E-Book, Italienisch, 158 Seiten
Manacorda Il corridoio di legno
1. Auflage 2012
ISBN: 978-88-6243-275-7
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 158 Seiten
ISBN: 978-88-6243-275-7
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Un poliziotto, atterrato a Berlino per un'indagine, torna al collegio in cui ha passato la sua adolescenza. Il collegio in cui si è formato un gruppo di amici che hanno dato origine alla lotta armata, una volta tornati in Italia. Per ragioni del tutto personali, vuole capire cosa è successo, da quale male privato è nato il male pubblico. Così ricostruisce la vicenda di due fratelli, dei loro sodali e delle loro donne tra Berlino, Roma e una piccola isola persa in un lago. Il tutto in uno scenario dominato dalle milizie di un regime autoritario, conseguenza della contestazione e del terrorismo. Un romanzo radicato nella concretezza dei luoghi ma fantastico quanto alla dimensione storica. La realtà non è andata così, ma così poteva andare a finire.
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Caro Friedrich,
ieri per un attimo ho avuto l’impressione di aver sfondato la quarta dimensione, come se avessi messo piede in un altro mondo, o su un palcoscenico abbandonato a un personaggio irrilevante, tanto irrilevante che è stato dimenticato dall’autore fuori tempo e fuori luogo. Oggi sono tornato dall’aiutante del Tedesco e ho cominciato un vero e proprio interrogatorio. Infatti, se mi ha riconosciuto come il fratello di Silvestro, è evidente che Silvestro sa che lo sto cercando. Il ragazzo sapeva molte cose senza sapere di saperle. Provo a dare un ordine alla sua narrazione: un giorno il Tedesco è arrivato con Stefano e Silvestro, il quale raccontava che qualcuno gli aveva sparato alla testa, una donna, e non sapeva perché. Era stato salvato, ma aveva perso la memoria. Si ricordava solo dell’ospedale, dei letti laccati di bianco, dell’azzurro polveroso delle pareti, degli infermieri, e di tutti quei malati in riga. Ricordava la notte in cui aveva allungato i piedi fuori dalle lenzuola fino al pavimento viscido e tiepido. Il morbido soffiare di quegli esseri umani, qualche passo ovattato, il roco lontano rombo di una macchina, diceva, e poi il rumore di un oggetto che cade. Qualcuno spostava seggiole, lui entrava in una stanza e aspettava. Era salito sopra un tavolo, aveva aperto una finestrella e con qualche fatica si era ritrovato fuori, nel giardino dell’ospedale. Era una notte calda e si era buttato sull’erba per prendere fiato, per calmarsi. Ma aveva sentito dei passi sulla ghiaia e aveva afferrato una pietra. Un colpo alla nuca e il poliziotto era caduto senza un lamento. L’aveva spogliato e si era infilato la divisa azzurrina completa di pistola e di berretto.
– Bravo, – dico al ragazzo – bene, sembra vero.
– È vero. Sono le sue parole. Parlava, parlava, parlava. Mi sembrava matto, parlava anche da solo. Sorrideva in un modo strano, per esempio ripensando a quella fuga dall’ospedale.
– E poi, cosa è successo?
– Niente.
Ma io ho capito che il Tedesco aveva accolto Silvestro facendo gli onori di casa, orgoglioso di quella casetta di mattoni pittata d’azzurro, della sua azienda di sfasciacarrozze, dell’officina, del capannone costruito con le sue mani, deposito di pezzi di ricambio ottenuti dalla demolizione degli autoveicoli.
– Gli ha detto che poteva stare qui, dormire nel nostro letto. Puoi stare qui, se vuoi, gli ha detto.
E indicava il letto matrimoniale con una certa timidezza ma anche con rabbia.
Il ragazzo ormai era un fiume in piena, raccontava tutto quello che gli passava per la testa, si sfogava, mollava gli ormeggi della sua sofferenza, si liberava. Non era molto che lavorava con il Tedesco, manovrava la gru e lasciava cadere sulle macchine il peso che le schiacciava e le compattava come saponette giganti. E si capiva che si divertiva con quel gioco da grandi. Ma tra il Tedesco e il suo aiutante c’era qualcosa di più di un semplice rapporto di lavoro. Lo sguardo opaco e devoto del ragazzo denunciava una servitù totale, fisica prima che morale. Il Tedesco aveva pulito la casetta, cambiato le lenzuola, rifornito d’acqua il bidone sul tetto. Aveva detto al garzone che si doveva trasferire nell’officina, ci doveva portare un materasso e le sue poche cose. Non avrebbero dormito insieme, doveva avere pazienza, ma quel suo amico non aveva dove andare, veniva da fuori e, comunque, devi farlo per me, gli disse facendogli una carezza, visto che gli si riempivano gli occhi di lacrime e abbassava la testa come un bambino.
– Stai tranquillo, verrò da te quasi tutte le sere. Qualche volta, però, dovrò andare via. Avrò da fare con i miei amici.
– Va bene, ma non mi lasciare. Se mi lasci mi ammazzo.
Lo guardava fisso con quella luce di mite follia che il Tedesco conosceva bene. Perché il ragazzo lo aveva trovato nei gabinetti della stazione che si era tagliato le vene, e sapeva che l’avrebbe fatto di nuovo, e in fondo lo amava per quel suo silenzioso commercio con la morte, per la quantità di assoluto contenuta nella sua scemenza, per il suo servile essere la vittima che lo possedeva:
– Se mi lasci mi ammazzo.
Lui non lo voleva lasciare, ma aveva paura di perdere la sua metà maschile. Sapeva, oh se lo sapeva, che aveva anche altre inclinazioni. Ma fino a quel momento le aveva considerate sbandamenti di gioventù, cedimenti occasionali. Quando si avvitava in quei pensieri cominciava a sudare e gli batteva il cuore – allora andava a Tor di Quinto, quasi sulle rive del Tevere, si aggirava tra i fuochi delle puttane: piccole timide braci con una sola donna sfiorita avvicinata da discreti uomini di mezz’età, o veri e propri falò con le più giovani, o anche bidoni trasformati in stufe arroventate che sparavano scintille nella notte tra i lazzi, le battute oscene dei ragazzi in moto, e la pazienza divertita delle donne, i loro inviti altrettanto sboccati. Il Tedesco si appoggiava a un albero, uno dei giganteschi platani del viale, e si placava alla vista di quella vita normale. Poi, più freddo, si faceva una puttana, senza scegliere, una qualsiasi, la più vicina, contro un muro, su un prato, dentro un fosso. Quella brutalità gli faceva bene. Dimostrato a sé stesso che era ancora un uomo, ritornava dal suo ragazzo e lo riempiva di tenerezze. Si vergognava di essere andato con la puttana, e si vergognava di essersi vergognato del loro amore.
– Ho conosciuto il Tedesco quando era giovane, non era così.
– Non mi importa. A me mi va bene com’è. Ma mi ha abbandonato. E io mi ammazzerò. Lui lo sa che lo farò.
Ho provato a proporgli di venire con me.
– Mi ha detto che torna.
Allora sono rimasto e ho proseguito il mio cauto interrogatorio. Il garzone mi ha raccontato che Silvestro stava sul letto della baracca (“Sul nostro letto”) a occhi aperti e parlava da solo. Dalle parole del ragazzo ho capito che tentava di mettere ordine dentro di sé, compilava l’inventario di quello che aveva capito. Era un uomo d’azione. Era stato un capo. Poi qualcosa si era spezzato. Con il passare del tempo almeno costruiva una storia a cominciare dal suo risveglio in ospedale, ecco perché, forse, ripeteva il racconto di quell’episodio. Secondo il garzone, Silvestro era molto triste, meditabondo, o parlava troppo o non parlava per niente, ma poi:
– Abbiamo mangiato tutti e tre sotto questa tettoia, su questo tavolo piantato nel terreno, senza tovaglia e con i piatti scompagnati, e loro parlavano fitto tra un boccone e l’altro, e hanno deciso che avevano bisogno di una base in centro, e che l’unico di cui si potevano fidare era Michele; che io non lo sapevo chi era.
Ma lo sapevo io chi era Michele, caro Friedrich, ai tempi del collegio era già uno freddo e senza scrupoli.
Il ragazzo mi ha raccontato che il Tedesco ha caricato Silvestro su un vespone, e ha detto agli altri due di prendere un Falcone grigioverde che doveva essere stato dell’esercito:
– C’era anche Stefano, che ha guardato la motocicletta con la scettica attenzione del fanatico e la venerazione dell’intenditore, la guardava come fosse una vecchia zia molto amata e molto malandata. Ma poi l’ha messa in moto al primo colpo.
– Chi è Stefano?
– E che ne so io!
– Ma che faccia ha? Come è fatto?
– Ha i capelli bianchi, un profilo da bambola e gli occhiali velati di azzurro sugli occhi pallidi, la carnagione pastosa e unta, olivastra.
Conosco anche lui. La mia intuizione era giusta: tutta gente del collegio.
– I capelli bianchi, ma è giovane.
E ha aggiunto:
– Ha il portamento eretto di chi si crede qualcuno. È stato lui a dire che la falegnameria di Michele stava dietro la Chiesa Nuova.
Il ragazzo, ormai ossessionato dai dettagli, e quindi un po’ prolisso, mi ha detto di aver preso la sua vecchia Lambretta (“Ci ho messo un anno a trovare tutti pezzi per restaurarla”) e di averli seguiti sull’Olimpica, poi sul Lungotevere lungo il Foro Italico, lasciandosi sulla destra il bianco squadrato obelisco di Mussolini e tutti gli impianti sportivi; sulla sinistra, il ponte Duca d’Aosta. Insomma, in pochi minuti erano in centro, in via del Governo Vecchio, con le botteghe rinascimentali ancora riconoscibili, ormai quasi tutti antiquari e trattorie all’aperto, cioè in mezzo alla strada, quanto di più profano in un rione in cui i papi avevano messo la sede del Governo Pontificio. Alle spalle della grande chiesa barocca che si affaccia su corso Vittorio, erano scesi attraverso il pertugio che si apriva nel basamento posteriore. Venti gradini e si erano trovati in un lungo ambiente ingombro di tavoli da falegname, mobili in lavorazione, attrezzi. Era la tana, l’antro in cui Michele si era nascosto o, meglio, mimetizzato. Attraversata una stanza quadrata che doveva essere il deposito del legname, percorrendo un piccolo corridoio erano arrivati nella sala macchine in mezzo al rumore delle seghe elettriche, nel rombo ovattato di due enormi aspiratori.
Gli occhi piccoli, i capelli dritti, agile e ironico, Michele era un intellettuale che aveva deciso di smettere di pensare. Aveva trasformato intelligenza e cultura in un’arma. Lui vedeva e capiva, aspettava solo il momento per colpire, l’occasione per balzare sulla preda. Aveva deposto ogni ideale e aveva accettato fino in fondo la più semplice ed elementare logica dei rapporti umani. Era un realista, quindi dispostissimo a divorare gli altri. Michele lavorava insaccato in un impermeabile che era stato bianco per proteggersi dall’umido di quella grande cantina, per evitare che il marcio di quel pezzo di Roma gli penetrasse nelle ossa. Appena li vide fermò le macchine. Poche parole bastarono per far brillare gli occhi al falegname. Tornati verso...