Malvestio | La scrittrice nel buio | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 160 Seiten

Reihe: Intrecci

Malvestio La scrittrice nel buio


1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-6243-577-2
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 160 Seiten

Reihe: Intrecci

ISBN: 978-88-6243-577-2
Verlag: Voland
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Marco e Federico sono molto diversi: uno è timido e introverso, di famiglia umile, l'altro estroso ed esibizionista, figlio di ricchi padovani. E chi è Maria Zanca? È forse vero quello che si dice di lei in merito alla sparizione dello scrittore Vittorio Ferretti? Attraverso una costruzione a scatole cinesi 'La scrittrice nel buio' ci guida in un mistero letterario venato di soprannaturale, in cui lo scontro tra due giovani uomini interseca una figura femminile potente e disturbante.

Nato nel 1991 e lavora all'Università di Padova. Nel 2021 è uscito per Wojtek il suo primo romanzo, 'Annette'.
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CAPITOLO SECONDO
IL CARTEGGIO ZANCA


La scomparsa di Vittorio Ferretti nel 1971, insieme alla sua relazione con Maria Zanca, costituisce uno dei pochi elementi della sua biografia ad aver suscitato una qualche curiosità nei posteri, poiché è rimasta, a oggi, ufficialmente priva di spiegazione. Anche all’epoca, in fondo, se ne parlò solo per via della totale mancanza di indizi che la accompagnava, e per le speculazioni di varia natura suscitate dall’affiliazione politica di Ferretti. Invece ora emergevano delle fonti scritte da Ferretti proprio a ridosso della scomparsa, come specificava Carraro in una nota allegata all’epistolario, nella quale invitava a trattare quei documenti come qualcosa di più di un semplice archivio storico:

Questo carteggio contiene le lettere che ho scambiato con Vittorio Ferretti dalla metà del 1968 alla sua scomparsa nell’aprile del 1971. In quegli anni ero un aspirante scrittore, il cui esordio era ancora di là da venire, e guardavo a Ferretti come a un modello, anche in virtù della comune militanza politica e del medesimo mestiere di giornalisti. Lo scambio con Ferretti non è il più importante tra quelli che ho accumulato negli anni, dal punto di vista letterario. Io stesso sono il primo a riconoscere che forse all’epoca sopravvalutavo il lavoro di Vittorio, e mi sembra che anche la critica lo abbia ridimensionato. Il motivo per cui desidero che questo sia conservato è che copre due anni cruciali nella vita di Vittorio: quelli della sua relazione con Maria Zanca. Non mi risulta che ci siano altre fonti dirette così consistenti sul loro rapporto. Si tratta degli anni precedenti alla scomparsa di Vittorio, e non esito a dire che queste lettere potrebbero contribuire a spiegare cosa gli sia successo.

Ho incontrato Maria Zanca una volta sola, nell’aprile del 1971. È stato un incontro breve e teso e mi ha spaventato abbastanza da farmi desiderare che non si ripetesse mai più. Non sono riuscito a sapere cosa sia stato di lei, ma mi auguro, per chi deve curare queste carte, che sia morta.

Quest’ultimo paragrafo, all’inizio, generò in me e Federico una certa ilarità: ma dovemmo ricrederci presto. È tramite il contenuto dell’epistolario e il materiale raccolto in via provvisoria da Federico, dunque, che ricostruisco le vicende qui riportate.

Come scrittore, Ferretti (pure ben pubblicato) ebbe pochi lettori in vita, e ancor meno dopo la sua scomparsa. Quello per i minori della letteratura è un amore tutto peculiare che per alcuni di noi è impossibile non nutrire; Federico e io ci confrontavamo spesso su possibili controcanoni novecenteschi, e la mia stessa scelta di un autore così costantemente, programmaticamente eccentrico come Palazzeschi andava in quella direzione (“A te” mi diceva “piacciono gli ‘umoristi e i balordi’ di Contini, quella linea burchiellesca della letteratura italiana”). Il fascino di queste figure marginali, la commozione che suscita il loro insuccesso, il pensiero di qualcuno che ha passato tutta la vita a scrivere senza essere notato, o a cesellare una cosa sola o due, ma perfetta: per noi che in fondo temevamo di restare minori a vita e che dovevamo riscattare il nostro provincialismo, erano motivi per stimare qualcuno.

Ecco, questo non è il caso di Ferretti: niente di perfetto nel suo lavoro, semmai un misto di calcolo e velleitarismo atti a intercettare i dibattiti del tempo. La sua carriera è simile a quella di tanti altri in quegli anni, specialmente tra gli intellettuali di sinistra. Nato a Roma nel 1920 da una famiglia altoborghese, Ferretti si iscrisse ai Gruppi universitari fascisti nel 1940, quando studiava alla Sapienza, su suggerimento del collega più anziano Mario Alicata (“Falsa faccia di vera tragedia” come lo definì Fortini in uno dei suoi livorosi epigrammi); e sempre all’influsso di Alicata si deve l’avvicinamento al Pci clandestino. Nel frattempo, si capisce, c’era la guerra: e infatti dal 1943 Ferretti si unì alla Resistenza, partecipando ad azioni di sabotaggio delle truppe tedesche nella capitale e, una volta liberata Roma, coordinando azioni di propaganda. Questo, almeno, è quanto sosteneva lui: pare invece, a sentire certe malelingue, che il contributo di Ferretti alla Resistenza sia stato più che altro simbolico. Dopo la guerra, in ogni caso, venne assunto a “l’Unità”, dove continuò a lavorare per tutta la vita, occupandosi di cronaca politica ma non disdegnando incursioni nella pagina culturale. A differenza della maggior parte dei suoi colleghi, non abbandonò il Pci nemmeno dopo i fatti d’Ungheria, né diede mai segno (al contrario del suo direttore dell’epoca, Pietro Ingrao) di pentirsi di alcuni corsivi particolarmente livorosi contro il “Terrore bianco” che serpeggiava a Budapest a opera di “teppisti al soldo del capitale”; forse anche per questa lunga e indefessa fedeltà, prima della sua scomparsa si mormorava di una possibile candidatura alla Camera a quelle che sarebbero state le elezioni del 1972.

Nel 1945 Ferretti sposa Maddalena Brunori, figlia di un esponente del Pci spedito al confino dal regime. Brunori era una pittrice: con Federico andammo a vedere un paio di suoi quadri conservati al Guggenheim di Venezia. Nella grande sala semivuota, in quella mattinata infrasettimanale, Federico mi indicò due quadretti, due variazioni su uno stesso tema: figure astratte in posa su un capriccio di piante tropicali e piedistalli. Mi disse che si trattava di un mix non tanto riuscito dei due fratelli De Chirico; ma avrebbe potuto inventarsi qualsiasi cosa, perché io di pittura capivo poco. Più tardi, in macchina (perché Federico rifiutava di prendere il treno per andare a Venezia: i regionali, diceva, gli davano il mal di testa) mi spiegò che negli anni ’60 Brunori era diventata amica di Twombly, il cui stile aveva influenzato non poco le ultime cose di lei. In questo senso, rifletteva Federico, le andava dato il merito di essere stata tra i primi a riconoscere il suo valore (lui adorava Twombly), benché i quadri di lei non fossero niente più che derivativi. Del resto, aggiunse, non occorre essere bravi quando si è ricchi di famiglia. Quest’ultima frase Federico me la disse ridendo: segno che poteva riferirla a sé stesso o a me, che ricco di famiglia non ero, e nemmeno avevo tutto questo talento. Mentre attraversavamo il ponte della Libertà, il sole al tramonto colorava la laguna di un rosso sanguigno.

Anche la carriera letteraria di Ferretti ricalca in diverse maniere quella dei suoi contemporanei. Aveva prodotto una mole consistente di versi, ma perfino chi li aveva studiati, come Cavani, era pronto a dismetterli quali imitazioni tutto sommato grossolane di Pavese e Scotellaro, buoni giusto a offrire il ritratto di un Partito comunista in crisi d’identità. La sua fama, tuttavia, è legata soprattutto alle opere in prosa: tre romanzi pubblicati nell’arco di una quindicina d’anni a partire dal 1950, che imitano in varia misura la letteratura della Resistenza, il dramma borghese à la Moravia, e la nuova letteratura industriale. Con l’eccezione di qualche esperto particolarmente appassionato (o miope), e di qualche accademico interessato a sopravvalutare il proprio oggetto di studio, i giudizi sul lavoro di Ferretti concordano, al massimo, che si trattasse di un giornalista prestato talvolta alla narrativa, un personaggio di secondo o terzo grado i cui tentativi romanzeschi hanno il solo pregio di fare da specchio (perché così ovvi e forzati) agli aspetti più interessanti di un’epoca.

In realtà, una delle ragioni della fama di Ferretti è la sua onnipresenza nel panorama culturale dell’epoca: non c’è epistolario in cui non compaiano sue missive o in cui non venga perlomeno nominato, né personalità a cui non fosse introdotto. Complici la sua posizione al giornale e il denaro della moglie, Ferretti è ubiquo sia nei circoli letterari comunisti che in quelli meno politicizzati. Collaboratore assiduo del “Menabò” e di “Mercurio” (e amico intimo di Alba de Céspedes), comparsa nei primi film di Pasolini, corrispondente abituale di Vittorini, Pratolini e Calvino (che gli dedicano risposte molto più stringate delle sue), pare abbia avuto un ruolo non secondario nel fare avere a Curzio Malaparte la tessera del Pci. In una bozza preparatoria dei Funerali di Togliatti di Renato Guttuso compariva anche Ferretti, di tre quarti.

Ma se tutto questo è vero (e confermo che lo è, la mia opinione non deriva solo da pareri altrui, ma dalla lettura in prima persona di quegli scartafacci), perché Federico aveva deciso di buttarsi su Ferretti? Questo non contraddiceva le sue opinioni sulla letteratura? Onestamente, quando mi parlò del suo progetto di dottorato, rimasi stupito, mi sarei aspettato che Federico si lanciasse in qualche comparazione di ampio respiro sul modernismo o sul postmodernismo, visto che voleva lavorare con Veronesi, che di queste cose cianciava a tutto spiano. Era una scelta opportunistica – Veronesi, già in sede preliminare, doveva averlo orientato verso Ferretti prevedendo che avrebbe riscosso un interesse più trasversale tra i colleghi, e soprattutto presso Cavani, o addirittura presagendo o conoscendo già la donazione di Carraro. Cavani, quando gli avevo chiesto timidamente come mai avesse esordito proprio occupandosi di Ferretti, mi rispose che, per chi fa questo mestiere, prendersi cura di un piccolo orto è meglio che arare un campo troppo grande. Federico, invece, cercava di giustificarsi dicendo che per conoscere bene un periodo era meglio studiare gli autori minori, i maggiori testimoniano più il loro genio che il tempo in cui sono vissuti. E poi, sosteneva, i romanzi di Ferretti non sono così brutti come si dice: certo, alcune pagine erano giustamente malignate,...



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