E-Book, Italienisch, 304 Seiten
Reihe: Intrecci
Kraisky La maledizione di Rasputin
1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-6243-608-3
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 304 Seiten
Reihe: Intrecci
ISBN: 978-88-6243-608-3
Verlag: Voland
Format: EPUB
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Romano, sociologo, per più di trenta anni ha insegnato italiano a stranieri e immigrati tra illusioni umanitarie e inevitabili disillusioni. Ha pubblicato apocrifi holmesiani e racconti in antologie sul giallo e il noir (Sonzogno, Fabbri, Mondadori, Alacrán). Nel 2003 è uscito per DeriveApprodi il romanzo distopico Animali da cortile. Al momento lavora su due romanzi che da troppi anni attendono di essere scritti.
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Lenin si era reso conto che il comunismo di guerra stava trasformando la Russia in un cimitero. La politica di nazionalizzazione forzata di tutti i mezzi di produzione e di distribuzione si era rivelata rovinosa, e così il tentativo di abolire la moneta come merce di scambio sostituendola con ‘l’unità di lavoro’, per applicare fino alle estreme conseguenze la teoria del valore-lavoro di Marx. I risultati di quella purezza ideologica non tardarono: Mosca era ormai una città di affamati, ladri, prostitute, avventurieri e abili spie straniere dalle molte identità, dove nessuno poteva più fidarsi di nessuno. La popolazione si ammalava di tisi e difterite, per non parlare del dilagare di inedia e corruzione. Capitava spesso di incontrare per le strade nobili e borghesi costretti, in nome della rieducazione proletaria, a spalare neve d’inverno, e d’estate a ripulire le strade dai resti dei cavalli e di altri animali morti, a volte perfino dai cadaveri. Soldati vestiti di stracci col nastrino rosso al braccio erano addetti alla vigilanza, mentre veniva lasciata mano libera agli ‘espropriatori degli espropriatori’, uomini e donne affamati che saccheggiavano le case dei più ricchi. L’infuriare della guerra civile giustificava il ricorso alla militarizzazione dell’intera società, era proibita qualunque forma di commercio privato e perseguitata la borghesia, produttiva o parassitaria che fosse. Il governo incoraggiava perfino una politica di inflazione selvaggia per distruggere i residui dell’economia di mercato, trasformando il rublo in carta straccia.
Ma una volta dispersa l’Armata Bianca, ridotta ormai a piccoli focolai decentrati di resistenza, il governo bolscevico, e Lenin più degli altri, decise che era necessario concedere maggiori incentivi all’economia privata. Prima sopravvivere poi rieducare.
Fu allora, all’inizio del 1922, una volta inaugurata la NEP, che Oleg si dimise dalla fabbrica di aeroplani militari per assumere un incarico ben remunerato come dirigente di un’industria di isolanti elettrici. Ormai era riconosciuto come uno spez, così si chiamavano quegli uomini dotati di dinamismo e capacità organizzative, buoni per tutte le stagioni e dunque utilissimi per i nuovi governanti. Oleg non aveva mai simpatizzato per i bolscevichi, però ne era non solo tollerato ma perfino benvoluto, nonostante fosse evidente che nel suo sangue scorreva come in pochi altri lo spirito del capitalismo. Era riuscito a vivere agiatamente perfino durante il comunismo di guerra ma adesso, con la NEP e dopo che il commissario per le finanze Sokol’nikov ebbe decretato l’introduzione del cervonec, una nuova valuta basata in parte sulla parità con l’oro, il suo talento per gli affari poteva dispiegarsi senza freni, giocando sulle oscillazioni nel cambio della valuta. E il suo dinamismo non si limitava agli affari.
Gli bastavano quattro o cinque ore di sonno per notte. Vulcanico, dotato di una memoria fuori dall’ordinario e, come se non bastasse, cultore della letteratura. Le dichiarazioni d’amore che dedicava di continuo alla moglie erano anche il risultato della lettura di centinaia di romanzi e poesie. Secondo la migliore tradizione di una certa classe intellettuale russa, quando i Krotovskij ricevevano ospiti lui saliva in piedi su una sedia del salotto o su un qualsiasi palchetto improvvisato e recitava a memoria poesie di Puškin o brani di romanzi. A volte sua moglie Anna lo accompagnava al pianoforte, quando il pubblico era di suo gradimento. Guerra e pace era il cavallo di battaglia di Oleg, lo rileggeva spesso e ne conosceva a memoria lunghi brani.
“È un romanzo che vale per qualunque epoca storica. È e sarà sempre attuale, perché racconta solo i fatti, descrive uomini e natura con assoluta fedeltà. Non fa propaganda” diceva.
Anna, pur non avendo mai letto Guerra e pace, dissentiva.
“D’accordo, Tolstoj sapeva scrivere bene in russo e anche in francese, ma quel suo amore per i mužiki! Come si fa a credere che un contadino analfabeta possa essere più intelligente di un professore con due lauree? Tutti dicono che Tolstoj era un genio. Io dico che era solo un altro matto anarchico. È possibile che in Russia più sei matto e più diventi famoso?”
“Non ti preoccupare” ribatteva Oleg. “Tu pensa a cantare e a suonare il pianoforte. Al resto ci penso io.”
A volte diventava scorbutico.
“Adesso devo leggere. Ricordatevelo: per me fare l’avvocato o il dirigente d’azienda è un hobby. La mia vera professione è la lettura” diceva spesso prima di sedersi nella sua poltrona prediletta in un angolo dello studio, sotto una lampada a stelo. E chiudeva la porta.
Pavel ricordava nitidamente il cranio calvo di suo padre, chino e concentrato sulle pagine illuminate dalla luce rosata della lampada. Erano immagini vivide, fuori dal tempo, spiccavano nella penombra che regnava sul resto dello studio e gli torneranno in mente spesso negli anni a venire. Leggeva come fosse una cerimonia sacra e il suo carattere, di solito amabile, subiva una brusca trasformazione se qualcuno si azzardava a disturbarlo. Il piccolo Pavel si buscava brutti scappellotti se faceva chiasso o entrava nello studio mentre il padre era immerso nella lettura.
“Quando mi vedi su quella poltrona con un libro in mano, tu devi fare finta che io non esista. Anzi, devi fare finta di non esistere tu. Sì, proprio così.”
“Come faccio a far finta di non esistere, batjuška?”
“Non lo so. Sei un ragazzino sveglio, se ti impegni vedrai che ci riesci. Poi sarai tu a spiegare a me come si fa. Adesso sparisci.”
Naturalmente Pavel non riusciva a fare finta di non esistere e così arrivavano gli scappellotti. Oleg però si faceva perdonare ritagliando con le forbici buffi animaletti di carta che poi appendeva con gli spilli al paralume centrale, l’enorme campana gialla di stoffa sopra la tavola da pranzo. E gli animaletti danzavano e cenavano con loro ogni sera proiettando le loro ombre sulla tovaglia.
Quando giunse il primo giorno di scuola il maestro, un uomo piccolo e tarchiato che si era fatto crescere un paio di baffi neri enormi, forse per ispirare il terrore nei suoi alunni, incaricò Pavel e altri bambini di adornare con i nastrini rossi i ritratti dei dirigenti del partito, soprattutto quello di Lenin. Dovevano attaccare con le spille i nastrini intorno alle fotografie delle Guide della Rivoluzione, un lavoro che richiedeva molta precisione. Ma Pavel si era allenato con gli animaletti di carta appesi al paralume, e si distinse per maestria nell’incarico affidatogli. Fiero delle lodi ricevute dal maestro, riferì l’episodio alla madre. Lei, indignata, decise che Pavel non avrebbe frequentato il secondo giorno di scuola. Sapeva che Oleg si sarebbe opposto, ma lei era determinata come poche volte nella sua vita e affrontò il marito assumendo la posa altezzosa e battagliera che seminava il terrore tra le giovani allieve alle quali dava lezioni di canto.
“No! I nastrini rossi mai! Non posso permettere che nostro figlio venga utilizzato come un lacchè dei bolscevichi.”
“Piantala di fare la baronessa!” replicò Oleg. “Mettere nastrini bianchi intorno alla fotografia dello zar o nastrini rossi intorno alla faccia di Lenin non fa nessuna differenza. Nelle scuole i maestri sono costretti, in un modo o nell’altro, a insegnare ai bambini a onorare la patria. Cambiano le facce, ma la patria è sempre la stessa.”
“Tu fai pure i tuoi ragionamenti da uomo di mondo. Tanto io non lo permetterò. I bambini vanno protetti da certi soprusi.”
Oleg alzò le spalle. Aveva cose più importanti di cui occuparsi.
E così l’educazione di Pavel finì in mano a un istitutore privato, il maestro Arkadij, una specie di prete spretato che si divertiva a farlo girare in tondo tenendolo per le mani finché i piedi non si sollevavano da terra e a Pavel sembrava di volare come su una giostra. Il maestro Arkadij, fratello maggiore di un’allieva di canto della matjuška, era affascinato dalla lingua e dalla cultura francese, soprattutto quella dell’800, e felice di avere trovato lavoro in casa Krotovskij, dove era ben pagato e spesso restava a pranzo. Pavel ascoltava le conversazioni degli adulti e cercava di capirne il senso, discutevano di religione e di letteratura, imparava sempre meglio il francese, una specie di seconda lingua obbligatoria, proprio come nei romanzi di Tolstoj, ma quando si mettevano a parlare di quella faccenda che loro chiamavano politica, allora si annoiava. Si annoiava perché non capiva. Quelle discussioni, come i vocalizzi delle allieve della matjuška, erano per Pavel un fastidio supremo.
‘Doremifasolasidodosilasolfamiredo’ si sentiva risuonare per ore nel salotto. E tutti i tentativi della madre per insegnargli a suonare il pianoforte o a cantare fallirono, lui proprio non ne voleva sapere. Trovava ogni scusa per evitare quelle sedute, arrivò al punto di cantare stonando apposta per far saltare i nervi alla madre. Alla fine vinse lui.
Invece il maestro Arkadij gli insegnava molte cose interessanti, sapeva spiegare la geografia in modo così affascinante che ogni volta a Pavel sembrava di viaggiare per tutta la Russia e poi per il mondo intero. Ma neanche quella scuola durò a lungo. Ogni giorno una sorpresa, da un momento all’altro il loro mondo traballante poteva andare a gambe all’aria e avrebbero dovuto ricominciare tutto da capo. Erano proprio i discorsi dei grandi quando si mettevano a parlare di politica. Nessuno era d’accordo con nessuno, si contraddicevano, litigavano, facevano finta di credere alle loro ragioni e rinnegavano quello che avevano appena detto.
Intanto, alle...