E-Book, Italienisch, 201 Seiten
Malamud Ritratti di Fidelman
1. Auflage 2011
ISBN: 978-88-7521-320-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 201 Seiten
ISBN: 978-88-7521-320-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Arthur Fidelman, pittore fallito, arriva in Italia per completare uno studio critico su Giotto. Appena giunto a Roma, però, il perfido Shimon Susskind, ebreo come lui, gli sottrae con l'inganno il sudato manoscritto; per Fidelman inizia così una lunga serie di disavventure che lo vedrà peregrinare di città in città, arrangiandosi nei modi più disparati. Un'Italia trasfigurata - non più patria dell'arte e del Rinascimento, come immaginava Fidelman, ma terra ostile popolata da uomini e donne grotteschi - fa da sfondo al percorso esistenziale del protagonista, costretto a reinventarsi di volta in volta borseggiatore, falsario di quadri, protettore di prostitute, in una spirale che si interromperà soltanto con la sorprendente, conclusiva riscoperta di sé. Un classico antieroe malamudiano, sospeso suo malgrado tra il sublime dell'arte e il tragico della vita.
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INIZIAZIONE E METAMORFOSI
LE AVVENTURE ITALIANE DI ARTHUR
FIDELMAN, «PITTORE FALLITO»
di Emanuele Trevi
I.
Frutto di un lavoro intrapreso nel 1957 e proseguito lungo tutto il decennio successivo, il libro che tenete fra le mani è uno splendido ibrido, che possiede le caratteristiche sia del romanzo, sia della raccolta di racconti – senza più appartenere né all’uno né all’altro genere. In tutta l’opera in prosa di Bernard Malamud, non esiste un azzardo formale paragonabile a quello tentato in Pictures of Fidelman: An Exhibition, pubblicato a New York, da Farrar, Straus & Giroux, nel 1969. Il lento, meticoloso Malamud non è certo il tipo di scrittore che cede alle lusinghe di un’avventura gratuita. Ciò significa che le picaresche avventure italiane del pittore Arthur Fidelman, ebreo del Bronx ed eterno apprendista della vita e dell’arte, non potevano avere che la forma in cui le leggiamo. Di exhibition parla l’autore: dunque una mostra, un’esibizione, una successione di «quadri» che ci mostrano il suo eroe (a sua volta autore di «quadri») nei vari momenti di un itinerario di conoscenza e metamorfosi, di una vera e propria iniziazione. L’allusione, evidente, è a quei Quadri di un’esposizione di Modest Musorgskij che nel 1971, solo due anni dopo il libro di Malamud, Emerson Lake & Palmer trasformeranno in una sontuosa opera di rock progressivo, destinata a un successo planetario. Dunque la metafora inscritta nel titolo, se in superficie rimanda alle arti visive, in realtà indica nei movimenti di una sinfonia il modello più adeguato per la storia di Fidelman. Al continuum del romanzo si sostituisce insomma un organismo più complesso ed elusivo, nel quale le pause scandiscono il discorso, e lo rilanciano in avanti in maniera diversa da come accade nella successione di semplici capitoli. E così come i singoli movimenti di una sinfonia classica possono essere eseguiti e goduti nella loro autonomia, alcuni dei capitoli delle Pictures erano stati inseriti da Malamud, in veste di «normali» short stories, in precedenti raccolte: «L’ultimo dei mohicani» nel Barile magico (1958); «Natura morta» e «Nudo svestito» in Prima gli idioti (1966).
2.
«Fidelman, pittore fallito per sua stessa ammissione, arrivò in Italia per scrivere una monografia critica su Giotto, di cui aveva portato oltreoceano il primo capitolo in una borsa di cinghiale nuova che in quel momento stringeva forte nella mano sudata». Così Malamud, grande artista dell’incipit, ci presenta il suo eroe nelle prime righe dell’«Ultimo dei mohicani». Sceso a Napoli dal transatlantico, Fidelman intende trascorrere un breve periodo a Roma, frequentando musei e biblioteche, per poi dirigersi a Firenze. Povero in canna, gode del modesto aiuto economico di una sorella maggiore, che l’ha cresciuto come un figlio alla morte dei genitori. Per qualcuno che intende scrivere un saggio su Giotto, Roma dovrebbe essere una tappa secondaria di questo Grand Tour. Ma come i lettori impareranno ben presto, non c’è cosa al mondo più destinata alla disdetta di un progetto di Fidelman. Il suo procedere sembra consistere in un perenne insabbiarsi e smarrirsi negli enigmi della vita. E se l’Arte e l’Amore sono le sue fonti inesauribili di energia, e le radici di quella disponibilità al mondo che ce lo rende così simpatico, nemmeno così alti ideali potranno mai fornirgli un efficace amuleto. Perché la materia prima dell’apprendistato di questo viandante assoluto è il fallimento, la disfatta, l’incapacità di distinguere la realtà dall’illusione. Gli basta percorrere poche decine di metri, appena uscito dalla stazione Termini, per trovarsi invischiato senza rimedio in una situazione imprevedibile, senza nemmeno sapere come e perché. Come se una serie di Figure del Destino fossero sempre state lì ad aspettarlo, per condurlo sempre più all’interno di uno sconcertante e indecifrabile labirinto. La prima di queste figure si chiama Shimon Susskind, «ebreo profugo da Israele», scampato a chissà quali orrori e costretto a vivere di espedienti. Quest’uomo pretende l’aiuto che dovrebbe ottenere dalla carità e dai buoni sentimenti del prossimo – ed è questa paradossale forza psicologica a soggiogare Fidelman. Il genio comico di Malamud sfrutta qui una delle situazioni più sperimentate nella sua narrativa: l’influenza che un determinato individuo è in grado di esercitare, al di là di ogni ragionevole limite, su un altro. Che si fondi sul senso di colpa, sull’attrazione erotica, sulla curiosità, o su qualunque altro movente, dal più candido al più inconfessabile, questo magnetismo travalica puntualmente in una specie di ambigua magia, né bianca né nera. Fatto sta che Susskind, con la sua pretesa di un vestito nuovo, è un’ombra, l’incarnazione di un potere indefinibile dal quale Fidelman non riesce a liberarsi, fin quando il rapporto addirittura si inverte, ed è quest’ultimo che inizia a dare la caccia all’inquietante profugo, che gli ha rubato il primo capitolo del suo saggio. In questa situazione insieme angosciosa ed esilarante, trascorrono settimane, e poi mesi. Inutile dire che il libro su Giotto rimarrà una chimera, il primo dei tanti aspetti della personalità a cui Fidelman dovrà imparare a rinunciare nel procedere della sua iniziazione.
3.
Dal punto di vista dell’accoglienza critica, in tempi in cui ancora si trattava di una questione molto importante, Pictures of Fidelman fu forse il libro meno compreso di Malamud. Sintomatica, anche per il prestigio della firma, la stroncatura di Anatole Broyard, il finissimo critico del New York Times che, celando per tutta la vita le sue origini razziali, fece da modello al protagonista della Macchia umana di Philip Roth. In sostanza, Broyard rimprovera a Malamud di aver abbandonato, con l’ambientazione italiana del suo libro, lo scenario più consono alla sua poesia, quello dei poveri quartieri ebrei del Bronx e di Brooklyn. Mentre nel Commesso, il bellissimo romanzo del 1957, risultava efficace l’inserimento di un vagabondo di origini italiane in quel contesto così propizio all’arte di Malamud, l’operazione contraria, che proietta l’ombra dell’ebreo Fidelman sul cangiante ed elusivo scenario italiano, appare a Broyard meno efficace e tutto sommato artificiosa, come un’infelice incursione in una dimensione narrativa incapace di esaltare al meglio il talento dello scrittore. Broyard non è il primo e non sarà l’ultimo critico che, affezionatosi a una data immagine di uno scrittore (Malamud come cantore dell’umile vita degli ebrei di New York), mal ne digerisce quelle che considera deviazioni dalla via maestra. Ciò che totalmente gli sfugge, però, è il senso complessivo del libro, che non è una raccolta di racconti, ma un itinerario di trasformazione, la storia di un’anima alla ricerca di se stessa, una specie di allegoria morale che forse ha preso forma imponendosi gradualmente alla volontà dello scrittore. Da questo punto di vista, la scelta dell’Italia (Roma, poi Milano e il Lago Maggiore, Firenze, e infine Venezia) si rivela straordinariamente adeguata ai propositi che via via prendono corpo – e in linea con esempi nobilissimi della tradizione americana, dal Fauno di marmo di Hawthorne al Ritratto di signora di James, tanto per fare solo due esempi canonici. Più che le osservazioni dirette dovute ai viaggi e alle residenze di Malamud in Italia, sembra contare in questa scelta proprio l’ingombrante connotazione iperletteraria che inevitabilmente vi è implicata. L’Italia di Fidelman è il luogo propizio per un tipo di vicende che, sotto la scintillante superficie comica e picaresca, continuamente alludono a profonde e ineffabili verità interiori, a una lotta tra ciò che è vecchio e ciò che è nuovo che farà dell’eroe, al momento del ritorno in America, un uomo totalmente trasformato, redento non dai suoi peccati, ma dalla sua iniziale incompletezza. Quanto all’ebraismo, la prima tappa romana dell’itinerario di Fidelman culmina proprio nel vecchio Ghetto. È un’immagine allucinata, satura di un’angoscia di tipo decisamente onirico, che riveste un significato simbolico fondamentale per tutta la vicenda. Trasformatosi da preda in cacciatore di Susskind, Fidelman, racconta Malamud, «un venerdì sera, mentre la prima stella si accendeva sul Tevere, camminando senza meta lungo la riva sinistra del fiume, si imbatté in una sinagoga ed entrò, perso tra una folla di sefarditi dal viso ormai mezzo italiano». Lungi dal suggerirgli un’improbabile familiarità, quei «sefarditi» (tali sono in effetti gli ebrei di Roma) e il loro antico, labirintico, malsano quartiere alludono a un’origine solo per marcare con maggiore evidenza lo sradicamento di Fidelman, e in qualche modo accelerare l’inesorabile spoliazione della sua identità. Proprio come accade nei sogni più rivelatori (o almeno nelle interpretazioni che ne costruiamo) è proprio ciò che dovrebbe essere più noto a trasformarsi nel veicolo dell’ignoto, nell’immagine concreta di una irrimediabile solitudine.
4.
In «Natura morta», il secondo «quadro» del percorso di Fidelman,...




