E-Book, Italienisch, 199 Seiten
Malamud Il cappello di Rembrandt
1. Auflage 2015
ISBN: 978-88-7521-707-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 199 Seiten
ISBN: 978-88-7521-707-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
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Accanto ai suoi romanzi maggiori, Bernard Malamud ha sperimentato con successo la misura del racconto, in cui ha inscenato delle variazioni dei temi che gli sono cari: la fatica, la solitudine, la sconfitta, ma anche un'appassionata speranza di riscatto e di fede, accompagnata da una carica decantatrice di ironia e di humour. Ad esempio in «La corona d'argento» un insegnante che cerca di strappare il padre a una morte inevitabile si imbatte in un rabbino che gli offre come talismano una corona: tutto si vanifica attorno alla sua realtà fisica ed economica. E poi ancora un pittore che vuol diventare grande come Rembrandt e del maestro comincia a portare i cappelli; una giovane casalinga di periferia che sogna una vita da romanzo; un vedovo che insegue il desiderio di un giovane amore; un cavallo da circo che ragiona come un uomo; un ebreo russo che vuole affidare a tutti i costi i suoi racconti a uno sconosciuto affinché li porti all'estero... In ognuno dei racconti di Malamud c'è sempre i tentativo di dare concretezza a un desiderio impossibile: collocare la fantasia al di qua del regno del superfluo, per viverla come una delle dimensioni fondamentali dell'esistenza.
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PREFAZIONE
Uno degli aspetti più straordinari dell’opera di Malamud è la naturalezza con cui ci accompagna all’interno delle sue storie. Bastano poche righe ed eccoci catapultati in un mondo di timidi impiegati, professori ubriaconi, ebrei secolarizzati, mogli insoddisfatte, commessi disonesti, pittori spiantati, viaggiatori insoddisfatti, amici litigiosi. In questo mi ha sempre ricordato il grande fumettista Will Eisner – l’inventore di quello che oggi, a volte impropriamente e a volte sull’onda della moda, chiamiamo .
I mondi di Eisner e Malamud si sfiorano per diversi motivi. Ne scelgo tre: in entrambi trova voce l’atmosfera dei quartieri popolari di New York; in entrambi risuona l’ironia amara della grande tradizione ebraica americana; e in entrambi vive il più grande amore e il più grande rispetto per le storie – per gli aneddoti, per i dettagli, per tutto quello che è carne e sangue della narrazione.
Ricordatevi di Eisner: ci tornerò alla fine. Ora però vorrei farvi ascoltare la voce di Malamud, tratta dall’intervista che concesse alla nel 1974. (La citerò spesso, anche per evitare che questa prefazione diventi noiosa – un rischio che il genere corre di frequente – o si avviti sul mio amore per Malamud.)
Alla domanda se ci sia qualche rapporto fra arte e morale, il nostro risponde che la prima
tende verso la moralità. Dà valore alla vita. Anche quando non è così, comunque tende in quella direzione. Il mio ex collega, Stanley Edgar Hyman, diceva spesso che anche l’atto di creare una forma è un atto morale. Una formula che lascia fuori qualcosa, ma capisco quello che voleva dire, e mi piace. È vicino alla definizione di Frost della poesia come «una stasi momentanea contro la confusione». La morale inizia con la consapevolezza della sacralità della propria vita, e quindi della vita degli altri – anche quella di Hitler, tanto per cominciare – il privilegio puro di esistere, in questo cosmo miracoloso, e cercando di capire il perché. L’arte, in sostanza, celebra la vita e ci fornisce una misura.1
Wow. Al che l’intervistatore, Daniel Stern, domanda a Malamud se l’arte cambi il mondo. Risposta: «Cambia me. Mi afferma».
«Davvero?», inquisisce Stern.
«Be’, aiuta», ridacchia Malamud.
So che dire «in questo scambio c’è tutto un autore» è un luogo comune fastidioso e riduttivo; ma in questo scambio mi sembra che ci sia davvero tutto Malamud: la comprensione assoluta della materia narrativa, il rigore etico che la ispira, e poi un tocco di felice .
L’intervista di Stern è interessante anche perché avviene un anno dopo la pubblicazione del libro che tenete fra le mani; il che ci fa entrare nel vivo delle cose.
esce nel 1973, quando Malamud ha già alle spalle i suoi lavori più famosi e premiati (, e su tutti). La raccolta ha un filo conduttore che Robert Kiely, nella recensione apparsa sul , enuclea così: «in ogni racconto, qualcuno desidera l’impossibile». Una guarigione, un amore, anche solo una sciocchezza. E per ottenerlo, sono tutti disposti a tutto: fino a far traballare, a volte, il realismo di fondo dell’opera. Al che Kiely aggiunge: «La fantasia non è un ricamo irrilevante attorno alla vita “reale” o un’alternativa a essa, bensì un fatto centrale della vita attorno a cui si sviluppano azioni e parole cruciali».
Leggendo vi accorgerete di come i piccoli mondi edificati da Malamud siano ogni tanto percorsi da un brivido come di bizzarria, di irrealtà. (Egli stesso lo ammette nell’intervista a Stern, dicendo che nella forma breve «il dramma è terso, accade più alla svelta, e ha spesso un aspetto stravagante».)
Ma lungi dal valere come fonte di evasione, questo uso minimale dell’assurdo viene sfruttato per fini assolutamente realistici – una vecchia lezione di Kafka. «Malamud è stato per così dire nel settore delle favole», scrisse il critico Alan Lelchuk. (Difficile dargli torto: sia perché la riflessione etica non è un ingrediente aggiunto a posteriori ma vive nella carne delle storie che racconta, sia per il fascino quasi da racconto orale che promana dalla sua arte.)
L’impossibile, nel , permane sempre tale. Nessuno ottiene ciò che vuole, anche perché spesso non se lo merita. Eppure la sconfitta non illumina un mondo cupo e desolato, né si tramuta in accanimento: in ogni caduta c’è sempre una grande dignità.
Quanto ai vari testi della raccolta, contiene diversi pezzi di enorme bravura e un capolavoro assoluto, il racconto d’apertura «La corona d’argento». Niente di meglio che cominciare da qui, dunque.
Il padre del giovane Albert Gans giace in ospedale malato: i medici non sanno che pesci pigliare. Il figlio si rivolge allora a un rabbino che promette di guarire il vecchio con una corona d’argento offerta in dono a Dio; la fabbricazione è molto costosa, ma il metodo è garantito, e non richiede altro che quei soldi e l’amore del figlio stesso. Dopo un lungo rimuginare, Albert Gans accetta. Il giorno successivo però ritiene di essere stato gabbato e torna dal rabbino: lo incrocia per strada vestito con un caftano nuovo, insieme alla figlia malata, anch’ella rivestita di tutto punto – «Coi miei guadagni i loro vestiti della festa», pensa. Nel confronto finale, Albert accusa il rabbino di truffa e nel colmo dell’ira si spinge a dare del figlio di puttana al padre, augurandosi che muoia. Con una scena che non ha nulla da invidiare a certe pagine dell’Antico Testamento, mentre il rabbino e sua figlia si stringono terrorizzati da quelle parole, il padre di Albert effettivamente muore.
Questo racconto racchiude in sedicesimo molti della narrativa malamudiana: una situazione di partenza dolorosa, una trama semplice, un dubbio non risolvibile. Il rabbino era davvero un truffatore pronto a lucrare sulla sofferenza altrui? Se Albert Gans avesse aspettato, suo padre sarebbe guarito davvero? Forse è un racconto fantastico. Forse un dramma di ispirazione talmudica. O forse una straordinaria indagine sul cinismo nascosto di un figlio, che di fatto condanna il proprio padre svelando tutta la sua incapacità di amore – il requisito centrale, al di là di ogni incantesimo o preghiera.
Naturalmente, una risposta plausibile è che sia tutto questo insieme: e credo che il segreto dell’arte di Malamud giaccia proprio qui.
A tal proposito, vorrei attirare la vostra attenzione su un dettaglio. Quando Albert torna dal rabbino, come ultima spinta per convincersi, gli chiede di mostrargli la corona d’argento. Lui prima nicchia, poi accetta: e il racconto piomba per una pagina in un’atmosfera da film espressionista. Le tende vengono tirate, un candelabro si accende nella stanza, il volto del rabbino appare allo specchio dove Albert rivolge lo sguardo – ma dietro di sé non c’è nessuno! Cosa diavolo sta succedendo? Albert torna a fissare di fronte a sé, e sulla testa del vecchio appare finalmente la corona. Malamud la descrive così:
Dapprima era apparsa come un turbante intrecciato di madreperla, poi era luminosamente diventata – come una stella intricata nel cielo notturno – una corona d’argento, costruita di sbarre, triangoli, mezzelune e quarti di luna, guglie, torrioni, alberi, punte di lancia; come se l’infuriar di una tempesta li avesse spazzati via da terra gettandoli tutti assieme nel suo vortice, ritorti in un’unica lucente scultura concatenata, una foresta di oggetti disparati.
Splendido, vero?
Momenti di bravura del genere si possono trovare ovunque nella sua opera (penso alla descrizione dei paesaggi in , o nel ritratto della Brooklyn autunnale del ), ma non prendono mai il sopravvento. È come se Malamud ti sussurrasse all’orecchio: . Già. La sua lingua non conosce la vertigine di DeLillo, la potenza affabulatoria di Roth e Updike, o la disperata vitalità di John Cheever. È irresistibile, e non c’è racconto o romanzo dove questo tono si perda: per me, costituisce la cifra più profonda della sua prosa.
Nella recensione del che citavo poc’anzi, Kiely lo definisce «uno scrittore di cui si impara a fidarsi». Non avrebbe potuto dirlo meglio. La voce di Malamud è quella di un vecchio amico: modesta ma ferma, ironica ma incapace di cinismo, dolcemente consapevole delle amarezze della vita ma sempre pronta a riscattarle con un sorriso, un gesto di conforto, il ricordo di qualunque cosa che ci ha reso vivi, anche solo per un istante. Più di tutto, Malamud ha un dono rarissimo: non perde mai la pietà nei confronti dei suoi personaggi. Anche quando si meriterebbero il dileggio, o un colpo di mano per sbarazzarsene, egli si china sopra di loro con la grazia di un buon padre.
C’è una parola per tutto questo, naturalmente, ed è : il fascino e il rispetto non solo nei confronti del processo creativo, ma anche del risultato che ne viene. Nell’intervista alla , alla domanda su cosa la scrittura abbia significato per lui, Malamud si schermisce dicendo che sarebbe troppo emozionato...