia: nessun mito è originario e nessun territorio è cognitivamente e culturalmente autonomo. Non c’è nessuna forma di autonomia: come scrisse una volta Shlomo Pines, la cultura di un popolo è il “complicato merletto” delle relazioni tra culture differenti1.

Questa torsione non è solo geografica e cognitiva, è anche e soprattutto psicologica. È l’io che piegandosi in un atto di introspezione scopre in sé ogni volta un’alterità insopprimibile. È per questo che a fondare l’antropologia, come scrisse Lévi-Strauss in un saggio memorabile, furono meno gli eruditi e missionari che seguirono e descrissero i processi di colonizzazione e conquista dei continenti non europei che Rousseau. Fu lui a ricordare, nel , che “quando si vuole studiare gli uomini, bisogna guardare vicino a sé, ma per studiare l’uomo, è necessario imparare a portare lo sguardo lontano. Bisogna in primo luogo osservare le differenze per scoprire le proprietà”. Ma fu soprattutto lui a provare che

esiste un “esso” che si pensa in me e che mi fa dubitare se sono io che penso. Al “che cosa so?” di Montaigne (da cui tutto è nato), Descartes credeva di poter rispondere che so che esisto perché penso; a questo Rousseau obietta un “cosa sono io?” senza una soluzione certa, nella misura in cui la questione suppone che un’altra, piú essenziale, sia stata risolta: “sono?”, quando l’esperienza intima non fornisce che questo “lui” che Rousseau ha scoperto e di cui ha lucidamente intrapreso l’esplorazione2.

L’antropologia si è allora strutturata come l’esercizio di una curiosa forma di confessione per ventriloquia assieme psicologica e culturale: si può dire io sempre per interposto soggetto e interposta identità. Per questo, “nell’esperienza etnografica l’osservatore si coglie come il suo proprio strumento di osservazione; con ogni evidenza è necessario per lui imparare a conoscersi, ottenere da un sé che si rivela come altro a un io che l’utilizza una valutazione che diventerà parte integrante dell’osservazione di altri sé”3. Ma la sua importanza sta nell’aver fatto di questa ventriloquia la forma paradigmatica di ogni relazione di un soggetto a se stesso. Non solo rapportandosi ad altre culture si scopre nell’altro qualcosa di sé e in sé qualcosa di chi ci è davanti che parla in noi. È l’io che è strutturalmente ventriloquo: un teatro in cui si parla sempre al posto dell’altro e nel corpo d’altri.

Alle tendenze egotiste della tradizione cartesiana, che ha fatto della coscienza un monolocale psichico in cui poter celebrare sottovoce il proprio solipsismo, l’antropologia ha sostituito un carnevale planetario in cui l’io penso è diffratto, diffuso tra tutti i popoli e tutte le culture, oltre qualsiasi rivendicazione di privilegio della modernità di esprimere una ragione universale. Non è un caso se l’antropologia è stata il sapere che ha assieme accompagnato in contrappunto “l’invenzione del globo”4 – il lungo processo di conflitti, conquiste, resistenze che non solo hanno ridisegnato la geografia della Terra, ma ne hanno sancito un’unificazione politica, economica e tecnologica.

Pur restando fedele al programma di instaurare una ventriloquia culturale su scala planetaria, negli ultimi decenni l’antropologia si è data un ulteriore scopo: quello di far entrare in questo teatro forme di vita diverse da quella umana. Piuttosto che porsi alle frontiere che separano i popoli e le culture per mostrare la loro porosità, si è posta alla frontiera – molto piú ampia, frastagliata, discontinua – che separa ciò che è umano da ciò che non lo è, poco importa se si tratti di oggetti inanimati o di forme di vita che la tassonomia considera genealogicamente lontane da quella dell’ . Che si tratti dell’antropologia simmetrica o della teoria dell’attore-rete di Bruno Latour5, del prospettivismo multinaturalista di Eduardo Viveiros de Castro6, della riabilitazione dell’animismo di Alfred Gell7 o di Philippe Descola8, o dell’antropologia dell’incontro multispecifico di Donna Haraway9 o Anna Lowenhaupt Tsing10, le cose, gli animali, le piante, i funghi – in una parola, il mondo – da cui le società del Novecento sembravano volersi distinguere a ogni costo e che si ostinavano a considerare come pura manifestazione della appaiono grazie all’antropologia come soggetti, presenze, forme alternative dell’io. Se nel secolo scorso percepire tratti propri a un soggetto in un artefatto era considerato ancora un “capriccio teologico”, l’antropologia ha ampiamente dimostrato in questo quinto di secolo che un tavolo che “si mette a testa in giú, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto piú mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare” (per riprendere la celebre boutade marxiana) non è né il sintomo della reificazione dell’umano o di un’alienazione morale, né una conseguenza di un sistema di produzione alienato. Quella di vivere soggettivamente è una proprietà delle cose cosí come lo è di qualsiasi vivente non umano. L’io appartiene a molti piú soggetti di quanti le società occidentali abbiano contato tra i loro membri. Questa paradossale configurazione ha permesso da una parte una separazione radicale tra antropologia ed etnografia11 e una riconfigurazione dell’idea di popolo: la politica non è piú un affare umano; riguarda anche oggetti, artefatti che vivono in società allo stesso modo in cui vivono gli esseri umani, ma anche l’insieme disparato di tutti i viventi. Dall’altra parte, è stata questa trasformazione a fare dell’antropologia il piú grande e vivace laboratorio speculativo contemporaneo, il primo e piú importante vivaio delle invenzioni morali e culturali che stanno rivoluzionando il pensiero e i costumi del XXI secolo, che ha gettato quasi tutte le altre scienze umane e sociali (prima fra tutte la sociologia ma in parte anche la filosofia o la letteratura) in una posizione di retroguardia. Il contesto storico ed ecologico di questa trasformazione epistemologica è ancora una volta tutt’altro che indifferente: in un’epoca, l’Antropocene, in cui la scienza ha constatato l’impossibilità di distinguere materialmente e geologicamente il pianeta e la sua vita da quella dell’umanità, l’antropologia sembra sforzarsi di mostrare quanta vita tassonomicamente non umana definisca, influenzi, nutra la cultura umana e di liberare tutto lo spettro di sentimenti e pensieri non umani che si esprimono in ogni io, in ogni atto di autocoscienza di qualsiasi essere umano.

Ma è soprattutto rispetto all’ecologia che è possibile misurare l’importanza e la portata della rivoluzione che ha avuto luogo nella ricerca antropologica degli ultimi decenni, ancora piú impressionante se si considera che non è legata né a una scuola o a una tradizione disciplinare particolare né a un’ubicazione precisa, visto che ha avuto luogo quasi simultaneamente dagli Stati Uniti alla Francia e dal Brasile alla Gran Bretagna. Nelle sue forme piú recenti e radicali, alimentate da figure imprescindibili come quelle di Aldo Leopold12 o John Baird Callicott13, o incarnatesi in correnti come la iniziata da Arne Næss14, l’ecologia sembra privilegiare il discorso morale (e moralista) rispetto a quello ontologico. La questione è sempre e soprattutto quella dell’attitudine dell’umano in relazione al pianeta e al resto dei suoi abitanti e non quella del modo d’essere e dello statuto di questi ultimi: si tratta di redigere una carta dei nostri doveri piú che di esplorare le potenze e le esperienze di chi non condivide la nostra identità. Anche quando un simile approccio si spinge verso sviluppi giuridici e politici radicali, come è il caso della teoria del diritto soggettivo riconosciuto agli alberi in Christopher Stone15 o quella dei diritti degli animali di Kymlicka e Donaldson16, l’inchiesta sulla reale soggettività di piante, animali, pietre o suoli e sulla loro capacità oggettiva di resta estremamente...



Ihre Fragen, Wünsche oder Anmerkungen
Vorname*
Nachname*
Ihre E-Mail-Adresse*
Kundennr.
Ihre Nachricht*
Lediglich mit * gekennzeichnete Felder sind Pflichtfelder.
Wenn Sie die im Kontaktformular eingegebenen Daten durch Klick auf den nachfolgenden Button übersenden, erklären Sie sich damit einverstanden, dass wir Ihr Angaben für die Beantwortung Ihrer Anfrage verwenden. Selbstverständlich werden Ihre Daten vertraulich behandelt und nicht an Dritte weitergegeben. Sie können der Verwendung Ihrer Daten jederzeit widersprechen. Das Datenhandling bei Sack Fachmedien erklären wir Ihnen in unserer Datenschutzerklärung.