E-Book, Italienisch, 599 Seiten
Malamud Le vite di Dubin
1. Auflage 2011
ISBN: 978-88-7521-355-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 599 Seiten
ISBN: 978-88-7521-355-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Riproposto finalmente oggi, a trentanni dalla sua prima pubblicazione nel 1979, questo romanzo è considerato uno dei migliori usciti dalla penna di Bernard Malamud. È la storia di William Dubin, biografo di mezza età, che vive una vita tranquilla insieme alla moglie in un piccolo centro di campagna dello stato di New York, studiando e raccontando le vite altrui nel tentativo, forse, di capire meglio la propria. Durante la stesura di una monografìa sullo «scandaloso» D.H. Lawrence, però, il suo mondo viene scosso dall'incontro con Fanny, una sua ammiratrice di trent'anni più giovane, vivace e disinibita. I due cominciano un'improbabile relazione adulterina che si snoderà, fra alti e bassi e in maniera spesso surreale, quasi sotto gli occhi della legittima moglie di Dubin, una donna al tempo stesso fragile e incrollabile. Dal corto circuito fra queste tre personalità Malamud, maestro dell'ironia e dell'affabulazione, crea una gustosissima commedia psicologica sulla natura enigmatica e contraddittoria delle nostre esistenze.
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Una nebbia leggera si stendeva su Venezia quel tardo pomeriggio di fine ottobre, quando vi giunsero in un’ora da Roma, dove il tempo era assolato e caldo. Dubin e Fanny, dopo essere sbarcati dal vaporetto – di una lentezza tremenda, ma lui era stato entusiasta di indicarle tra la foschia i monumenti, e i palazzi avvolti dalla nebbia – stavano seguendo un facchino che portava i loro bagagli su per una stretta calle. Là, mentre la nebbia si diradava consentendogli di scorgere altre persone avvicinarsi, al biografo parve che una ragazza dai capelli rossi aggrappata al braccio di un uomo brizzolato – entrambi si accostarono al muro per lasciar passare i nuovi arrivati e le loro valigie, per cui Fanny e l’anziano gentiluomo vennero a frapporsi momentaneamente tra Dubin e la rossa, nascondendogliela in parte – fosse sua figlia Maud. Trasalì, le gambe presero a tremargli e fu sul punto di gridare il suo nome, ma la necessità di nascondersi era inesorabile, per cui voltò la testa dall’altro lato, abbassandosi sugli occhi la tesa del cappello, e quando non più di un minuto dopo tornò a sbirciare i due, vide soltanto ombre nella nebbia. I capelli color bronzo sembravano essere scomparsi come il sole fiammeggiante che cala al tramonto fra cumuli di nubi caliginose.
Tormentato, rammaricato, sentendosi in pericolo, Dubin provò l’impulso di seguirli per stabilire se davvero quella fosse Maud, ma come poteva essere, a trimestre accademico già iniziato a Berkeley, dove le aveva telefonato e parlato appena poche sere prima? Si era sbagliato, senza dubbio, e d’altronde più di una volta aveva scambiato per Maud qualche altra giovane donna dai capelli rossi. Quel colore ti colpisce, e ti fa riconoscere qualcuno che invece non c’è. Fanny, con gli occhiali azzurrati, non aveva notato nulla e chiacchierava amabilmente. Il facchino continuava a precederli con le valigie. Dubin si sentiva ancora scosso, ma riuscì a ritrovare quasi del tutto la calma quando entrarono nel cortile dell’Hotel Contessa. Alle loro spalle il sole al tramonto sembrava un mezzo disco infuocato nella nebbia d’argento e la serata prometteva piaceri.
«Che cosa dicono le previsioni per domani?», domandò Dubin al portiere vestito di nero che, dietro il banco, stava esaminando i loro passaporti.
«Il tempo va migliorando, professore». Aveva arricciato per un attimo il naso: quel bocconcino di ragazza con un vecchio ambizioso? Dubin si rese conto che, accanto a lei, doveva sembrare più anziano di quando era solo.
«Non insegno all’università. Di professione faccio il biografo».
«La prego di scusarmi, voleva essere un complimento».
Dubin annuì affabile, non del tutto dispiaciuto dalla curiosità dell’uomo né dall’aura di aspettativa che Fanny creava intorno a sé ovunque si presentasse. Lo aveva un po’ stupito la sua mise fuori stagione – un voluminoso abito lilla, non certo la tinta che le donasse di più, e un cappello di paglia a tesa larga – nonostante l’estate, che si poteva dire indugiasse ancora a Roma, avesse ormai abbandonato Venezia. Portava gli occhiali da sole dalla montatura di metallo, orecchini di giada, e un piccolo crocifisso d’oro al posto della Stella di David.
«Così, per il gusto di mettermelo», aveva detto. «Mi piace sentirmi a mio agio dove mi trovo».
«Ma ti sentirai a tuo agio con te stessa?»
«Certe persone sono più libere di altre».
Di questo Dubin era sicuro. Fanny in vacanza stupiva, sconvolgendo le sue aspettative. Poteva tramutarsi in una donna splendida se si vedeva come tale. È fatta così, rifletté Dubin. E sia.
Con lei che si esibiva al suo fianco, chi avrebbe potuto notarlo in una nebbiosa viuzza di Venezia? Era certo che la donna incontrata non fosse Maud, eppure si domandò: se io mi stavo nascondendo, si nascondeva anche lei?
Il portiere fece cenno a due fattorini. Uno dei due, un giovanotto traboccante vitalità, afferrò come per istinto le tre valigie di Fanny e non volle cederne nemmeno una all’uomo più anziano che reggeva la logora valigia di Dubin; poi, insieme all’aiuto portiere, salirono adagio con l’ascensore rivestito a pannelli di legno, che aveva una porta a grata metallica.
L’aiuto portiere, un uomo ben rasato e incipriato, dai baffi neri e curatissimi, sbagliò per due volte camera prima di condurli in quella giusta. «Non capivo bene se fosse un tre o un sette il numero sulla scheda».
«Ma c’è anche sulla chiave», osservò Dubin. «Oh, ha proprio ragione», rispose l’attonito giovanotto, con gli occhi quasi sempre fissi su Fanny. Erano entrati in una piacevole camera matrimoniale, passando per un’altra, singola, che Dubin volle venisse chiusa a chiave dalla loro parte. L’aiuto portiere propose di tornare immediatamente con la chiave, ma Dubin disse che avrebbe potuto provvedere la cameriera la mattina dopo. L’uomo annuì, rattristato, anche se una banconota da mille lire parve calmargli i nervi.
La camera all’ultimo piano del Contessa era magnifica, con un alto soffitto dipinto e portefinestre che si aprivano su un balconcino dal quale si dominava il Canal Grande. La nebbia si era alzata e la vista che si spalancò dinanzi a loro – Venezia che galleggiava su una marea crescente in un sereno tardo pomeriggio di fine ottobre – insieme all’attesa della sua avventura amorosa, colmò Dubin di soddisfazione, perché gli parve giustificare la decisione di fare quel che stava facendo.
Si erano incontrati per caso, dopo la delusione newyorkese, nella Grand Street di Center Campobello. Dubin, al termine della passeggiata in campagna, aveva pensato di passarle accanto ignorandola; ma Fanny, avvicinatasi mentre lui esitava, di punto in bianco gli spiegò di essere tornata a prendere una lampada che aveva acquistato ma non era riuscita a sistemare sulla sua Volkswagen sovraccarica.
«Speravo di incontrarti. Avevo perso il nome dell’albergo, l’avevo scritto su un foglietto di carta, e tu non risultavi registrato negli altri due dove ho provato a rintracciarti».
«In quali hai provato?»
«Sono andata al Brevoort e anche al Plaza».
«Ero sceso al Gansevoort. Perché non mi hai telefonato, o perlomeno non mi hai scritto due righe, dopo?»
«Volevo farlo», rispose Fanny, «ma mi son detta che forse tua moglie non avrebbe gradito. E poi ce l’avevo con me stessa per aver perso il nome dell’albergo».
Dubin disse che Kitty non apriva mai le sue lettere. Scrutò Fanny negli occhi; sembrava davvero dispiaciuta.
Le telefonò due giorni dopo, a New York, per proporle una settimana in Italia.
«Perché no?», disse lei, dopo un attimo di esitazione. «Non ho ancora trovato lavoro, quindi per me va bene, se tu ce la fai».
Sull’aereo Dubin si era domandato: «Che cosa ci faccio qui, alla mia età, con una donna giovane come lei?» La risposta venne facile e lieta: «Me la sto godendo. Me lo sono meritato».
Fanny era affettuosa, effervescente; scherzavano tra loro. Gli si rannicchiava contro, con il cappello di paglia sulle ginocchia, la testa appoggiata alla spalla di lui, i capelli distesi come una bandiera sul suo petto. Aveva tradito un certo nervosismo prima del volo, scomparso però dopo che si erano portati in quota. Le difficoltà di Dubin consistevano nei ripensamenti: gli dispiaceva aver mentito a Kitty. Ci sarebbe dovuto essere un modo migliore. Gli venne in mente la frase di Lawrence: «La sincerità è più importante della fedeltà coniugale».
«...Kitty, parto con una bella figliola per una settimana. La prima scappatella in tutta la vita. Voglio fare questa esperienza prima di essere troppo vecchio. Non ti angustiare, torno presto, rimesso a nuovo e fedele come sempre».
Figuriamoci. Probabilmente lei gli avrebbe detto che al suo ritorno non l’avrebbe trovata. Kitty era vulnerabile; perché sconvolgerla? Aveva mentito soltanto per proteggerla.
Lui e Fanny si abbracciarono sul balconcino veneziano, con Dubin che le strofinava la bocca sul collo. L’alito caldo e floreale della ragazza attrasse la bocca del biografo sulla sua.
«Tra poco», mormorò lei dopo un lungo bacio. «Abbiamo viaggiato tutto il giorno e ho bisogno di fare un bagno».
«Vogliamo entrare insieme nella vasca?»
«Ci metto un secondo, amore».
Mentre Fanny faceva il bagno, Dubin si provò i pantaloni di un pigiama a righe che Kitty gli aveva comprato non molto tempo prima. Dopo essersi contemplato per un momento nello specchio dell’armadio, se li tolse e si mise della biancheria pulita. Non gli piaceva la pancetta che spuntava dai boxer, né le gambe esili, per cui s’infilò un paio di calzoni e si abbottonò la camicia.
Fanny, mentre la vasca gorgogliava e lo sciacquone scrosciava, uscì dal bagno con una camicia da notte bianca, corta. Il suo corpo splendeva. Si era spazzolata i capelli fino a renderli luminosi. Dubin, come un uomo sul punto di essere creato cavaliere, cadde in ginocchio e le abbracciò le gambe, schiacciandole il naso sull’ombelico.
Lei reagì sorpresa, irrigidendosi per un momento, poi gli fece scorrere con affetto la mano tra i capelli.
«Le cose che avevo in valigia sono sparpagliate dappertutto sul letto, quindi sarà meglio che finisca di metterle a posto, come hai fatto tu, vedo».
«Ho pensato di togliere di mezzo la mia roba».
«Lo faccio anch’io. Non ci vorrà molto».
«“Avessimo abbastanza mondo e tempo”, Fanny cara!» Dubin, alzandosi, sospirò.
...