Maree Brown | Pleasure Activism Vol. 2 | E-Book | www.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 214 Seiten

Reihe: Not

Maree Brown Pleasure Activism Vol. 2

La politica dello stare bene
1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-8056-225-2
Verlag: Nero editions
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

La politica dello stare bene

E-Book, Italienisch, 214 Seiten

Reihe: Not

ISBN: 978-88-8056-225-2
Verlag: Nero editions
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Dopo aver affrontato nel primo volume il potenziale politico dell'erotismo e del sesso, adrienne maree brown estende la sua esplorazione del piacere a uno spettro più ampio di ambiti e possibilità, fino a includere le esperienze in cui ritrovare il piacere è una sfida. Accanto alle conversazioni sull'uso sano e consapevole delle droghe, sulla gioia del prendersi cura e del coltivare relazioni libere, sul piacere di abbigliarsi e performare su un palcoscenico, sull'umorismo e la risata come strategie politiche, l'autrice ci offre le voci di attiviste che incarnano e ispirano la politica del piacere, mettendolo al centro dell'esistenza anche in circostanze di cui spesso consideriamo soltanto gli aspetti più spiacevoli: l'età che avanza, i traumi profondi e gli abusi subiti durante l'infanzia, la perdita, la disabilità, la malattia. Il piacere è forza e medicina, imparare a godersi la vita non è una strategia di sopravvivenza, ma la premessa necessaria per scatenare l'energia collettiva contro le ingiustizie e le oppressioni del nostro presente distopico. Traduzione di Enrico Gullo. adrienne marie brown è scrittrice, doula, femminista e attivista per la liberazione Nera. Il suo lavoro di scrittura ruota attorno all'opera di Octavia Butler e Ursula K. Le Guin. È autrice di Emergent Strategy (AK Press 2017) e ha co-curato il volume Octavia's Brood. Science Fiction Stories from Social Justice Movements (AK Press 2015). Originaria di Detroit, oggi vive a Durham, NC. - Un libro che tocca corde della coscienza estremamente intime e personali, ponendoci interrogativi sulla percezione del tempo e, soprattutto, sul tempo non capitalizzabile e su come questo possa assumere i toni del piacere in una vita risucchiata da doveri, responsabilità e performatività. I-D Pleasure activism muove dalla considerazione che il piacere fa parte della vita, e che possiamo offrirci a vicenda gli strumenti e le idee per far sì che il sesso, il desiderio, le droghe, il contatto e altri piaceri non siano una minaccia o un danno, ma anzi un modo di arricchire le nostre esistenze. BOSTON REVIEW adrienne maree brown ci dice che possiamo trovare ancora speranza e amore in mezzo alla disperazione che ci circonda ogni giorno, e ci insegna che coltivare ciò che ci procura gioia è fondamentale per organizzarci contro l'oppressione. COLORLINES

adrienne maree brown è scrittrice, doula, femminista e attivista per la liberazione Nera. Il suo lavoro di scrittura ruota attorno all'opera di Octavia Butler e Ursula K. Le Guin. È autrice di Emergent Strategy (AK Press 2017) e ha co-curato il volume Octavia's Brood. Science Fiction Stories from Social Justice Movements (AK Press 2015). Originaria di Detroit, oggi vive a Durham, NC.
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LE CONDIZIONI DELLA POSSIBILITÀ

Una conversazione con Monique Tula

Dopo anni di lavoro sulla riduzione del danno a livello locale, Monique Tula è diventata la prima donna razzializzata a dirigere la Harm Reduction Coalition (HRC), che lavora per ridurre i danni derivanti dal consumo di droghe. Ho avuto l’onore di agevolare l’HRC in questa transizione, e così si è chiuso un cerchio, poiché questo è stato il mio primo lavoro retribuito nel campo della giustizia sociale. Monique e la riduzione del danno sono parti fondamentali dell’attivismo del piacere.

amb. Innanzitutto, puoi raccontare alla nostre lettrici che cos’è la riduzione del danno?

Monique. La riduzione del danno è un movimento per la giustizia sociale fondato sul valore e il rispetto dei diritti delle persone che fanno uso di droghe. La riduzione del danno combina due strategie fondamentali: 1) le strategie di salute pubblica per ridurre i danni correlati all’uso di droghe; 2) le campagne di promozione e riforma delle politiche sull’uso di sostanze, volte a contrastare i danni causati alle comunità dalla guerra alle droghe. La nostra linea è che ogni persona ha diritto alla salute e al benessere. E ogni persona ha il diritto di partecipare al dibattito sulle politiche pubbliche.

La nostra missione è creare le condizioni della possibilità che entrambe le cose possano avere luogo nella tutela delle persone, assicurando loro gli strumenti necessari per rivendicare diritti per sé stesse.

Spinto dalla convergenza tra la crisi dell’HIV/AIDS e la guerra alle droghe, trent’anni fa un gruppo di persone visionarie ha preso la coraggiosa decisione di prendersi cura e difendere i diritti di chi faceva uso di droghe e stava morendo di Aids. Questa decisione ha portato alla nascita di un’intera comunità con la visione anarchica di mantenersi al sicuro rompendo con il regime di «giustizia» criminale che dominava le politiche sulla droga. A fondare il movimento per la riduzione del danno furono soprattutto persone che facevano o avevano fatto uso di droghe, persone razzializzate e provenienti dall’attivismo LGBTQ+ e figure storiche dei movimenti per la giustizia sociale. E insieme hanno cambiato il mondo.

amb. I princìpi della riduzione del danno hanno plasmato il mio approccio politico: l’idea che chi consuma droghe sia il soggetto protagonista di qualsiasi percorso di riduzione del danno, di qualsiasi cambiamento nella sua stessa vita… questo è ancora oggi un aspetto radicale e fondamentale della mia concezione di lavoro politico per il cambiamento. Puoi condividere alcuni dei princìpi su cui ti basi e che orientano il tuo lavoro?

Monique. Innanzitutto, nessuna persona dovrebbe essere punita per ciò che introduce nel proprio corpo se non causa danni al prossimo. Foundation for a Drug-Free World stima che più di 200 milioni di persone nel mondo consumino «droghe illegali». L’indagine nazionale sull’uso di droghe del 2016, la National Survey on Drug Use and Health, riporta che negli Stati Uniti questa cifra raggiunge quasi 25 milioni. Che stime otteniamo se sommiamo a queste anche le droghe «legali»?

E, cosa ancor più importante: cosa c’è nelle droghe che spinge così tante persone a farne uso?

A volte vogliamo semplicemente sentirci diverse da come ci sentiamo ogni giorno. A volte abbiamo bisogno di trovare un modo per fuggire dalla faticosa realtà della nostra vita. Cosa c’è di criminale in questo?

Le persone che fanno uso di droghe diventano «altro» sulla base di comportamenti che non sono culturalmente accettati, sono uno dei gruppi più stigmatizzati e criminalizzati della società. Se contrai l’HIV o l’epatite C diciamo che è colpa tua, non esitiamo mai a sottolineare la tua mancanza di forza di volontà e di autostima. Patologizziamo le persone che fanno uso di droghe e le consegniamo a rappresentazioni stereotipate. Le rendiamo «altre».

La stigmatizzazione implica un processo di forte disapprovazione sociale delle caratteristiche o le convinzioni di una persona, che sono considerate inaccettabili sulla base delle norme culturali dominanti.

Il ciclo dello stigma legato alle droghe rafforza gli stereotipi e le etichette, che a loro volta rafforzano lo stigma, il quale crea una serie di assunti a priori sui ruoli che le persone ricoprono o devono ricoprire. Queste aspettative portano a una riduzione delle opportunità in base a ciò che si pensa che chi usa droghe sia in grado di fare, il che a sua volta produce aspettative interiorizzate e rafforzate. Ciò porta al reiterarsi di comportamenti sempre più negativi che che ostacolano la possibilità per chi usa droghe – o per qualsiasi comunità emarginata – di liberarsi.

È diventato più facile giudicare le persone che consumano droghe invece che vederle come esseri umani che meritano amore. Spesso è più facile imporre aspettative semplicistiche e moraliste anziché chiedersi: ma non è che forse… quella persona fa uso di droghe per mitigare lo stress o l’impatto di un trauma passato, o presente, o di altri problemi di salute mentale?

Non è che forse quella persona proviene da un contesto sociale in cui l’uso di droghe è diffuso e perciò è una «norma» culturale?

E se il consumo di droga facesse parte di una pratica spirituale?

Se fosse un modo per entrare in contatto con la propria interiorità o il proprio Io creativo?

E se chi usa le droghe lo facesse semplicemente perché prova un grande piacere nel farlo?

E se le persone che fanno uso di droghe fossero, prima di tutto, persone, qualcosa di molto più complesso della somma delle droghe di cui fanno uso?

Nella maggior parte delle culture tendiamo a giudicare una persona quando «perde il controllo» dell’uso di sostanze. Chi si droga diventa «altro», il riflesso sciagurato di tutto il peggio dell’umanità. Seminiamo disprezzo e terrore attorno a chi usa le droghe. La riduzione del danno è un modo per cambiare questa narrazione.

Il compianto Don McVinney, uno della «prima generazione» di riduzionisti del danno negli Stati Uniti, parlava spesso dell’approccio morale americano all’uso di droghe, che in fondo riconduce il problema al singolo individuo.1 Secondo Don, la riduzione del danno «individua il problema [se questo esiste] nella relazione tra la persona e la droga, perché tanta gente usa sostanze ma non lo fa in modo problematico».

Esistono sei princìpi fondamentali della riduzione del danno, tutti incentrati sulle persone che fanno uso di droghe:

salute e dignità: il diritto di stare bene e di essere viste come persone complete.

Servizi incentrati sulle situazioni specifiche di chi partecipa: incontrare le persone nel punto del percorso in cui si trovano, invece che dove noi vorremmo che si trovassero.

Coinvolgimento attivo delle persone che fanno uso di droghe sia nella progettazione dei servizi che nei confronti aperti sulle politiche pubbliche.

Autonomia: il diritto e la capacità di fare le proprie scelte.

Competenza socioculturale: interagire con le persone in modo da valorizzare le loro abitudini, le loro convinzioni, le loro pratiche e le loro esperienze.

Pragmatismo: non ignorare né minimizzare i danni reali e potenzialmente tragici associati ad alcuni comportamenti.

Questi princìpi ragionevoli e umani sono alla base del nostro lavoro e si fondano sull’esperienza quotidiana di coloro che fanno uso di droghe: stigma, trauma, povertà, classismo, discriminazione razziale, sessuale e di genere, isolamento sociale e altre disuguaglianze che incidono sulla vulnerabilità e sulla capacità di affrontare in modo efficace i danni.

I princìpi della riduzione del danno riconoscono anche che l’uso di alcune droghe non ha necessariamente un nesso con la dipendenza. In pratica, la riduzione del danno consiste in un continuum di strategie che vanno dal lavoro per sostenere l’astinenza dalle sostanze, quando si sceglie questa via, alla riduzione dei rischi legati all’uso controllato o addirittura caotico di sostanze. Indipendentemente dal punto di questo continuum in cui si trova, una persona merita di essere trattata con rispetto e considerata alla pari.

amb. Prima di diventare socia e amministratrice della Harm Reduction Coalition, qual è stata il tua esperienza con la riduzione del danno?

Monique. Vengo da almeno quattro generazioni di persone che fanno uso di droghe. Mio nonno iniziò a fare uso di eroina negli anni Trenta, e andò avanti a intermittenza per quarant’anni. Mia nonna Mary Ellen diede alla luce mio padre, Darrell Lee, quando aveva solo sedici anni. Era la sua seconda gravidanza. Durante la prima fu costretta ad abortire contro la sua volontà. Prima di lasciare la sala parto, le furono legate le tube. Chiedendosi perché le fosse stata tolta la possibilità di avere altri figli, Mary Ellen bevve ogni giorno fino a quando non sopraggiunse la morte, per un cancro al seno, all’età di 51 anni.

Darrell Lee visse con la zia Mabel a Chillicothe, in Ohio, più o meno fino all’età di sedici anni. Non conosceva il padre e si chiedeva perché sua madre non lo avesse cresciuto. Iniziò a soffrire di ansia e depressione quand’era molto giovane e non aveva le parole per descrivere quello che sentiva. Inoltre, proveniva da una cultura del non esporre pubblicamente le questioni personali, quindi teneva per...



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