Lessing | Le prigioni in cui scegliamo di vivere | E-Book | www.sack.de
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E-Book, Italienisch, Band 13, 88 Seiten

Reihe: Filigrana

Lessing Le prigioni in cui scegliamo di vivere

Cinque lezioni sulla libertà
1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-3389-663-2
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Cinque lezioni sulla libertà

E-Book, Italienisch, Band 13, 88 Seiten

Reihe: Filigrana

ISBN: 978-88-3389-663-2
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Vincitrice del Nobel per le sue opere narrative, in questi brevi saggi Doris Lessing si concentra sul sottile filo che separa l'esercizio della libertà da quello della brutalità. Cercando risposte alla domanda che da secoli tormenta gli uomini - Dove finisce la nostra libertà e comincia quella del vicino? - e alle infinite domande che ne scaturiscono - È lecito esercitare l'autorità in nome di una causa nobile? Perché le brave persone commettono atti ignobili quando stanno «ubbidendo agli ordini»? Perché è così difficile sottoporre a un esame critico rigoroso le idee del nostro gruppo di appartenenza? - la scrittrice mette in luce il pericoloso ritorno al primitivo che caratterizza i rapporti individuali e il dibattito pubblico nella nostra epoca, e affronta il tema della libertà e della responsabilità personale in un mondo sempre più soggetto alla retorica politica, alla polarizzazione acritica, all'emotività di massa e alle fideistiche convinzioni che abbiamo ereditato dal passato e che siamo riluttanti a mettere in discussione.

scrittrice e drammaturga, nata in Persia, cresciuta in Rhodesia del Sud e trasferitasi a Londra nel 1949, ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 2007. Appassionata di sufismo, la sua scrittura esplora temi di politica, femminismo, psicologia. Tra le sue opere più note ricordiamo Il taccuino d'oro (1962), L'erba canta (1950), Memorie di una sopravvissuta (1974), La brava terrorista (1985) e i clicli di romanzi «I figli della violenza» e «Canopus in Argos».
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In futuro, quando penseranno a noi


C'era un allevatore molto ricco e molto rispettato che aveva uno dei migliori allevamenti di bestiame del paese, tanto che tutti gli allevatori del sud andavano da lui per farsi consigliare. Questo episodio si verificò nella Rhodesia del Sud di un tempo, oggi Zimbabwe, dove io sono cresciuta. Era poco dopo la seconda guerra mondiale.

Conoscevo bene quell'uomo e la sua famiglia. Era di origine scozzese e a un certo punto decise di importare dalla Scozia un toro eccezionale. Questo succedeva poco prima che la scienza scoprisse come far viaggiare da un continente all'altro, in piccoli pacchi aerei, vitelli potenziali. L'animale dunque arrivò in aereo, naturalmente, e fu accolto da un comitato festoso di agricoltori, amici ed esperti. Era costato diecimila sterline. Non ho idea di che cosa significhi oggi, ma era una somma enorme per l'allevatore. Gli costruirono una stalla tutta per sé. Era una bestia enorme, massiccia e impressionante, ma mite come un agnello. Si diceva che adorasse il solletico sulla nuca, che gli facevano con la punta di un bastone tenendosi a distanza di sicurezza dietro le sbarre della sua stalla. A occuparsi di lui c'era un ragazzino nero di circa dodici anni. Tutto andava bene ed era chiaro che il toro presto sarebbe diventato padre di un bel numero di vitelli. E poi era un'attrazione per i visitatori che la domenica pomeriggio facevano una gita apposta per andarlo a vedere e se ne stavano attorno al suo recinto a fissare quella bestia così forte e così docile. Ma all'improvviso, inspiegabilmente, il toro uccise il suo custode, il ragazzino nero.

Si formò una specie di tribunale. I genitori del bambino chiesero e ottennero un risarcimento. Ma non finì così. L'allevatore decise che il toro andava abbattuto. Quando si sparse la notizia un sacco di gente andò da lui a chiedere che risparmiasse la vita di quel magnifico animale. Dopotutto era nella natura dei tori di inferocirsi all'improvviso, lo sapevano tutti. Il ragazzino era stato avvertito e forse non aveva dato ascolto alle raccomandazioni. Certamente non si sarebbe più ripetuta una cosa del genere e... a che cosa sarebbe servito sprecare tutta quella forza, tutto quel potenziale, per non parlare dei soldi?

«Il toro ha ucciso, il toro è un assassino, e dev'essere punito. Occhio per occhio, dente per dente», disse l'allevatore, inesorabile, e infatti il toro fu abbattuto da un plotone di esecuzione e sotterrato.

Ora, come ho già detto, l'allevatore non era una persona ignorante, né un bifolco. Inoltre come tutti i suoi simili – la minoranza bianca al potere – passava gran parte del suo tempo ad accusare i neri che vivevano intorno a lui di essere primitivi, arretrati, pagani e così via.

Ma quello che aveva fatto – la condanna a morte di un animale assassino – affondava le radici nel passato remoto dell'umanità, un passato così lontano che non sappiamo situarlo, ma certamente un'epoca in cui l'umanità non riusciva a distinguere chiaramente tra uomini e bestie.

Ogni cauto tentativo di farlo ragionare in quella direzione da parte di amici e colleghi fu da lui rifiutato con un secco «so distinguere quel che è giusto da quel che è sbagliato, grazie tante».

C'è un'altra storia. Un certo albero un bel giorno fu condannato a morte, alla fine dell'ultima guerra mondiale. L'albero era associato col generale Petain, per un certo periodo ritenuto il salvatore della Francia e poi il suo traditore. Quando Petain cadde in disgrazia, l'albero fu solennemente condannato a morte e giustiziato come collaborazionista.

Penso spesso a questi episodi: fanno parte di quella categoria di eventi che sembrano caricarsi di significato col passare del tempo. Quando sembra che tutto vada liscio – e mi riferisco alle vicende umane in generale – all'improvviso si assiste a una qualche orrenda ondata di primitivismo e la gente torna a comportamenti barbarici.

È di questo che intendo parlare nelle presenti cinque conferenze, di quanto e quanto spesso siamo dominati dal nostro passato selvaggio, come individui e come gruppi. Eppure, anche se a volte sembriamo impotenti, andiamo accumulando, e anche molto rapidamente – troppo rapidamente per assimilarle – le informazioni che ci riguardano, non solo come individui, ma come gruppi, nazioni e membri della società.

È spaventoso vivere in un'epoca come la nostra in cui è difficile pensare all'essere umano come a una creatura raziocinante. Dovunque ci volgiamo vediamo brutalità, stupidità, tanto che sembra che non ci sia altro che questo – ovunque una discesa nella barbarie, una discesa che non siamo in grado di controllare. Ma io credo che, se è vero che c'è un generale peggioramento, è proprio perché le cose sono così spaventose che ne restiamo ipnotizzati, e non registriamo – o se registriamo, minimizziamo – le forze altrettanto potenti che si muovono nella direzione opposta, cioè in quella della ragione, della saggezza e della civiltà.

E so bene che mentre dico queste cose tanti staranno borbottando: «Ma dove? Questa deve essere matta per vedere qualcosa di buono in questo casino».

Io credo che tale saggezza vada cercata proprio nel processo di giudizio cui sottoponiamo il nostro comportamento – quando esaminiamo il caso dell'allevatore che ha ucciso un animale per fargli espiare il suo crimine, o quello della gente che ha condannato e giustiziato un albero. Contro tali istinti primitivi e potentissimi abbiamo questo: la capacità di esaminarci da altri punti di vista. Si tratta di punti di vista molto vecchi – forse molto più vecchi di quanto crediamo. Non c'è niente di nuovo nella pretesa che la ragione governi le vicende umane. Per esempio, nel corso di un altro studio, mi sono imbattuta in un libro indiano, di duemila anni fa e più, un manuale per il buongoverno dello Stato. Le sue indicazioni sono fredde, ragionevoli e razionali come potrebbero essere quelle di un manuale odierno, dal quale non si discosta neanche rispetto al modo di intendere la giustizia e di reclamarne l'applicazione. Ma il motivo per cui cito questo libro – che si chiama Arthásàstra e fu scritto da un tale di nome Kautilya, ma che purtroppo non è facile trovare se non nelle biblioteche specializzate – è che, anche se ci sembra incredibilmente vecchio, il libro in questione fa riferimento a se stesso come l'ultimo nel suo genere.

Si potrebbe sostenere che non c'è da stare allegri se, dopo migliaia di anni che si sa perfettamente in cosa consista il buongoverno, siamo ancora tanto lontani dal realizzarlo. Ma, e questo è il punto di quel che voglio dire, ciò che sappiamo oggi su noi stessi è molto più complesso e articolato, è più profondo di quello che l'uomo sapeva allora su di sé, di quello che ha saputo per migliaia di anni.

Se mettessimo in pratica quello che sappiamo... ma proprio questo è il punto.

Penso che quando le generazioni future ripenseranno al nostro tempo si meraviglieranno soprattutto di una cosa: del fatto che oggi sappiamo di noi stessi più di tutte le generazioni precedenti. Ma di tutto ciò molto poco è stato messo in pratica. C'è stata la grande esplosione dell'informazione... L'informazione è il risultato della capacità ancora infantile dell'umanità di guardare a se stessa obiettivamente. Ha a che fare con i nostri schemi comportamentali. Le scienze in questione a volte sono chiamate comportamentistiche e hanno a che fare con il nostro modo di funzionare in gruppo e come individui, e non col modo in cui ci piace pensare che ci comportiamo e funzioniamo, che spesso è fin troppo lusinghiero. Riguardano un tipo di osservazione spassionata, come quella con cui osserviamo il comportamento di altre specie. Queste scienze sociali o comportamentistiche sono precisamente il risultato della nostra capacità di distacco e di obiettività nei nostri stessi riguardi. C'è una grande massa di informazioni nuove provenienti dalle università, dagli istituti di ricerca e da dilettanti di genio, ma i nostri modi di governarci non sono cambiati.

La nostra mano sinistra non sa – non vuole sapere – quello che fa la nostra mano destra.

È questo che oggi mi sembra il fatto più straordinario da rilevare a proposito della nostra specie, e le generazioni a venire se ne meraviglieranno così come noi ci meravigliamo della cecità e dell'inflessibilità dei nostri antenati.

Mi chiedo spesso come appariremo a chi verrà dopo di noi. E non è una domanda oziosa, ma un tentativo deliberato di potenziare la forza dell'«altro occhio» che possiamo usare per giudicarci. Chiunque si occupi di storia sa che le convinzioni più radicate e appassionate di un secolo per lo più appaiono ridicole a quello successivo. Non c'è epoca della storia che ci appaia così come deve essere apparsa a chi l'ha vissuta. Quello che sperimentiamo personalmente, in ogni tempo, è il prodotto dell'impatto che hanno su di noi le emozioni di massa e le condizioni sociali dalle quali ci è praticamente impossibile isolarci. Spesso le emozioni generali sono quelle che ci appaiono più nobili, le migliori e le più attraenti. Eppure, nel giro di un anno, di cinque anni, di un decennio, di cinquant'anni, la gente si chiederà: «Ma come avranno fatto a pensarla in quel modo?», perché nuovi eventi avranno bandito le suddette emozioni diffuse, scaricandole – per così dire – nel secchio della spazzatura della storia.

La gente della mia età è passata attraverso una serie di rivolgimenti storici violenti. Ne citerò solo uno. Durante la seconda guerra mondiale, dal momento in...



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