E-Book, Italienisch, 351 Seiten
Malamud Il Popolo
1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7521-756-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 351 Seiten
ISBN: 978-88-7521-756-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Nel leggendario Far West, Yozip, venditore ambulante ebreo e falegname occasionale, viene rapito da una tribù di pellerossa vessata dagli attacchi dei colonizzatori. Nominato quasi suo malgrado guida della tribù, diventa Capo Jozip: un «vero indiano ebreo» incaricato di condurre il Popolo nell'esodo verso una nuova Terra Promessa. Come i più celebri personaggi di Malamud, Yozip/Jozip è animato da buone intenzioni e destinato a scontrarsi con la tragedia, l'ilarità e il disprezzo: si farà carico delle disgrazie e delle sofferenze di due popoli, con la malinconia di non appartenere realmente a nessuno dei due. Pubblicato postumo, Il Popolo - accompagnato da sedici racconti scritti tra il 1940 e il 1984 - è tra le opere più ambiziose di Malamud, in cui l'autore dispiega un immaginario vastissimo e tutto il suo talento nel narrare storie in cui si mescolano realismo, mito e folklore, instillandoci, ogni volta, la meraviglia per le infinite possibilità della vita.
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PREFAZIONE
I romanzi incompiuti occupano un posto a sé nella storia della letteratura. È un dato che andrebbe riconosciuto anche dal punto di vista materiale, magari sgombrando uno scaffale della libreria di casa e allineando lì, una a fianco dell’altra, le opere rimaste imperfette – prigioni michelangioleschi, arcate piranesiane sospese sull’abisso dell’imponderabile. Perfino nelle biblioteche andrebbe istituita una sezione del non finito, nella quale il criterio dell’incompiutezza dovrebbe avere la meglio su ogni altro. Area geografica, dominio linguistico, scansione cronologica perderebbero di significato rispetto al fatto che, semplicemente, ci troviamo davanti a un testo che l’autore non ha ultimato. E anche l’autore finirebbe per assumere un valore molto relativo. Nel fallimento tutti gli autori si assomigliano. Sono, in effetti, un unico autore.
di Gogol’ e di David Foster Wallace, di Musil e di Nabokov, di Pasolini e di Dostoevskij, il Dickens del e tutto Kafka romanziere: , , , i manoscritti che Max Brod, contravvenendo alle disposizioni dell’amico, salva dalle fiamme e restituisce ai lettori. Una circostanza, questa, che rimanda al modello originario dell’incompiutezza letteraria, l’ di Virgilio, le cui mancanze ci possono apparire risibili (si tratta, in fondo, di una manciata di esametri rimasti da emendare), ma che risultavano intollerabili al poeta. Come sia andata lo racconta, non senza inventiva, la : in punto di morte Virgilio ordina che il poema venga distrutto, ma interviene Augusto in persona a proporre un compromesso. L’imperatore promette che, se l’ non verrà bruciata, agli schiavi di Virgilio verrà resa la libertà. Il poeta cede, non perché sia segretamente persuaso della propria opera, ma perché sa che l’esistenza umana conta più della letteratura che tenta di rappresentarla.
Sull’episodio, pressoché agiografico, Hermann Broch edifica lo splendido . Che non è soltanto, a dispetto della sua compiutezza, il documento di un’altra imperfezione, di uno dei tanti sentieri interrotti che il Novecento ha trascurato di percorrere, via mistica anziché razionale, e visionaria molto più che realistica. Nonostante il romanzo stia tutto intero davanti a noi, nelle sue pagine è implicito un manifesto del non finito, che dell’infinito è parente stretto. Non per niente, l’incompiutezza prende spesso a pretesto lo scrupolo religioso (è il caso di Gogol’, la cui mente è annebbiata dal parossistico rigorismo di un cattivo padre spirituale), alimentando il sospetto di una strutturale incapacità della parola umana al cospetto del mistero. Visitato dal fantasma della sconfitta, non c’è scrittore che non si domandi se la sua non sia, in fondo, un’impresa vana: se la pretesa di dare forma a una realtà indecifrabile e informe non sia una partita persa in partenza. Senza questa percezione di un limite invalicabile non si dà letteratura, ma si può comunque produrre eccellente intrattenimento.
«Il è un’incompiutezza se non ricercata, almeno accettata», sostiene Isabelle Miller in uno dei pochi studi specificamente dedicati al tema di cui sia a conoscenza. Principio difficile da generalizzare e che, con tutta probabilità, non vale per , il romanzo al quale Bernard Malamud ha lavorato negli ultimi anni della sua vita e che l’amico ed editor Robert Giroux ha pubblicato postumo nel 1989, con un procedimento che ricorda, almeno in parte, quello seguito da Edmund Wilson per un’altra celebre incompiuta della letteratura nordamericana, di Francis Scott Fitzgerald, il libro che noi italiani abbiamo a lungo conosciuto con il titolo, apocrifo e bellissimo, degli .
Oltre ai sedici capitoli ai quali Malamud era riuscito a imporre una sistemazione soddisfacente, Giroux sceglie di presentare gli appunti relativi ai restanti cinque capitoli, che conducono a conclusione la vicenda. Completano il volume, in una simmetria non del tutto involontaria, sedici racconti altrimenti inediti o comunque poco conosciuti, che rappresentano un notevole ampliamento rispetto al di allestito dallo stesso Malamud nel 1983. Ed è grazie a uno di questi racconti ritrovati, «Esorcismo», che riusciamo a comprendere quanto preoccupante risultasse per l’autore l’ipotesi di un romanzo incompiuto.
Il protagonista della storia è uno scrittore, non famoso ma stimato. Si chiama Fogel e la sua bibliografia si pone immediatamente sotto il segno della manchevolezza, composta com’è da «due libri e mezzo» («il mezzo», annota con leggiadra perfidia Malamud, «consisteva in un libello di versi mediocri»). Ma non basta, perché Fogel è celibe, quindi privo di una compagna, e perfino claudicante: l’andatura stentata è, ai suoi stessi occhi, il simbolo delle «sue carenze». Alle prese con l’ingombrante amicizia di un sedicente allievo, l’esuberante Gary Simson, Fogel sta lavorando a un nuovo romanzo, che procede con prevedibile lentezza:
Per un imperfezionista è difficile raggiungere la perfezione. Immaginò di morire prima che il romanzo fosse finito. Un pensiero terribile. Fogel si vide seduto alla scrivania con gli occhi sul manoscritto, la penna in mano e il foglio che terminava con una macchia.
Non è esattamente la descrizione del , ma non è neppure troppo distante. Se l’esorcismo del titolo intendeva scongiurare questa eventualità, il sortilegio non ha avuto successo. La genesi del racconto è però differente. Nel contrasto tra Fogel e Simson è adombrato il rapporto – che resterà sempre altalenante – tra lo stesso Malamud e il più giovane Philip Roth. Nel 1968, quando «Esorcismo» appare su , il primo è già l’autore affermato del e del , mentre il secondo sta per spiccare il balzo con , che uscirà l’anno successivo. Il sunto dello sgangherato racconto di Gary, basato sulle prodezze sessuali dell’amorale personaggio maschile, può essere inteso come una parodia dell’esasperato erotismo di Roth. Forse proprio per questo sottinteso polemico «Esorcismo», inizialmente incluso nella raccolta canonica del 1983, ne è stato poi espunto, fino al ripescaggio postumo all’interno del .
Roth, nel frattempo, si è preso la rivincita. In «Ritratto di Malamud», il controverso necrologio uscito sul il 20 aprile 1986, a poco più di un mese dalla morte dello scrittore, la lavorazione del romanzo testamentario viene rievocata in modo impietoso. Colpito da un ictus nel 1982 in conseguenza di un complesso intervento cardiaco, Malamud ha difficoltà nel linguaggio («da anni non riusciva neanche più a ricordare la tavola pitagorica», sottolinea crudamente Roth), eppure insiste nell’applicarsi a un libro che, agli occhi dell’amico venuto a visitarlo, non è nemmeno stato incominciato. «Su ogni pagina c’erano ben poche parole», insiste Roth, aggiungendo che «i capitoli scritti da Ben erano estremamente brevi».
Questi sono, o potrebbero essere, i difetti del . Del resto, è lo stesso Giroux ad ammettere che il romanzo non ha goduto del processo di scrittura e riscrittura al quale Malamud ha normalmente sottoposto i suoi capolavori. Quelle di Roth sono riserve ineccepibili, dunque. Non fosse che, nel caso di un libro incompiuto, i difetti sono da intendere come pregi.
Che cosa dimostra al lettore di Malamud? La relativa importanza della trama, tanto per cominciare. Perché una trama c’è, è riconoscibile e perfino gustosa. Ma non è questo che interessa di più all’autore. Le avventure del merciaio ambulante Yozip, che prima ancora di diventare un capotribù pellerossa sarebbe un falegname ebreo (come Gesù di Nazareth, sia detto per inciso), procedono con un andamento tutto sommato lineare, a volte con qualche eccessiva concessione al genere western nel quale il romanzo si inserisce, sia pure in modo recalcitrante. Basti pensare alla scena in cui il cappello da cowboy del povero Yozip viene preso di mira dal pistolero di turno, che lo fa saltare di qua e di là per dare prova della sua abilità con la Colt. Sembra davvero uno spezzone tratto da , la commedia diretta da Robert Aldrich nel 1979, con Gene Wilder nel ruolo del rabbino sperduto nella prateria e un emergente Harrison Ford in quello del suo spavaldo compagno.
L’accostamento tra questo film e non deve apparire strano: è già stato seriamente proposto in sede critica ed è sostenuto dal fatto che all’origine del libro si trova, come dichiarava lo stesso Malamud, una tipica storiella ebraica. C’entra, anche in questo caso, lo scrupolo religioso. Che cosa dovrebbe fare un indiano ebreo per rispettare i precetti alimentari? Dovrebbe usare due , uno per la carne e uno per i latticini. Tutto bene, fino a quando il bisonte non inizia a caricare e il nostro pellerossa non si accorge di aver portato con sé l’ascia sbagliata...
L’ironia della situazione riecheggia in diversi passaggi del romanzo. Anche dopo essere stato proclamato guida della tribù con il nome di Jozip (è un omaggio al defunto capo Joseph), il protagonista non abbandona la sua dieta vegetariana e...