E-Book, Italienisch, 188 Seiten
Reihe: Narrativa
Larsson Nel nome del figlio
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-7091-956-1
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 188 Seiten
Reihe: Narrativa
ISBN: 978-88-7091-956-1
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
27 agosto 1961. A Skinnskatteberg, nella Svezia centrale, una piccola barca a motore carica di sei uomini e due bambini prende il largo nel lago Nedre Vätter durante una gara di pesca. Un altro bambino, figlio dell'elettricista Bernt Larsson, non ha voluto accompagnare a bordo il padre ed è tornato a casa. A notte fonda lo sveglia un grido disperato: la zia ha saputo che la barca è stata ritrovata capovolta e i passeggeri sono dispersi. Gli otto corpi vengono poi recuperati, ma la dinamica dell'incidente resterà per sempre oscura. A Skinnskatteberg tutti piangono le vittime, tutti tranne il figlio di Bernt: lui per la morte del padre riesce a provare soltanto sollievo. Com'è possibile? Dopo molti anni quel bambino è diventato uno dei più importanti scrittori svedesi, ma ai personaggi delle sue storie non ha mai dato una famiglia, dei parenti, un passato, e si accorge di aver sempre vissuto da orfano, guardando più avanti che indietro. Di certo non ha mai rimpianto il padre, del quale ha solo una manciata di ricordi. Ma cosa significa, per lui e per chiunque, vivere senza radici e senza desiderarne? Tra dubbi e vuoti di informazioni, ha inizio la ricognizione di un legame di sangue, destinata a fare di quel padre solo la proiezione di un figlio. Sfilano, in questa indagine in bilico tra biografia e autobiografia, e tra narrazione pura e divagazioni scientifico-filosofiche, i grandi scrittori del passato che Björn Larsson ha letto e studiato, da Harry Martinson a Per Olov Enquist, da Marcel Proust all'amatissima Simone de Beauvoir, contribuendo a restituire, insieme al ritratto impossibile di un padre, una riflessione sulla memoria, sull'identità e sulla libertà.
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Una risposta del genere esige una spiegazione. Perlomeno se il figlio non vuole essere considerato un egoista incallito, come presumo sarà comunque.
Ha già fatto vari tentativi in passato di raccontare perché non aveva pianto alla morte del padre, ma è abbastanza sicuro che pochi l’abbiano ascoltato, o preso sul serio, almeno in Svezia. Perché ostinarsi, allora? Perché in realtà è convinto, seriamente, che la storia abbia una morale. Per dirla in breve: non è sempre vero che «il sangue non è acqua».
Perché non è riuscito a sentire la mancanza del padre? La zia che l’aveva svegliato con il suo urlo disperato voleva molto bene al fratello. Ed era un’ottima persona, che il figlio rispettava. Quindi il padre non doveva essere tanto cattivo da non meritare il rimpianto, soprattutto del figlio.
È vero che a quei tempi i rapporti tra padri e figli non erano tanto stretti, né fisicamente né affettivamente. Non ricorda una sola occasione in cui il padre abbia abbracciato o coccolato lui o la sorella, giocato con loro o letto delle storie. Ma non può essere un motivo sufficiente: la maggior parte dei bambini era nella sua stessa situazione.
La Svezia – come la Russia, la Finlandia, la Scozia e altri paesi del Nord – apparteneva ancor più di adesso a quella che potremmo chiamare «la cintura dei superalcolici». Bere non significava farsi un paio di bicchieri: voleva dire – e per molti è ancora così – sbronzarsi una o due volte alla settimana, con tutto quel che comportava la liberazione dai freni inibitori, e la conseguente aggressività.
Il figlio aveva assistito a diverse liti tra i genitori, a volte per l’alcol che il padre aveva già scolato, altre perché la madre cercava di impedirgli di bere. Erano scenate con urla, ma senza violenza fisica, se ben ricorda, per di più neanche tanto frequenti. Ma ogni volta che succedeva, lui se ne andava di casa, scendeva al lago, sempre quello dell’incidente, o a un prato dove c’era un grosso masso su cui sedersi, sperando che la lite fosse finita al suo rientro. Si sentiva un po’ in colpa per la sua fuga, pensava che forse avrebbe dovuto restare a casa, intervenire, prendere le parti della madre, che aveva ragione a opporsi a quel bisogno di alcol, tanto più che la famiglia non sguazzava nell’oro. Scappando, oltretutto, non piantava in asso la sorella? Zia Mildred anche in seguito sosteneva che era sempre stato gentile e premuroso nei confronti della sorella. Chissà, forse era anche vero.
Comunque era questo, l’alcol, l’origine, se non la vera e propria causa, della frattura tra padre e figlio.
Era un sabato, e il padre voleva comprarsi una bottiglia di acquavite per la sera. Il figlio non sa se la madre gli avesse rifiutato i soldi o non ce ne fossero più in casa, fatto sta che il padre aveva preso un martello e, senza chiedere nessun permesso, senza neanche guardarlo in faccia, aveva spaccato il salvadanaio del figlio. E non aveva mai chiesto scusa.
È sicuro che sia stato quello il momento in cui ha perso la fiducia nel padre e ha cominciato a prendere le distanze da lui. Sapeva come fare: basta starsene per proprio conto, nascondersi, chiudersi in se stesso per proteggersi. Uno psicologo trarrebbe probabilmente una diagnosi dalla condotta del figlio. Ma bisogna andare più a fondo di così, perché il figlio non ne soffriva, anzi, provava un senso di liberazione. Non voleva soffrire per la stupidità o la cattiveria degli altri. Era disposto ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni, ma non di quelle altrui, tantomeno dei suoi genitori.
Eppure neanche questa è una spiegazione sufficiente per la mancanza di dolore. C’erano padri che bevevano e trattavano mogli e figli in modo imperdonabile. E figli che vivevano inferni ben peggiori del suo, senza reagire come lui. Gli altri bambini venivano puniti, quando si comportavano male, lui no. Inoltre tutti gli psicologi concordano sul fatto che i bambini in genere restano solidali con i genitori anche quando sono trascurati o maltrattati, anche quando in casa si abusa di droga o alcol e sono loro a farne le spese. Il figlio avrebbe anche potuto cercare protezione dalla madre. E invece no, ha preferito isolarsi. Perché?
Qualche giorno dopo il funerale – lui e la sorella erano stati lasciati ad aspettare fuori dalla chiesa con zia Helén, probabilmente per un malfondato riguardo – il figlio tornò a scuola. Già l’indomani sentì un bisogno così forte di parlare con qualcuno di quel che aveva provato che si confidò con il suo migliore amico, compagno di classe. Cosa gli abbia detto esattamente non lo ricorda, ma gli confessò che la morte del padre gli aveva dato più sollievo che dolore.
Quel giorno stesso, quello stesso pomeriggio era a casa della nonna, quando tutt’a un tratto comparve alla porta la madre in lacrime e gli chiese se davvero aveva detto di essere sollevato per la morte del padre, se davvero aveva potuto dire una cosa tanto orribile.
Ovviamente il figlio negò. Che altro poteva fare? No, non aveva mai detto niente del genere. La madre gli credette, forse perché l’alternativa era impensabile, insopportabile. Era già capitato che il figlio le mentisse o le raccontasse mezze verità – per esempio quando aveva rischiato di annegare mollando troppo tardi la presa di un pietrone che aveva gettato nel lago sotto casa – ma questa era una bugia di tutt’altro peso. Nascondeva un segreto che non poteva raccontare. Per quell’unica bugia, per quanto bianca, da quel momento aveva creato distanza tra sé e gli altri. Aveva imparato che bisogna stare attenti a quello che si dice, che non si può impunemente esprimere tutto quello che si pensa e si prova. E così di colpo era diventato, o reso – perché in fondo non era «colpa» sua – più solo al mondo.
Il figlio non ha mai provato rancore o rabbia verso il compagno, che probabilmente si era limitato a pensare che quella confidenza fosse così bizzarra da doverla raccontare a sua madre, o a un altro adulto. Quello che invece non ha mai perdonato è che poi un adulto avesse fatto circolare la voce, e soprattutto che l’avesse fatta arrivare alle orecchie della madre. Non ha mai potuto riconciliarsi con tanta stupida cattiveria, o cattiva stupidità. Dopotutto aveva solo sette anni e mezzo.
A partire da quel pomeriggio, la vita del figlio cambiò. Cosa aveva imparato? A non fidarsi mai di qualcuno senza prima conoscerlo bene, a non giudicare mai un altro senza sapere chi fosse, a non sentirsi in colpa per un errore che non aveva commesso. E aveva anche imparato, giusto o sbagliato che fosse, che lui era diverso dagli altri, che non poteva dire tutto quello che gli pareva e piaceva perché gli si poteva ritorcere contro. Quel giorno gli si creò intorno se non proprio un muro, che forse è dire troppo, però almeno un vuoto, una specie di zona cuscinetto che non è mai realmente scomparsa. Era bastato un istante perché il bambino che era perdesse la sua innocenza.
Potrebbe addirittura dire – e ora pesa molto bene le parole – che la morte del padre in qualche modo costituì una sorta di liberazione. Avrà anche perso molto, benché precisare cosa sia impossibile, in compenso però qualcosa l’ha sicuramente guadagnato. Da quel giorno non ha mai più dovuto misurarsi con il padre, provare a superarlo o tenergli testa. E ha evitato di diventare una proiezione dei suoi sogni irrealizzati, com’era il caso di molti figli di quegli operai che avrebbero voluto studiare, ma non ne avevano mai avuto la possibilità. Il padre apparteneva infatti alla cosiddetta «riserva di talenti», espressione che già di per sé ha un che di denigratorio, cioè era uno di quei giovani promettenti privi di mezzi. A quanto raccontava zia Mildred, il suo insegnante di riferimento era andato dal nonno per pregarlo di permettere al figlio di proseguire gli studi dopo la scuola dell’obbligo: «Il ragazzo ha tutti i presupposti per riuscire», aveva insistito. Il nonno aveva detto di no. Suo figlio non avrebbe studiato. Si sarebbe trovato «un lavoro onesto».
Oggi il dolore più grande del figlio, quando pensa a suo padre, non è quello di averlo perso, ma che sia morto senza aver avuto la possibilità di vivere la sua di vita. Aveva ventinove anni quando è annegato, un’età in cui chiaramente stava facendo quanto poteva per liberarsi dalla camicia di forza che gli imponevano la famiglia, la classe sociale e l’educazione. Per ribellarsi a suo padre, aveva scelto di diventare elettricista invece di andare a lavorare nei boschi come la maggioranza degli altri. Nel corso della sua breve esistenza era riuscito a ottenere numerosi brevetti per le sue invenzioni, era stato uno dei primi a cercare – e trovare – l’uranio nelle rocce del Västmanland, e aveva fatto un corso di immersione molto prima che diventasse uno sport popolare.
Sempre a detta della zia, appena qualche settimana prima di morire aveva saputo di essere stato promosso caposquadra della centrale elettrica di Skinnskatteberg, un impianto di...




