E-Book, Italienisch, 322 Seiten
Kosinski L'uccello dipinto
1. Auflage 2015
ISBN: 978-88-7521-665-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 322 Seiten
ISBN: 978-88-7521-665-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Ambientato durante la seconda guerra mondiale in un paese dell'Europa dell'Est, L'uccello dipinto è la storia di un bambino ebreo e della sua miracolosa ricerca della salvezza. Allo scoppio del conflitto la famiglia lo nasconde in un villaggio di campagna e lo affida alle cure di un'anziana bambinaia, sperando di risparmiargli le violenze dell'esercito invasore; ma dopo la morte della donna inizia per lui un solitario vagabondare nel tentativo di ricongiungersi ai genitori. Tra le atrocità dei soldati tedeschi e quelle dei contadini - che lo credono un ebreo o uno zingaro in possesso di poteri malefici - il bambino scoprirà sulla natura umana molto più di quanto la sua giovane età avrebbe dovuto consentirgli. Fin dalla sua uscita, nel 1965, L'uccello dipinto destò scalpore su entrambi i lati della Cortina di Ferro, divenendo uno dei libri più controversi nell'era della guerra fredda. Cinquant'anni dopo, caduto il velo delle ideologie, questo romanzo insieme autobiografico e universale continua a parlarci, con il coraggio e l'eloquenzadei grandi classici, del problema della libertà individuale e della violenza della società. Con una introduzione dell'autore.
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SUCCESSIVAMENTE
Nella primavera del 1963 mi recai in Svizzera con Mary, la mia moglie americana. C’eravamo già stati in vacanza, ma allora ci andammo per uno scopo diverso: da mesi mia moglie si stava battendo contro un morbo presumibilmente incurabile ed era venuta in Svizzera per consultare l’ennesimo gruppo di specialisti. Poiché prevedevamo di fermarci per qualche tempo, avevamo preso una suite in un sontuoso albergo che dominava il lungolago di una vecchia località di villeggiatura alla moda.
Tra i clienti fissi dell’albergo c’era una comitiva di ricchi europei occidentali che erano arrivati in quella città poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Avevano tutti abbandonato la madrepatria prima dell’inizio vero e proprio della strage e non avevano mai dovuto lottare per salvarsi la vita. Per loro, una volta al sicuro nel rifugio svizzero, la parola autoconservazione non aveva più voluto dire altro che vivere alla giornata. Molti erano tra i settanta e gli ottant’anni, pensionati senza uno scopo nella vita che parlavano ossessivamente della vecchiaia e del fatto che avevano sempre meno sia la forza che la voglia di lasciare il complesso dell’hotel. Passavano il tempo nelle sale e nei ristoranti o passeggiando nel parco privato. Spesso li seguivo, fermandomi quando lo facevano loro davanti ai ritratti degli statisti che erano stati ospiti dell’albergo tra le due guerre; leggevo insieme a loro le targhe scure che commemoravano varie conferenze internazionali sulla pace che si erano tenute nei saloni dell’albergo dopo la prima guerra mondiale.
Ogni tanto facevo quattro chiacchiere con alcuni di questi esuli volontari, ma ogni volta che accennavo agli anni di guerra nell’Europa centrale o orientale non mancavano mai di rammentarmi che, essendo venuti in Svizzera prima che iniziassero le violenze, conoscevano la guerra solo vagamente, dai servizi della radio e dei giornali. Riferendomi a un paese in cui erano stati creati quasi tutti i campi di sterminio, feci notare che tra il 1939 e il 1945 solo un milione di persone erano morte a causa di azioni militari dirette, mentre cinque milioni e mezzo erano state sterminate dagli invasori. Più di tre milioni di vittime erano ebrei, e un terzo avevano meno di sedici anni. Queste perdite ammontavano a duecentoventi morti su mille persone, e nessuno avrebbe mai potuto calcolare quanti altri erano stati mutilati, traumatizzati, annientati nel corpo o nello spirito. I miei ascoltatori annuivano educatamente, ammettendo di aver sempre creduto che le notizie sui campi e sulle camere a gas fossero state molto abbellite da giornalisti troppo affaticati e tesi. Io gli assicuravo che, avendo trascorso, bambino e poi adolescente, gli anni della guerra e del dopoguerra in Europa orientale, sapevo che i fatti veri erano stati di gran lunga più brutali delle più bizzarre fantasie.
Nei giorni in cui mia moglie era confinata in clinica per il trattamento io noleggiavo una macchina e andavo in giro, senza una meta precisa. Viaggiavo lungo belle e ben curate strade svizzere serpeggianti attraverso campi costellati di tozze trappole anticarro d’acciaio e cemento, costruite durante la guerra per ostacolare l’avanzata dei tank. Erano ancora in piedi, difesa ormai in sfacelo contro un’invasione che non era stata mai sferrata, fuori posto e senza scopo come gli antiquati esuli in albergo.
Spesso al pomeriggio noleggiavo una barca e remavo sul lago senza meta. In quei momenti sentivo intensamente il mio isolamento: mia moglie, il legame emotivo alla mia esistenza negli Stati Uniti, stava morendo. Quanto ai resti della mia famiglia in Europa orientale, potevo contattarli solo tramite lettere infrequenti e sibilline, sempre in balia del censore.
Mentre mi lasciavo trasportare dalle correnti del lago sentivo i morsi della disperazione; non era soltanto la solitudine, o la paura della morte di mia moglie, ma un senso d’angoscia direttamente connesso al vuoto delle vite di quegli esuli e all’inefficacia delle conferenze sulla pace del dopoguerra. Mentre pensavo alle targhe che adornavano i muri dell’albergo mi chiedevo se gli autori dei trattati di pace li avevano firmati in buona fede. Gli avvenimenti seguiti alle conferenze non avallavano una simile congettura. Eppure gli anziani esuli dell’hotel continuavano a credere che la guerra fosse stata un’inspiegabile aberrazione in un mondo di uomini politici benintenzionati il cui umanitarismo non poteva essere messo in dubbio. Non potevano accettare che certi garanti della pace fossero poi diventati gli iniziatori della guerra. A causa del loro scetticismo, milioni di persone come i miei genitori e me stesso, non avendo la possibilità di fuggire, erano state forzatamente coinvolte in eventi di gran lunga peggiori di quelli che i trattati proibivano con tanta magniloquenza.
L’estrema discrepanza tra i fatti come li conoscevo io e la confusa, irrealistica visione del mondo degli esuli e dei diplomatici mi dava molto fastidio. Cominciai a riesaminare il mio passato e decisi di passare dagli studi di scienze sociali alla narrativa. Diversamente dalla politica, che offriva solo strabilianti promesse di un futuro utopistico, sapevo che i romanzi potevano presentare la vita come veniva realmente vissuta.
Quando ero arrivato in America, sei anni prima di questo viaggio in Europa, avevo deciso di non rimettere più piede nel paese dove avevo passato gli anni della guerra. Che fossi scampato era dovuto esclusivamente al caso, ed ero sempre stato acutamente consapevole che centinaia di migliaia di altri bambini erano stati condannati. Ma anche se ero profondamente addolorato da quell’ingiustizia, non mi percepivo né come un venditore di sensi di colpa e reminiscenze personali, né come un cronista del disastro che aveva colpito la mia gente e la mia generazione, ma esclusivamente come un narratore.
«...La verità è l’unica cosa in cui le persone non sono diverse tra loro. Ogni uomo nel subconscio è dominato dal desiderio spirituale di vivere, dall’aspirazione a vivere a ogni costo; si vuole vivere perché si vive, perché il mondo intero vive...», scriveva l’internato in un campo di concentramento ebraico poco prima di morire nella camera a gas. «Siamo qui in compagnia della morte», scriveva un altro internato. «Tatuano i nuovi arrivati. Ognuno riceve il suo numero. Da quel momento in avanti hai perso il tuo e sei stato trasformato in un numero. Non sei più quello che eri prima, sei un semplice numero che si muove e non vale niente... Ci stiamo avvicinando alle nostre nuove tombe... una ferrea disciplina regna qui nel campo della morte. Il nostro cervello si è spento, i pensieri sono numerati: non è possibile impadronirsi di questo nuovo linguaggio».
Il mio scopo nello scrivere un romanzo era di esaminare questo «nuovo linguaggio» della brutalità e il suo conseguente nuovo controlinguaggio di angoscia e disperazione. Il libro doveva essere scritto in inglese, lingua in cui avevo già scritto due opere di psicologia sociale, avendo rinunciato alla mia madrelingua quando avevo abbandonato la mia patria. Inoltre, poiché l’inglese mi riusciva ancora nuovo, potevo scrivere spassionatamente, libero dalla connotazione emotiva che il proprio linguaggio natio sempre contiene.
Mentre la storia cominciava a svilupparsi mi resi conto che volevo ampliare certi temi, modulandoli attraverso una serie di cinque romanzi. Questo ciclo di cinque libri doveva presentare gli aspetti archetipici del rapporto dell’individuo con la società. Il primo libro del ciclo doveva trattare della più universalmente accessibile di queste metafore della società: l’uomo doveva essere raffigurato nel suo stato più vulnerabile, quello del bambino, e la società nella sua forma più letale, lo stato di guerra. Speravo che il confronto tra l’individuo indifeso e la società prepotente, tra il bambino e la guerra, potesse rappresentare l’essenziale condizione anti-umana.
Per di più, mi sembrava che i romanzi sull’infanzia richiedessero il massimo coinvolgimento della fantasia. Poiché non possiamo accedere direttamente a quel primo e delicatissimo periodo della nostra vita, siamo obbligati a ricrearlo prima che si possa cominciare a valutare il nostro io attuale. Anche se tutti i romanzi ci costringono a compiere un simile transfert, facendo sì che noi ci conosciamo come esseri umani diversi, in genere ci riesce più difficile immaginarci come bambini che come adulti.
Quando cominciai a scrivere mi vennero in mente , la commedia satirica di Aristofane. I suoi protagonisti, ispirati a importanti cittadini dell’antica Atene, venivano resi anonimi in un idilliaco regno naturale, «una terra di facile e giusto riposo, dove l’uomo può dormire senza pericolo e mettere le penne». Rimasi colpito dalla pertinenza e dall’universalità dell’ambiente creato da Aristofane più di due millenni fa.
Il suo uso simbolico degli uccelli, che gli permise di occuparsi di fatti e personaggi di attualità senza le restrizioni imposte a chi scrive di storia, mi sembrò particolarmente appropriato, anche perché lo associavo a un’usanza contadina di cui ero stato testimone durante l’infanzia. Uno degli svaghi preferiti degli abitanti dei villaggi consisteva nel catturare degli uccelli, dipingergli le penne e lasciarli liberi di tornare allo stormo. Mentre questi animaletti variopinti cercavano la salvezza tra i propri simili, gli altri uccelli, vedendo in loro degli estranei minacciosi, attaccavano e dilaniavano i reietti fino a ucciderli. Decisi che anch’io avrei ambientato il mio lavoro in un mitico regno, in un presente fittizio e senza tempo, libero dalle...