Krenak | Futuro ancestrale | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, Band 62, 108 Seiten

Reihe: Not

Krenak Futuro ancestrale


1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-8056-328-0
Verlag: Nero editions
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, Band 62, 108 Seiten

Reihe: Not

ISBN: 978-88-8056-328-0
Verlag: Nero editions
Format: EPUB
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Secoli di devastazione capitalista e coloniale del pianeta e dei suoi abitanti hanno prodotto la crisi ecologica, politica e sociale in cui ci troviamo ormai da tempo. I miti del progresso e dello sviluppo che sono alla base del progetto distruttivo della modernità hanno cancellato i legami che ci uniscono agli altri esseri viventi, riducendo la Terra a un bacino di risorse da mercificare. Nei saggi raccolti in Futuro ancestrale Ailton Krenak attinge dal pensiero indigeno e da altre cosmovisioni tradizionali per esortarci a prendere coscienza una volta per tutte dei danni causati dall'antropocentrismo, da una visione del futuro fondata sullo sfruttamento e l'oppressione di altri esseri, umani e non. E ci invita a immaginare un altro futuro, un futuro ancestrale, già presente nel qui e ora in ciò che esiste attorno a noi. Con un linguaggio profondamente poetico, che possiede il ritmo e la gentilezza dell'oralità, Krenak ci ricorda che le piante, gli animali, i fiumi che con noi abitano il pianeta ci riconnettono al nostro passato e, rivelando i cicli vitali della Terra, ci aiutano a ripensare i modi per conservare e recuperare la vita. Prefazione di Paolo Pecere. Traduzione di Dea Merlini. Ricerca e organizzazione di Rita Carelli. - Krenak sta scrivendo un capitolo fondamentale della storia del Brasile, una contro-storia e una contro-antropologia indigene che hanno come oggetto la cultura dominante dello Stato-nazione che ha colpito i popoli originari di questa parte del mondo. EDUARDO VIVEIROS DE CASTRO Krenak non propone soluzioni, ma una sfida. La sua critica al capitalismo e al paradigma dello sviluppo sfocia nella proposta di rafforzare i rapporti sociali con gli esseri viventi, per sviluppare una visione del mondo che metta al centro la natura nella sua pienezza. NEW YORK TIMES Lucida ed eloquente, la voce di uno dei più importanti leader indigeni emersi nelle Americhe è chiara e sempre ottimista. LATIN AMERICAN REVIEW OF BOOKS

Ailton Krenak (1953) è poeta, scrittore, filosofo e attivista. Nel 2024 è divenuto il primo membro indigeno dell'Accademia Brasiliana delle Lettere. Nel 2016 è stato insignito del titolo di professore honoris causa dalla Universidade Federal Juiz de Fora, dove ha insegnato Cultura e storia dei popoli indigeni e Arti e mestieri dei saperi tradizionali. Ha pubblicato, tra gli altri, Idee per rimandare la fine del mondo (2019, Aboca 2020) e A vida não é útil (2020).
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PREFAZIONE

di Paolo Pecere

«Sono i fiumi, questi esseri che abitano i mondi in diverse forme, a suggerirmi che esiste un futuro a cui pensare. Tale futuro è ancestrale perché era già qui.»

Le parole con cui comincia Futuro ancestrale esprimono già il gesto fondamentale del pensiero di Ailton Krenak: attingere da un passato remoto, di tradizioni orali e di relazioni con l’ambiente, per pensare un futuro globale. Krenak lo fa articolando un discorso scritto, rivolto soprattutto agli abitanti delle civiltà urbane contemporanee. Il suo pensiero non si può classificare rigidamente secondo le nostre consuete categorie: è insieme poetico e politico, filosofico e animista, apocalittico ed ecologico. Seguendo il filo che lo tiene insieme, bisogna risalire fino alla storia del suo popolo.

I Krenak appartengono a un gruppo di popoli che i primi esploratori europei chiamarono Botocudos, in riferimento ai dischi inseriti nelle orecchie e nelle labbra (in portoghese: botoque). Erano abitanti seminomadi della costa orientale del Brasile, che nell’Ottocento si stabilirono nell’area del Rio Doce. Dopo secoli di infondate accuse di cannibalismo, nel 1808 il governo coloniale portoghese dichiarò una «giusta guerra» contro i Botocudos, colpevoli di resistere alla civilizzazione, confiscandone le terre per distribuirle ai coloni. Soltanto nel 1920 i pochi superstiti di questa popolazione ricevettero alcune terre dal Servizio di Protezione dell’Indio, un’agenzia governativa fondata in reazione alle accuse di genocidio, che cercò di incorporarli nello Stato brasiliano, e poi furono più volte spostati dagli organi federali che ripresero le stesse funzioni. In seguito ai massacri, alle deportazioni e alle mescolanze etniche, oggi rimangono poco più di duecento Krenak.1

Nel 1818, Georg Heinrich von Langsdorff, esploratore tedesco e console dell’Impero russo a Rio de Janeiro, ricevette in dono un quindicenne Botocudo. Lo prese come assistente nelle sue spedizioni naturalistiche, lo mandò a cercare farfalle sull’isola di Sant’Elena, e quando il ragazzo morì prematuramente nel 1820 conservò il suo teschio – un oggetto molto richiesto dai naturalisti in Europa.2 Un altro naturalista tedesco interessato a procurarsi uno di questi teschi, il principe Maximilian von Wied-Neuwied – che aveva avuto come precettore nientemeno che Alexander von Humboldt – condusse una spedizione tra i Botocudos tra il 1815 e il 1817. I suoi resoconti etnografici sono testimonianze preziose sull’aspetto e le usanze di quel popolo. Nonostante il suo rigoroso interesse scientifico e la precisione delle sue osservazioni, von Wied-Neuwied condivideva i pregiudizi comuni dell’epoca, considerando i Botocudos «rozzi selvaggi», caratterizzati da pigrizia e ghiottoneria, bellicosi e convinti di «idee stravaganti» sugli spiriti della foresta.3 Del resto, il principale interesse degli esploratori dell’epoca consisteva nell’analisi delle risorse e della varietà biologica delle terre amazzoniche, e gli «uomini di natura» facevano parte di questo scenario. Il cranio di un Krenak morto era più interessante del suo pensiero.

In questa crudele cornice, quegli studiosi dell’Ottocento osservarono e ascoltarono per ultimi i membri di una società poi frammentata e quasi estinta, la cui cultura in parte è dimenticata e la cui lingua oggi si cerca faticosamente di reintrodurre. Ailton Krenak riconosce con amarezza questo paradosso. Riferendosi ai manoscritti di argomento etnografico che von Langsdorff portò in Russia, e che furono poi riscoperti in Unione Sovietica negli anni Trenta, ha dichiarato che la perduta cultura dei Krenak si trova ormai «in un baule a San Pietroburgo».4

Questo antefatto è solo un frammento della storia che ha portato alla lotta indigena dei popoli brasiliani, e all’entrata nel dibattito pubblico di Ailton Krenak negli anni Ottanta del secolo scorso. Quando parla di «fine del mondo» e, in Futuro ancestrale, di «possibilità di altri mondi», il suo discorso va riferito prima di tutto a questo passato da elaborare.5 Il mondo dei Krenak, quella società con la sua cultura precoloniale, è finito. Si tratta però della fine di un mondo, non di un’apocalisse universale come quella ebraico-cristiana. «La fine del mondo […] c’è sempre stata» diceva Ernesto de Martino alla metà degli anni Sessanta. «Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti chissà da dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cos’è la fine del mondo se non la fine del proprio mondo?»6 Con questa fine alle spalle, Krenak prospetta la fine di un altro mondo, quello del capitalismo, intendendo l’ordine mondiale che entra in conflitto con l’ambiente e i modi di vita di popolazioni come la sua, determinando la riduzione sistematica di tutta la natura non-umana a risorsa da sfruttare o accessorio estetico. In questo senso, il suo discorso è parallelo a quello di altri portavoce dei popoli amazzonici della stessa generazione, come Davi Kopenawa – a cui lo stesso Krenak si riferisce – che è già letto e tradotto in Europa.7

Questa presa di parola è di per sé un evento epocale, che da pochi decenni ha portato voci amazzoniche a esprimersi su una situazione che per secoli è stata riferita e discussa solo da missionari, antropologi e politici bianchi. Per secoli la finzione di un nativo americano è stata impiegata da autori europei per giustificare l’oppressione e la schiavitù, o al contrario per illustrare una critica interna alla propria civiltà (da Montaigne agli illuministi francesi). Ora quella finzione è rimpiazzata da voci vere e proprie di persone nate in Amazzonia, che vanno ascoltate, e possono avviare un dialogo.8 Voci che talvolta parlano allo stesso modo, ma è importante rilevare una sottile differenza tra il modo in cui Krenak e Kopenawa sono arrivati ad affrontare il conflitto in atto, passando entrambi per la conoscenza di due mondi.

Kopenawa è cresciuto a Watoriki, un villaggio del popolo Yanomami che si trova nella foresta, lontano dalle strade e dai centri urbani. Da adulto è andato a vivere a Boa Vista, capoluogo dello Stato di Roraima, ha lavorato per la FUNAI, l’ente brasiliano che si occupa di tutelare i popoli della foresta, ma in seguito è tornato a vivere a Watoriki, e da qui ha partecipato alla campagna in difesa degli Yanomami fino a ottenere il riconoscimento del loro diritto sulle loro terre, ancora oggi contese da minatori, allevatori e trafficanti di droga. Krenak vive da molto tempo in città: si è laureato, è giornalista, e negli anni Ottanta ha fondato il Núcleo de Cultura Indígena, dedicandosi all’attivismo fino a intervenire nella costituente brasiliana e a diventare uno degli intellettuali più letti in Brasile. Questa diversa collocazione determina la differenza di accento nei loro discorsi: Kopenawa usa toni apocalittici verso il «popolo della merce», i «Bianchi», che – con le eccezioni di alcuni individui virtuosi – hanno cercato e cercano la loro distruzione: la «caduta del cielo» del mito Yanomami diventa allora una catastrofe cosmica che riguarda anche questi ultimi, che hanno il compito di ascoltare e ravvedersi. Krenak muove dalla stessa contrapposizione per teorizzare – con una nozione ripresa da un altro pensatore e attivista indigeno, Nêgo Bispo – una «confluenza» di mondi. Nel suo discorso il pensiero indigeno, che considera fiumi e foresta come soggetti viventi, dev’essere integrato e ripensato nelle città, innestarsi nel tessuto urbano, contribuire a costruire un futuro diverso.

In questo senso Krenak incarna a suo modo, da attivista e pensatore, la figura dello «sciamano» contemporaneo, che, come ha sottolineato l’antropologa Manuela Carneiro da Cunha, è un viaggiatore tra mondi, un «traduttore», uno che «ricostruisce significati, stabilisce relazioni, tesse sottili connessioni». Se un tempo questi individui mediavano tra le comunità di cacciatori e gli spiriti degli animali, oggi il loro compito di mediazione coinvolge anche i consumatori urbani.9 La relazione non antropocentrica con l’ambiente di cui parla Krenak conserva anche un aspetto che definiamo ecologico, ma che è anche e altrettanto etico e metafisico. Krenak definisce la spiritualità come «l’interdipendenza tra tutti gli esseri viventi».10 Questa stessa interdipendenza è incorporata nella definizione scientifica di ecologia, in termini di scambi di energia, di risorse. Ma questa, nel pensiero amazzonico, lega entità dotate di personalità. È quello che gli antropologi chiamano «animismo», una visione cosmologica di cui possiamo ritrovare le tracce nella nostra tradizione filosofica antica, ma che, senza bisogno di risalire genealogie intellettuali, affonda le radici nelle nostre capacità cognitive e affettive di esseri umani.11 Si tratta di riconoscere il valore rivestito da fiumi e montagne, animali e piante per la nostra vita e per la nostra identità, non soltanto in termini di risorse da sfruttare, ma per la relazione vitale e spesso emotiva che ci lega a essi. Possiamo allora considerarli «persone» senza uscire completamente dalle nostre categorie abituali, partendo dal significato giuridico di quel termine: i diritti di esseri viventi non-umani, luoghi e interi territori sono infatti oggi tema di intenso dibattito politico, giuridico e antropologico. La tesi di Ailton Krenak è proprio che le idee ancestrali del suo...



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